Luigi Pirandello

L'esclusa


parte 1

XI

        Marta, Maria e la madre s'erano da poco levate di letto, quando udirono il campanello della porta tintinnire discretamente. Maria si recò ad aprire e, guardando prima dalla spia, vide un vecchietto poveramente vestito, insieme con due giovinotti, in attesa dietro la porta.
        - Che volete? - domandò, incerta, dalla spia.
        - Ziro, l'usciere, don Protògene, - rispose il vecchietto stirandosi i peli bianchi ricciuti della barba a collana. - Favorisca d'aprire.
        - L'usciere? Ma chi cercate?
        - Non è questa la casa di don Francesco Ajala? - domandò l'usciere Ziro ai due giovinotti che l'accompagnavano.
        Maria aprì timidamente la porta.
        - Perdoni, signorina, - disse uno dei giovinotti. - (Don Protògene, datele la carta). Ecco, signorina, faccia vedere codesta carta alla mamma. Noi aspetteremo qua.
        La signora Agata si faceva in quel momento anche lei alla porta.
        - Mamma, - chiamò Maria, - vieni a vedere... io non so...
        - Ziro, l'usciere, don Protògene, - si presentò di nuovo il vecchietto, levandosi questa volta dal capo risecco il tubino spelato che gli si sprofondava fin su la nuca. - Non faccio... diciamo piacere, ma... la Giustizia comanda, noi portiamo il gamellino.
        La signora Agata lo squadrò un poco, stordita; poi spiegò la carta e lesse. Maria, intimorita, guardava la madre; il vecchio usciere approvava col capo a ogni parola e, quando la signora levò gli occhi dalla carta, non comprendendo bene, disse con voce umile:
        - Codesta è l'ordinanza del pretore. E questi due sono i testimonii.
        I due giovinotti si scappellarono, inchinandosi.
        - Ma come! - esclamò la signora Agata. - Se mi avevano detto...
        Anche Marta, adesso, s'era fatta alla porta, a sentire; e i due giovinotti se l'ammiccavano dal pianerottolo, dandosi furtivamente gomitate.
        - Ma come... - ripeté la signora Agata, smarrita, rivolta a Marta. - L'avvocato mi aveva detto...
        - Tante cose dicono gli avvocati... interloquì, con un certo sorrisetto che lo fece arrossire, uno dei giovinotti, tozzo e biondo. - Lasci fare a noi, signora, e vedrà che...
        - Ma se ci tolgono...
        - Mamma, - la interruppe Marta, alteramente, - è inutile star qui a discutere. Lasciali entrare. Sono comandati: debbono fare il loro dovere.
        - Con dolore, sì... - aggiunse don Protògene. - Eh, purtroppo...
        Chiuse gli occhi, aprì le mani e applicò la punta della lingua al labbro superiore.
        - Abbiano pazienza, - riprese poco dopo, - donde dobbiamo cominciare? Se la signora volesse avere la bontà...
        - Seguitemi, - ordinò Marta. - Ecco il salotto.
        Aprì l'uscio ed entrò avanti a gli altri per dar luce alla stanza, che da tanti mesi dormiva con gli scuri chiusi, abbandonata. Poi, rivolta alla madre e alla sorella, soggiunse:
        - Andate via. Attenderò io a costoro.
        I due giovinotti si guardarono mortificati; e il biondo, ch'era un forense, già galoppino di Gregorio Alvignani e che aveva pregato insistentemente il vecchio usciere di portarselo con sé come testimonio, per curiosità di veder Marta da vicino, disse, guardandosi le unghie lunghe, scarnate:
        - Noi siamo dispiacenti, creda, signora...
        Marta lo interruppe, con lo stesso piglio sprezzante:
        - Sbrigatevi. Son discorsi inutili.
        Don Protògene, tratto dalla tasca in petto un foglio di carta, un calamajo d'osso con lo stoppino e una penna d'oca, si disponeva a comporre l'inventario del salotto, quando, guardando in giro e vedendo soltanto poltrone e seggiole imbottite, su cui non stimò buona creanza mettersi a sedere, chiese con umile sorriso a Marta:
        - Se la signora volesse avere la bontà di farmi portare una seggiola...
        - Sedete pur lì, - disse Marta, indicando una poltrona. E il vecchietto sedette in punta in punta, per obbedire; con la mano tremolante armò di lenti l'estremità del naso e, stendendo la carta sul tavolinetto tondo che stava davanti al canapè, scrisse con solennità in capo al foglio: «Sallotto» con due elle. Ciò fatto, s'inserì la penna su un orecchio e, stropicciandosi le mani, disse a Marta:
        - Naturalmente questi mobili rimarranno qua, esimia signora; io adesso fo soltanto, così, sopra sopra, un piccolo inventario, con la stima.
        - Ma potete anche portarli via, - disse Marta. - Fra giorni lasceremo questa casa, e tanta mobilia non entrerebbe nella nuova.
        - Vuol dire che si provvederà, - concluse don Protògene. E cominciò a notare: - Un pianoforte...
        Marta guardò il pianoforte che Maria aveva tante volte sonato, e anche lei, da ragazza, fino a tanto che la passione per lo studio non le aveva tolto il tempo d'attendere alla musica. E man mano che il vecchio e i due giovinotti nominavano, notando, i varii oggetti, gli occhi di Marta vi si affisavano un tratto, rievocando un ricordo.
        Era venuta, nel frattempo, Anna Veronica, a cui la signora Agata, avvilita, piangendo, comunicò la nuova sciagura.
        - Anche questo! in mezzo alla strada... Ah, Signore, non avete pietà? neanche di quell'orfana innocente, Signore?
        E con la mano indicò Maria che se ne stava con la fronte contro i vetri della finestra, per nascondere alla madre il pianto silenzioso.
        - Marta? - domandò Anna Veronica.
        - Di là, con loro... - rispose la signora Agata, asciugandosi gli occhi. - Se la vedessi: impassibile; come se non si trattasse della casa nostra..
        - Agata mia, coraggio! - disse Anna. - Dio ci vuol provare...
        - No! Dio, no, Anna! - la interruppe la signora Agata, stringendole un braccio. - Non dire Dio! Dio non può voler questo!
        E con la mano accennò di nuovo a Maria, soggiungendo sottovoce:
        - Che spina! che spina!
        Anna Veronica, allora, per divagarla, le parlò della nuova casetta.
        - Vengo di là. Se la vedessi! Tre stanzette piene d'aria e di luce. Non tanto piccole, no: oh, vi starete benissimo... E poi, un terrazzino! Buono da stendervi il bucato; sì, vi sono anche i cordini di ferro; quattro pali agli angoli; e affacciandovi di là, guarda, possiamo proprio stringerci la mano, così... La finestra della mia cameretta è proprio dirimpetto... Le notti di luna...
        Anna s'interruppe: in un baleno rivide una notte del tempo passato: il seduttore sentimentale aveva abitato in quella casetta, ove tra pochi giorni sarebbero andate ad abitare le sue amiche. Turbata, cangiò discorso:
        - Mente mia! guarda... me ne dimenticavo ed ero venuta apposta! Ho da darvi una buona notizia. Sì... - e chiamò: - Maria! Vieni qua, figliuola mia... Sù, asciughiamo codeste lagrime; qua a me il fazzoletto. Oh, così... brava! Dunque, vi do parte e consolazione che la figlia del barone Troìsi si marita... Scommetto che non ve ne importa nulla; ma a me sì, care; perché la signora baronessa, pare impossibile! ha la degnazione di dare ad allestire qua in paese il corredo della figlia, capite? e per buona parte me ne sono tolto il carico io. Così lavoreremo tutti, e Dio ci ajuterà. A casa nuova!
        - Permesso? - fece a questo punto Ziro, l'usciere, su la soglia, inchinandosi goffamente, con la penna d'oca su l'orecchio, il calamajo e la carta in una mano, la tuba nell'altra.
        I due giovinotti lo seguivano. Sopravvenne Marta.
        - Avanti, entrate pure. Mamma, tu va' di là. Oh, sei qui, Anna? Conduci, ti prego, Maria e la mamma di là.
        - Hai visto? - disse la madre all'amica, alludendo a Marta. - Come s'è potuta ridurre così?
        - Come, Agata? osservò Anna Veronica. - Perché vuoi credere che non soffra nulla? Non vorrà darlo a vedere in questo momento, per farvi animo...
        - Sarà, - sospirò la madre. - Ma tu lo sai; sei stata qua con noi: mentre l'inferno si scatenava, come si scatena tuttora su la mia povera casa, che ha fatto lei? Se n'è stata chiusa di là, come se non avesse voluto accorgersi di nulla. Mi par miracolo che oggi si veda per casa, che s'interessi un tantino di noi... Che scrive? che legge? Mi vergogno, Anna mia, ridotta come sono a badare a certe cose. Io e Maria andiamo presto a letto per risparmiare il lume, e lei lo tiene acceso fino a mezzanotte, fino alle due del mattino... Studia... studia... Ed io mi domando se la malattia, per caso, non le abbia dato al cervello... Come! - dico, - sa in quale stato ci siamo ridotte... il padre morto, la rovina... la miseria... e lei può attendere così alla lettura... appartata, tranquilla, come se nulla fosse?
        Anna Veronica ascoltava, addolorata: neppur lei arrivava a comprendere quel modo d'agire di Marta, tanta noncuranza, anzi peggio, insensibilità: non egoismo veramente, giacché anche lei era coinvolta nella rovina.
        - Permesso? - venne a ripetere, poco dopo, anche su quella soglia l'usciere, seguito dai testimonii.
        E anche da quella stanza le tre donne uscirono; e così, di stanza in stanza, furono quasi respinte da quella casa, che di lì a tre giorni abbandonarono per sempre.
        Nella nuova, dopo il malinconico sgombero e il riassetto, Anna Veronica portò la tela odorosa, il bisso molle e delicato, e le trine e i nastri e i merletti della baronessina Troìsi.
        La signora Agata, guardando Maria intenta al lavoro, tratteneva a stento le lagrime: ah, ella non avrebbe mai atteso a cucire il suo corredo da sposa: sarebbe rimasta così, povera figliuola, orfana e sola, sempre...
        Marta, nella nuova casa, seguitava a tenere lo stesso modo di vita. Anna Veronica, però, non se ne stupiva più: Marta le aveva confidato un suo proposito, imponendole di non parteciparlo né alla madre né alla sorella.
        Lo partecipò lei finalmente, una sera, uscendo rannuvolata dalla sua camera. S'era preparata agli esami di patente, che sarebbero cominciati la mattina appresso alla Scuola Normale. Anna Veronica aveva presentato la domanda per lei, pagando, coi suoi risparmii, la tassa.
        La madre e la sorella restarono.
        - Lasciatemi fare, - disse Marta, urtata dal loro stupore. - Non mi contrariate, per carità. -
        E tornò a chiudersi in camera.
        Giungeva in tempo a dar gli esami con le antiche compagne di collegio. Le avrebbe dunque rivedute! Non si faceva illusione su l'accoglienza che le avrebbero fatta. Sarebbe andata incontro a loro col contegno di chi si tenga pronto a lanciare una sfida: sì, e non ad esse soltanto, se mai, ma a tutto il paese, di cui ora rivedeva le vie, per cui la mattina seguente sarebbe passata. Avrebbe guardato in faccia la vigliacca gente che nel giorno della festa selvaggia l'aveva pubblicamente oltraggiata.
        Pensando all'enorme folla imbestiata nel vino e nel sole, tumultuante con le braccia levate sotto i balconi dell'altra casa, Marta sentiva più forte l'impulso alla lotta; sentiva veramente, in quella vigilia, che sarebbe risorta dall'onta vile e ingiusta; armata di sprezzo e con l'orgoglio di poter dire: «Ho sollevato dalla miseria mia madre, mia sorella: esse vivono ora per me, di me!».
        A poco a poco, confortata da questi pensieri, e la cura dell'avvenire sovrapponendosi nell'anima di lei alla costernazione per l'imminente prova, giunse a vincere la trepidazione; ma non cessò la smania, e quella si ridestò e crebbe, fino a divenire smarrimento, la mattina, al levarsi da letto.
        Non sapeva più ciò che dovesse fare: si guardava attorno, quasi aspettando che la povera e scarsa suppellettile della camera glielo suggerisse, richiamandola: là il catino, in cui doveva lavarsi; qua la seggiola, su cui erano le vesti che doveva indossare. Poco dopo si diede a far tutto frettolosamente.
        Mentre si pettinava, così alla meglio, senza specchio, entrò la madre già pronta per accompagnarla.
        - Oh brava, mamma! Finisci di pettinarmi tu, ti prego... È tardi!
        E la madre si mise a pettinarla, come soleva ogni mattina quando ella si recava a scuola. Finito, guardò la figlia: Dio! non le era sembrata mai tanto bella... E provò un vivo ritegno pensando che doveva uscir con lei per la città, condurla tra gli sguardi maligni della gente, a un'impresa che, nella schiva umiltà della propria indole, non sapeva né comprendere, né apprezzare. Pensava che quella bellezza, quell'aria di sfida che Marta aveva nello sguardo, avrebbero forse dato cagione alla gente d'esclamare: Guarda com'è sfrontata!
        - Sei così accesa in volto... - le disse, schivando di guardarla; e avrebbe voluto aggiungere: «Tieni gli occhi bassi per via».
        Scesero finalmente la scala e s'avviarono strette fra loro, mentre Maria, dietro i vetri della finestra, le seguiva cogli occhi, trepidante.
        La signora Agata avrebbe voluto essere almeno della metà men alta di statura, per non attirare tanto gli sguardi della gente e passare inosservata; correre in un baleno quella via che le pareva interminabile. Marta invece pensava all'incontro con le antiche compagne, e non si dava col pensiero tanta fretta di sottrarsi alla via.
        Arrivarono per le prime al Collegio.
        - Oh signorina bella! Come mai? Qua di nuovo? Guarda come s'è fatta grande! Oh faccia rara... - esclamò la vecchia portinaja, gestendo, dall'ammirazione espansiva, con la testa e con le mani.
        - Nessuno, ancora? - domandò Marta, un po' imbarazzata, sorridendo benevolmente alla vecchia.
        - Nessuno! - rispose questa. - Lei, sempre la prima... Si rammenta quand'era piccina così e, ogni santa mattina, bum! bum! bum! calci al portone... Gesù mio, era quasi bujo... Si rammenta?
        - Ah, sì! - Marta sorrideva... - Ah, i bei ricordi!
        - Vogliono entrare in sala? - riprese la vecchia. - La signora sarà stanca...
        E, guardando la signora Agata in volto, sospirò, tentennando il capo:
        - Povero signor Francesco! Che pena... Non ne vengono più al mondo galantuomini come quello, signora mia! Basta. Il Signore benedetto l'abbia in gloria! Credo che l'uscio della sala d'aspetto sia ancora chiuso. Abbiano pazienza un tantino, vado a prender la chiave.
        - Buona donna! - fece a Marta la signora Agata, grata dell'accoglienza rispettosa.
        Dopo un minuto la vecchia portinaja tornò di corsa dicendo:
        - Anche mia figlia Eufemia dà oggi gli esami con lei, signorina Marta!
        - Eufemia? Sì? Come sta?
        - Poveretta, non dorme più da tante notti... Ah, per questo, buona volontà non gliene manca... Lei che ha tanto talento, signorina, oggi, se mai, me l'ajuti un po'! Dicono ch'è la prova più difficile! Or ora la faccio venire giù: così le terrà compagnia... Ecco, loro intanto s'accomodino qua.
        E pulì con un lembo del grembiule il divano di cuojo.
        - Se Eufemia studia, non la chiamate, - disse Marta alla vecchia che già usciva.
        - Ma che! ma che! - rispose la vecchia senza voltarsi.
        Eufemia Sabetti era stata, fin dalle prime classi, compagna di scuola di Marta, quantunque maggiore almeno di sei anni. Cresciuta nella scuola, in mezzo a compagne molto superiori a lei di condizione, aveva assunto una cert'aria signorile che formava l'orgoglio della madre, la quale poi lo scontava a costo d'innumerevoli sacrificii. Eufemia, è vero, dava del tu a tutte le compagne, portava il cappellino, aveva tratti e lezii da vera «signorina»; ma era pur rimasta nella considerazione delle compagne la figlia della portinaja. Le compagne veramente non glielo spiattellavano in faccia: no, poverina! ma glielo lasciavano intendere o dal modo con cui le guardavano la veste e il cappellino, o col piantarla lì qualche volta per prestare ascolto a un'altra delle loro. Ed Eufemia faceva le viste di non accorgersene, per mantenersi in buoni rapporti con esse.
        - Oh Marta! Che fortuna! - esclamò entrando e accorrendo a baciar l'amica, senza impaccio. Salutò, ridendo, la signora Agata, e sedette sul divano, lasciando in mezzo Marta. - Che fortuna! - ripeté. - Come va? Qua di nuovo con noi? E farai gli esami?
        Era bruna, magrissima, miserina nella veste latt'e caffè, guarnita di nero. Parlando fremeva tutta, agitava continuamente le pàlpebre su gli occhietti vivi da furetto; ridendo scopriva la gengiva superiore e i denti bianchissimi.
        Cominciavano di già le domande imbarazzanti. E bisognava pur rispondere alla meglio alle più discrete; le altre però che restavano negli occhi d'Eufemia costringevano le parole di Marta a non esser sincere.
        La signora Agata si alzò.
        - Io torno a casa, Marta. Ti lascio con l'amica. Coraggio, figliuole mie!
        Uscendo dalla sala d'aspetto, vide nell'atrio un crocchio di signorine in abiti gaj d'estate, tra le quali riconobbe alcune antiche compagne di Marta. Queste tacquero a un tratto e abbassarono gli occhi mentr'ella passava. Nessuna la salutò: una sola, Mita Lumìa, le rivolse un lieve cenno del capo.
        La vecchia portinaja aveva loro annunziato la venuta di Marta.
        - Badate, ci vuol faccia tosta! - diceva una.
        - Io, per me, non entro, - dichiarava un'altra.
        E una terza:
        - Che viene a fare con noi?
        - Oh bella, gli esami: potete impedirglielo? - rispondeva Mita Lumìa, urtata anche lei, ma non così accanita come le altre.
        - Va bene; ma accanto a lei, - protestava una quarta, - non seggo, neanche se il direttore stesso viene a impormelo!
        E una quinta diceva a Mita Lumìa:
        - Se non sappiamo neppure come dobbiamo chiamarla! Pentàgora? Ajala?
        - Oh Dio! Chiamatela Marta, come la chiamavamo! - rispose la Lumìa infastidita.
        Nello stesso tempo Marta, con amaro sorriso, diceva alla Sabetti:
        - Chi sa che dicono di me...
        - Lasciale cantare! - le rispose Eufemia.
        Irruppero e attraversarono la sala quattro del crocchio, di corsa, senza volgere gli occhi al divano.
        Marta, quantunque grata in fondo alla Sabetti della compagnia che le teneva, non poteva tuttavia sottrarsi a un senso d'avvilimento nel vedersela accanto; non per sé, ma per quelle pettegole che la vedevano insieme con quella lì, accolta cioè dalla figlia della portinaja.
        Si alzarono. Entrò in quella Mita Lumìa senza fretta.
        - Oh, Marta... Come stai?
        E tentò un sorriso e porse la mano, molle molle.
        - Cara Mita... - rispose Marta.
        E rimasero lì un breve tratto senza saper dire una parola di più.


parte 1

XII

        L'invidia da un canto, dall'altro gl'intrighi spezzati, le aspirazioni deluse trassero agevolmente dalla calunnia una scusa alla loro sconfitta.
        Era chiaro!
        Marta Ajala avrebbe occupato il posto di maestra supplente nelle prime classi preparatorie del Collegio, solo perché «protetta» del deputato Alvignani.
        E vi fu, nei primi giorni, una processione di padri di famiglia al Collegio: volevano parlare col Direttore. Ah, era uno scandalo! Le loro ragazze si sarebbero rifiutate d'andare a scuola. E nessun padre, in coscienza, avrebbe saputo costringerle. Bisognava trovare, a ogni costo e subito, un rimedio.
        Il vecchio Direttore rimandava i padri di famiglia all'Ispettore scolastico, dopo aver difeso la futura supplente con la prova degli ottimi esami. Se qualche altra avesse fatto meglio, sarebbe stata presa a supplire in quella classe aggiunta. Nessuna ingiustizia, nessuna particolarità...
        - Ma sì!
        Il cavalier Claudio Torchiara, ispettore scolastico, era del paese e amico intimo di Gregorio Alvignani. A lui i reclami si ritorcevano sotto altra forma e sotto altro aspetto. Voleva l'Alvignani rendersi impopolare con quella protezione scandalosa?
        E invano il Torchiara s'affannava a protestare che l'Alvignani non c'entrava né punto né poco, che quella della maestra Ajala non era nomina governativa. Eh via, adesso! Che sostenesse ciò il Direttore del Collegio, transeat!, ma lui, il Torchiara, ch'era del paese; eh via! Bisognava aver perduto la memoria degli scandali più recenti...
        Era venuta dunque così dall'aria quella nomina dell'Ajala? E in coscienza se il Torchiara avesse avuto una figliuola, sarebbe stato contento di mandarla a scuola da una donna che aveva fatto parlare così male di sé? Che fior di maestra per le ragazze!
        Se a Marta, ogni dì più oppressa dalla crescente miseria, mentre furtivamente, non compresa dai suoi, chiusa nella sua cameretta, si preparava a quegli esami, si fosse per un momentino affacciato il pensiero che avrebbe incontrato, sott'altro aspetto, quasi la stessa vigliacca e oltraggiosa rivolta popolare; forse le sarebbe a un tratto caduto l'animo. Ma spronavano allora la sua baldanza giovanile da un canto troppa ansia di risorgere, dall'altro la miseria in cui senza riparo ella e la sua famiglia precipitavano e la coscienza del proprio valore e la santità del suo sacrifizio per la madre e la sorella. Pensava allora soltanto a vincere la prova; sarebbe poi riuscita nel suo intento, avvalendosi della prova superata.
        Ora, ora intendeva lo stupore doloroso della madre e della sorella all'annunzio della sua animosa determinazione. E ancora non le era arrivata agli orecchi la calunnia di cui la gente onesta si armava per osteggiarla, per ricacciarla bene addentro nel fango da cui smaniava d'uscire!
        La vecchia Sabetti era intanto venuta ad annunziarle, addolorata, che al posto già promesso a lei avrebbe insegnato la Breganze, nipote d'un consigliere comunale.
        Nel frattempo, alla notizia inattesa che Marta intendeva darsi all'insegnamento, la pietà di Rocco Pentàgora, prossima a cangiarsi in rimorso, improvvisamente aombrata, s'era cangiata, invece, in dispetto.
        Egli non vide in quella determinazione di Marta le strette della necessità, l'urgenza di provvedere ai bisogni primi della famiglia, ai quali lui stesso di nascosto avrebbe voluto provvedere; vide soltanto l'ardita e sprezzante volontà di lei di levar la fronte contro tutto il paese, quasi dicendo: «Basto a me stessa e ai miei: non mi curo della vostra condanna». E si sentì messo da parte; non solo non curato, ma anche disprezzato e deriso dalla moglie. E una smania rabbiosa cominciò ad agitarlo, la quale si manifestava specialmente in uno sdegno incomprensibile per la professione ch'ella voleva darsi a esercitare:
        - La maestra! La maestra! Colei che fu mia moglie, ora deve fare la maestra!
        E non se ne poteva dar pace, come se fare la maestra significasse un disonore per il nome che aveva portato.
        Intanto, come impedirglielo? come farsi vivo? come farle sentire che non poteva non curarsi di lui, spezzare la catena, sottrarsi al peso morto d'un legame, a cui non s'era mantenuta fedele?
        E le smanie crescevano... Un nuovo scandalo? una nuova vendetta? Si sarebbe prestato a fomentare la calunnia della pretesa relazione tra Marta e l'Alvignani, pubblicando le lettere che questi le aveva scritte? No, no! Il ridicolo sarebbe caduto più apertamente sopra di lui. Tanto, il paese credeva a quella relazione scandalosa, e il partecipare alla calunnia gli avrebbe fatto soltanto sentire vieppiù l'impotenza sua contro colei che mostrava di non curarsi né di lui né di nessuno. Meglio anzi fare in modo che quella calunnia si sventasse. Sì... ma come? E qui un sorgere e un immediato abortire di propositi contrarii, ora dettati dall'odio per l'Alvignani, e furibondi, ora dalla stizza, ora dall'amor proprio ferito, ora dalla generosità.
        Usciva di casa, senza direzione. A un tratto, si ritrovava per la strada del sobborgo, presso alla concerìa di Francesco Ajala. Che era venuto a fare fin qua? Oh, se avesse potuto vederla... Ecco la vecchia casa... Adesso ella abitava più giù... dopo la chiesa... E si avanzava cauto, guardando furtivamente ai rari balconi illuminati. Al primo rumore di passi in distanza, per la strada solitaria, tornava indietro per non farsi scorgere in quei dintorni; e rincasava.
        Ma il giorno appresso, daccapo.
        Perché quella smania di rivedere Marta, o meglio, di farsi rivedere da lei? Non lo sapeva neppur lui. Se la immaginava vestita di nero, come Niccolino l'aveva veduta quel giorno, in chiesa.
        - Sai? Più bella di prima!
        Ma ella, certo, non lo avrebbe guardato; avrebbe abbassato subito gli occhi scoprendolo da lontano. Fermarla per istrada? parlarle? Follie! E che avrebbe pensato la gente? E lui, che le avrebbe detto?
        In tali condizioni di spirito, una mattina, si recò in casa di Anna Veronica.
        Nel vederselo davanti, pallido, sconvolto, Anna restò.
        - Che vuole da me?
        - Scusi dell'incomodo... Stia, stia seduta, prego. Prendo la seggiola da me.
        Ma tutte le seggiole erano ingombre di biancheria ammonticchiata, e Anna dovette alzarsi per liberarne una.
        - Quanta bella roba... - fece Rocco, imbarazzato.
        - Della baronessa Troìsi.
        - Per la figlia?
        Anna accennò di sì col capo, e Rocco trasse un sospiro, contraendo la fronte e infoscandosi. Si ricordò dei preparativi delle sue nozze, del corredo di Marta.
        - Ecco la seggiola, - gli disse Anna, con impacciata premura.
        Rocco sedette, cupo. Non sapeva da qual parte incominciare il discorso. Restò un momento con le ciglia aggrottate, gli occhi bassi, insaccato nelle spalle, come in attesa di qualche cosa che dovesse cadergli addosso. Anna Veronica, ancora presa dallo stupore, lo spiava in volto acutamente.
        - Lei... già saprà... m'immagino, - cominciò egli finalmente, impuntando a ogni parola, senza alzar gli occhi. - So che è amica di casa di... e anzi...
        S'interruppe; non poteva seguitare in quel tono, in quella positura. Si scosse, alzò la testa e guardò Anna in faccia.
        - Senta, signora maestra, io credo che... sì, io non credo a ciò che la gente va dicendo contro di... Marta, adesso, per questa sua nuova pazzia...
        - Ah, - fece Anna, crollando il capo con un mesto sorriso. - La chiama pazzia, lei?
        - Più che pazzia! - rispose Rocco, pronto, con ira. - Scusi...
        - Non so che vada dicendo la gente, - riprese Anna. - Me l'immagino... E lei fa bene, signor Pentàgora, a non crederci; tanto più che nessuno meglio di lei può sapere. -
        - Non parliamo di questo! non parliamo di questo, la prego! - saltò a dir Rocco, ponendo le mani avanti. - Non sono venuto per parlare del passato.
        - E allora? Scusi, se lei stesso dice che non crede... - tentò d'aggiungere Anna.
        - Che cosa? Sa che dice la gente? - domandò egli con voce alterata. - Che la corrispondenza con l'Alvignani séguita... Ecco!
        - Séguita?
        - Sissignora. E questo perché? Per l'eterna sua smania di comparire! Ma come... tu sai ciò che ti pesa addosso, sai quello che hai fatto, e hai il coraggio d'uscire in piazza a sfidare la maldicenza del paese? La gente parla... Sfido! Come ha ottenuto quel posto?
        - Ma si sa! - fece Anna con amarissimo sdegno. - Così soltanto oggi si ottengono i posti! E sono loro, i tanti guardiani dell'onestà che ha il nostro paese, che insegnano il modo e la via... Fate così, perché tanto... lo facciate o no, è tutt'uno; per noi sarà sempre come se l'aveste fatto. Sciocca Marta, dunque, che non l'ha fatto, è vero? Che le ha giovato? Chi ci crede?
        - Io non ci credo, le ho detto, - rispose Rocco, infoscandosi maggiormente. - E pur nondimeno ritengo che, se la gente sparla, non ha tutti i torti... Che vuole che si capisca d'esami fatti più o meno bene? Si pensa all'intrigo, si pensa! Eh, non vuol guardarci, lei, da quest'altro lato... Ecco perché può scusarla!
        - Non solo, sa? - gridò Anna, levandosi, - ma anche lodarla, signor Pentàgora! Io lodo Marta e l'ammiro! Perché entro nella coscienza di quella povera figliuola e, se ci vedo un rimorso per gli altri che penano per lei ingiustamente, non ci trovo però né macchia né peccato, davanti a Dio! Ci trovo il bruciore per le offese, per gli oltraggi patiti, ci sento un grido: «Ora basta!». Ma sa lei come sono ridotte? Sa che non hanno più neanche da mangiare? A chi spettava di sostenere la madre e la sorella? di rialzarle un po' dalla miseria? So io, so io il sacrifizio che le è costato, povera Marta! O dovevano morire di fame per far piacere a lei e al paese?
        Rocco Pentàgora si alzò anche lui, stravolto, con la faccia pezzata qua e là di rosso; s'aggirò smaniosamente per la stanza, tastando i mobili, agitando continuamente le dita; poi s'accostò ad Anna, con gli occhi torvi, le afferrò le mani:
        - Senta, signora maestra... Per carità, le dica... le dica che rinunzii all'idea di... di far la maestra; che... che non dia più cagione alla gente di sparlare e... e provvederò io, dica così, ai bisogni della sua famiglia, senza... senza farlo sapere a nessuno... neanche a mio padre, s'intende! Glielo prometto su la santa memoria di Francesco Ajala! Non lo faccio per amore, creda! lo faccio per decoro, di lei e mio... Glielo dica...
        Anna Veronica promise di far l'ambasciata: e poco dopo egli, ripetendo raccomandazioni e promesse, andò via più turbato e smanioso di com'era venuto.
        - Per decoro, non per amore... Glielo dica. Per decoro! siamo intesi...


parte 1

XIII

        Anna Veronica scappò in fretta dalle Ajala, appena andato via Rocco Pentàgora.
        - Dov'è Marta? - domandò piano a Maria, ponendosi un dito su le labbra.
        - Nella sua camera... Perché?
        - Zitta! Piano!
        Fece segno alla signora Agata d'accostarsi; si guardò d'attorno:
        - Lasciatemi sedere... Tremo tutta... Ah, care mie, se sapeste! Indovinate chi è venuto da me, poco fa? Il marito di Marta!
        - Rocco! Lui! - esclamarono insieme, sottovoce, Maria e la madre, stupite.
        Anna si ripose il dito su le labbra.
        - Come un pazzo, - aggiunse, agitando le mani per aria. - Ah che paura! La ama ancora, ve lo dico io! Se non fosse... - Ma sentite: dunque, è venuto da me. Io, dice, non credo alle calunnie della gente...
        - E allora? - scappò dal cuore alla madre.
        - Giusto così: e allora? gli ho detto io, come te. Ma egli, Marta, dice, - aspetta! - non doveva, dice, esporsi alla malignità della gente, far la maestra, insomma... N'è sdegnato, avvilito... Basta: sapete, care mie, che m'ha proposto? Che io induca Marta a rinunziare alle sue idee... Provvederà lui, dice, ai bisogni vostri; tanto perché la gente non sparli più.
        - E nient'altro? - sospirò a questo punto la signora Agata. - Ah, con un po' di danaro soltanto, somministrato di furto, come in elemosina, intende di chiudere la bocca alla gente? E domani non si dirà che il denaro ci venga da altra mano? Oh sciocco e vile!
        - No! no! - riprese Anna. - Non dire così... È innamorato, credi a me... Ma c'è quel cane giudeo del padre, capisci? e finché c'è lui... Se Marta intanto volesse scrivergli un biglietto...
        - A chi?
        - A lui, al marito! da intenerirlo; una lettera come lei sola sa scriverne... Questo sarebbe proprio il momento! «Tu sai bene,» dovrebbe dirgli, «quanto ci sia stato di vero... e ora vedi come sono trattata? ciò che si dice di me?» Ah, se volesse scrivergli queste due parole... Tanto più che me l'ha chiesta lui una risposta... Che ne dite?
        - Marta non lo farà! - disse Maria, scotendo il capo.
        - Proviamo! - replicò Anna. - Volete che le parli io? Dov'è?
        - Di là, - accennò la signora Agata. - Ma temo che non sia il momento...
        - Vado io sola, - aggiunse Anna, levandosi.
        Marta era stesa sul lettuccio, con le braccia conserte sul guanciale e la faccia nascosta; appena sentì schiudere l'uscio restrinse le braccia e vi cacciò più addentro il volto.
        - Sono io, Marta, - disse Anna, richiudendo l'uscio pian piano.
        - Lasciami, per carità, Anna! - rispose Marta, senz'alzare la testa, agitandosi sul letto. - Non tentare di confortarmi!
        - No, no, - s'affrettò a soggiungere Anna Veronica, accostandosi al lettuccio e posandole lieve una mano su le spalle. - Volevo soltanto vederti...
        - Non voglio veder nessuno, non posso sentire nessuno, in questo momento! - riprese Marta smaniosamente. - Lasciami, per carità!
        Anna ritrasse subito la mano, e disse:
        - Hai ragione...
        Attese un pezzo, poi riprese sospirando:
        - Troppo bello... troppo facile sarebbe stato! T'immaginavi che la gente non dovesse impedirti d'andare per la strada che ti sei aperta col lavoro, con l'ingegno, col coraggio... Ma a che servono, cara mia, queste cose? Protezioni ci vogliono! Ne hai? No... Si va avanti con queste soltanto; e ognuno giudica come pensa...
        Marta levò improvvisamente la testa dal guanciale e disse con ira:
        - Ma se l'avevano promesso a me, quel posto!
        - Sì, - replicò subito Anna, - ed è infatti bastato questo soltanto, questa semplice promessa non mantenuta, perché la gente cominciasse a gridare che tu eri protetta da qualcuno...
        - Io? - fece Marta, non comprendendo dapprima e guardando negli occhi Anna Veronica. Poi diede un grido: - Ah!... Io... io... - E non poté dir altro; si premette il volto con le mani; poi proruppe: - Eh già! sì... sì... così deve credere la gente! Ci sarà chi va spargendo questa nuova calunnia!
        - Lui, no, sai? tuo marito, no, - disse subito Anna. - È venuto da me apposta, per dirmelo.
        - Rocco? - esclamò Marta, sbalordita, tentando invano d'aggrottare le ciglia. - Rocco è venuto da te?
        - Sì, sì, poco fa... per dirmi che non ci crede!
        - Da te? lui?
        Lo sbalordimento impediva ancora all'odio di trovare la ragione di quella visita.
        - E che vuole?
        - Vuole... - rispose Anna, - vorrebbe che tu...
        - Sai che vuole? - scattò Marta, con gli occhi lampeggianti. - Gli è mancato il coraggio; ha rimorso, da un canto; e, dall'altro... io ho tentato di alzare la testa, è vero? ebbene, e lui, giù! vorrebbe farmela riabbassare, giù! giù! nel fango in cui m'ha gettata! Questo vuole! Io non debbo più respirare; non debbo cancellarmi dalla fronte, qua, il marchio, il marchio con cui ha creduto di bollarmi! Questo vuole! Oh, se gli do questa soddisfazione, di rimanere appiattata nel fango, come una ranocchia ch'egli possa schiacciare col piede, se gliene venga la voglia; se gli do questa soddisfazione, sai? ma sarebbe anche capace di mantenermi, di darmi da vestire e da mangiare, a me e ai miei...
        Anna la guardò sorpresa e dolente.
        - Non vuole questo, di'? - incalzò Marta. - Ho indovinato? Vuoi darlo davvero a conoscere a me? Gli leggo in fronte, come in un libro, ciò che gli passa per il capo!
        - Se tutto questo volessi scriverglielo... - arrischiò timidamente Anna.
        - Io? a lui?
        - Perché vorrebbe una risposta...
        - Da me? - fece Marta, con sdegno. - Io, scrivere a lui? Ma io... guarda, piuttosto... giacché nulla è valso per costoro e la mamma e Maria per vivere debbono avvilirsi con me al servizio altrui... io, guarda, a un altro piuttosto scriverei... a Roma...
        - No, Marta! - esclamò Anna, afflitta.
        - No... no... - si disdisse subito Marta, rovesciandosi di nuovo sul letto, con la faccia affondata nei guanciali. - No... lo so! Morire di fame, piuttosto...
        Anna Veronica non seppe dirle più nulla. Carezzò con gli occhi pietosi, sul letto, quel corpo fiorente, scosso dal pianto; con una mano le rassettò sui piedi un lembo della veste che le si era rimboccato su la gamba.
        Sospirò e uscì dalla camera.
        Né la signora Agata né Maria, rivedendola, le domandarono nulla. Tutt'e tre stettero in silenzio un lungo tratto, con gli occhi fissi nel vuoto.
        - Se tu andassi dal Torchiara? - suggerì Anna, alla fine.
        La signora Agata la guardò, come per dire: «A far che?».
        - È un'ingiustizia, - aggiunse Anna. - Qualche cosa il Torchiara ti dirà... Anche per sentire... Potete durare così?
        Da due giorni, infatti, Marta non prendeva quasi cibo, buttata lì sul letto, irremovibile.
        - Che vuoi che mi dica? - Sospirò la signora Agata. - Ormai il posto è dato...
        - Ma era stato promesso a Marta, prima! - disse Anna.
        - Ti spiegherà... No, senza farti illusioni, lo so; ma ti dirà almeno qualche buona parola. Per scuotere questa povera figliuola... Sù, Agata mia, va'... Ora stesso! Lo so, è un sacrificio...
        - Per me? - fece desolatamente la signora Agata, levandosi e aprendo le braccia.
        Tutto per lei, ormai, era come niente. Non aveva più volontà. Si appuntò la cuffia vedovile su i capelli divenuti grigi in pochi mesi, e disse:
        - Per me, vado subito...
        Come se avesse veramente da vergognarsi di qualche cosa, schivava però per via gli sguardi della gente. Erano tanti, tutto il paese era per l'ingiustizia, per la condanna; e s'era nascosto il marito, l'uomo che non aveva chiesto mai nulla, che non s'era mai inchinato ad alcuno. Che era lei? Una povera donna era, sbigottita da quella ingiustizia, sbigottita dalla sciagura; e si vergognava, sì, della miseria, si vergognava della veste che aveva indosso. Marta, Marta avrebbe dovuto starsene rassegnata e dimessa, ad aspettare giustizia dal tempo: avrebbero lavorato tutte e tre insieme, nell'ombra, e tirato innanzi alla meglio; senza andare a suscitare di nuovo tutta questa guerra.
        Ecco la casa del Torchiara. Salì a stento, ansimando, la scala; davanti all'uscio prima di sonare, si nascose il volto con le mani.
        - È solo? - domandò per prima cosa alla serva, che venne ad aprirle.
        - No, c'è il professor Blandino, - le rispose questa.
        - Allora... aspetto qua?
        - Come vuole... Intanto, l'annunzio.
        Poco dopo, il cavalier Claudio Torchiara, scostando con una mano la tenda dell'uscio e rialzandosi con l'altra sul naso le lenti fortissime da miope che gli rimpiccolivano gli occhi, chiamò:
        - Venga avanti, favorisca, signora!
        La prese per mano e la condusse davanti al canapè dello studio.
        La signora Agata, inchinando il capo con un sorriso mesto, sedette in un angolo del canapè.
        - Il professor Luca Blandino, - aggiunse il Torchiara, presentandolo.
        - Conosco... conosco... - interruppe l'uomo calvo e barbuto, porgendo distrattamente la mano alla signora che guardava imbarazzata. - La vedova di Francesco Ajala? Gran galantuomo, suo marito!
        Il Torchiara sospirò, rialzandosi una seconda volta sul naso le lenti legate in grossi cerchietti d'oro. Vi fu un momento di silenzio, durante il quale la signora Agata frenò a stento le lagrime.
        - Com'è vero, - riprese il Blandino, con gli occhi chiusi, le braccia conserte, - com'è vero che la nostra condotta è per gli altri giusta o ingiusta, non in virtù della sua natura intrinseca, ma in virtù d'ordini estrinseci... Come abbiamo giudicato noi Francesco Ajala? Lo abbiamo giudicato col vocabolario di cui comunemente ci serviamo parlando d'obblighi e di doveri, cioè senza penetrare affatto nel codice particolare prescritto a lui dalla sua stessa natura e redatto, per così dire, dalla sua educazione. Purtroppo così giudichiamo noi!
        E si alzò.
        - Te ne vai? - gli domandò il Torchiara.
        Il Blandino non rispose: si mise a passeggiare per la stanza con le ciglia corrugate e gli occhi semichiusi, non intendendo affatto, nella sua distrazione, di quanto impaccio fosse alla signora la sua presenza e quanto sconveniente.
        - Ella mi fa l'onore di questa visita per la sua figliuola, è vero, signora? - domandò piano il Torchiara, guardandola con aria di rassegnazione e di scusa per la presenza del Blandino, come se volesse dirle: «Pazienza! bisogna compatirlo: è fatto così...».
        Al Torchiara però non rincresceva affatto la presenza del Blandino. Lo aveva anzi trattenuto apposta all'annunzio della visita, per far che questa non durasse troppo e non riuscisse soverchiamente penosa all'ottimo suo cuore, sensibilissimo. Gli toccava infatti di togliere le ultime speranze a quella povera madre... Ma era troppo presto, ecco, per una nomina, fosse pur temporanea, di semplice supplenza... Carriera difficile, difficilissima, quella dell'insegnamento! Bisognava attendere ancora un po', ecco... Oh, l'avvenire sarebbe stato piano, ridente di belle promesse per la giovine maestra, senza dubbio! Come, come? La Breganze? Ah sì... E a questa interrogazione molto imbarazzante per l'ottimo suo cuore, il cavalier Torchiara si grattò il capo con un dito e si rialzò una terza volta sul naso le lenti. Sì, la Breganze, la nipote del consigliere Breganze, amico suo... Nessuna inframmettenza, badiamo! Precedenza soltanto, questione di precedenza, ecco... Non di valore! Per quanto la Breganze, brava insegnante anch'essa, via... Ma egli sapeva bene che il valore della giovine maestra Ajala era incomparabilmente superiore... oh sì! oh sì!
        A Luca Blandino, mentre passeggiava assorto nei suoi pensieri, con le mani congiunte dietro la schiena, giungevano alcune frasi a mezzo, che gli facevano corrugare vieppiù le ciglia, di tratto in tratto. Non intese nulla del penosissimo dialogo; notò solo l'espressione d'angoscioso smarrimento, di profonda disperazione sul volto della signora Ajala, quando si alzò e chinò il capo in segno di saluto.
        - Auff! - sbuffò il Torchiara, dopo avere accompagnato la signora fino alla porta, rientrando in salotto. - Non ne posso più di questa maledetta faccenda! La compatisco, povera signora. Ma che posso farci io, se la figliuola... Tu m'intendi! Abbiamo la disgrazia di vivere in una piccola città, dove certe cose non si sanno perdonare, né dimenticare... Non posso mica mettermi, signor mio, contro tutto il paese, Orazio sol contro Beozia tutta!
        - Di che si tratta? - domandò il Blandino.
        - Miserie, caro, miserie! Della più tremenda: quella in abito nero! Di pane si tratta... Ma che posso farci, signore Iddio benedetto? Me n'affliggo, e basta.
        E spiegò al Blandino le ragioni della visita della signora Ajala.
        - Come? E tu l'hai mandata via così? - esclamò il Blandino, in risposta. - Ohi ohi ohi... m'hai tutto scombussolato... Come? Perdio! Ma qui bisogna agire, riparare... e subito!
        Il Torchiara scoppiò a ridere.
        - Dove vuoi andare adesso?
        Il Blandino, tutto agitato, s'era messo a correre per la stanza.
        - Il cappello... Dove ho lasciato il cappello?
        - La testa! la testa! - esclamò il Torchiara, ridendo ancora. - Cerca la testa piuttosto!
        Lo afferrò per un braccio.
        - Vedi? Poi ti dicono pazzo! Prima hai preso le parti del marito, nel duello; adesso vuoi difendere la moglie?
        - Ma io non giudico come voi! - gli gridò Luca Blandino. - Io giudico secondo i casi: non mi traccio, come voi, una linea: fin qui è male, fin qui è bene... Lasciami agire da pazzo! Vado a scrivere un letterone d'improperii a Gregorio Alvignani... Ah, lui, il grand'uomo, se ne deve uscire così, dopo aver gettato nell'ignominia e nella miseria un'intera famiglia? Ma sai che le lettere gliele buttava dalla finestra come un ragazzino? Ti saluto... ti saluto...
        E il Blandino scappò via, tra le risa sforzate del cavalier Claudio Torchiara.


Parte 1

XIV

        Circa tre mesi dopo, inaspettatamente, venne a Marta un invito del Direttore del Collegio.
        La vecchia portinaja Sabetti, che aveva recato dolente la cattiva notizia della supplenza accordata alla Breganze, entrò questa volta gridando, tutta esultante:
        - Signorina! Signorina! La avremo con noi! Con noi, signorina bella! Tenga, legga questo biglietto...
        Fu, nella squallida desolazione, come un raggio di sole improvviso. Marta diventò in volto di bragia.
        - Che felicità! - seguitava la vecchia Sabetti, gestendo con fuoco. - La maestra Flori della seconda preparatoria, se ne torna lassù, fuorivia! Ha ottenuto il trasloco, Dio sia lodato! Le ragazze rifiateranno. -
        - Debbo recarmi in giornata al Collegio... annunziò Marta con voce tremante dalla commozione, dopo aver letto l'invito.
        - Sissignora! - riprese la vecchia portinaja. - E vedrà che è per questo! Ne sono sicura!
        - Ma come! - osservò Marta. - La Flori, trasferita?
        - Traslocata, sissignora! Fortuna, le dico, per le povere ragazze... Che pittima!
        - Con l'anno scolastico già cominciato? - osservò Marta, non sapendo che pensare.
        - Il Torchiara, forse... - sfuggì alla signora Agata.
        E riferì alla figlia la visita fatta di nascosto all'Ispettore scolastico.
        Poco dopo, mentre si vestiva per recarsi al Collegio, passata la prima commozione, Marta intuì a chi doveva quella nomina tardiva: n'ebbe una scossa, e sentì mancarsi a un tratto la forza d'agganciare il busto alla vita.
        Ricominciò la guerra fin dal primo giorno di scuola.
        Già le altre maestre del Collegio, oneste e brutte zitellone, se la recarono subito a dispetto. Gesù, Gesù! un breve saluto, la mattina, con le labbra strette, e via; un freddo, lieve cenno del capo, ed era anche troppo! Un'onta per la classe delle insegnanti! un'onta per l'Istituto! Il mondo, sì, intrigo: per riuscire, mani e piedi! ma onestamente, oh! Anzi, onoratamente.
        E, sotto sotto, comentavano con acre malignità il modo con cui il Direttore e gli altri professori del Collegio fin dal primo giorno si erano messi a trattare l'Ajala; e rimpiangevano quella cara maestra Flori che non avrebbero più riveduta. La Flori: che pena!
        Riusciti vani i nuovi e più aspri reclami delle famiglie, le ragazze (assentatesi per alcuni giorni dalla scuola all'annunzio della nomina di Marta) cominciarono man mano a ripigliare le lezioni; ma cattive, astiose, messe sù evidentemente dai genitori contro la nuova maestra.
        A nulla giovò l'affabilità con cui Marta le accolse per disarmarle fin da principio; a nulla la prudenza e la longanimità. Si sottraevano sgarbatamente alle carezze, si mostravano sorde ai benevoli ammonimenti, scrollavano le spalle a qualche rara minaccia; e le più cattive, nell'ora della ricreazione in giardino, sparlavano di lei in modo da farsi sentire o, per farle dispetto, accorrevano ad attorniare le antiche maestre e a carezzarle, piene di moine e di premure, lasciando lei sola a passeggiare in disparte.
        Ritornando a casa, dopo sei ore di pena, Marta doveva fare uno sforzo violento su se stessa per nascondere alla madre e alla sorella il suo animo esasperato.
        Ma un giorno, ritornando più presto dal Collegio, accesa in volto, vibrante d'ira contenuta a stento, appena la madre e Anna Veronica le domandarono che le fosse avvenuto, ella, ancora col cappellino in capo, scoppiò in un pianto convulso.
        Esaurita finalmente la pazienza, vedendo che con le buone maniere non riusciva a nulla, per consiglio del Direttore s'era messa a malincuore a trattare con un po' di severità le alunne. Da una settimana usava prudenza con una di esse, ch'era appunto la figlia del consigliere Breganze, una magrolina bionda, stizzosa, tutta nervi, la quale, messa sù dalle compagne, era giunta finanche a dirle forte qualche impertinenza.
        - E io ho finto di non udire... Ma quest'oggi alla fine, poco prima che terminasse la lezione, non ho saputo più tollerarla. La sgrido. Lei mi risponde, ridendo e guardandomi con insolenza. Bisognava sentirla! «Esca fuori!» «Non voglio uscire!» «Ah! no!» Scendo dalla cattedra per scacciarla dalla classe: ma lei s'aggrappa alla panca e mi grida: «Non mi tocchi! Non voglio le sue mani addosso!». «Non le vuoi? Via, allora, via! esci fuori!» e fo per strapparla dalla panca. Lei allora si mette a strillare, a pestare i piedi, a contorcersi. Tutte le ragazze si levano dalle panche e le vengono intorno; lei, minacciandomi, esce dalla classe, seguita dalle compagne. È andata dal Direttore. Questi non mi dà torto in loro presenza; rimasti soli, mi dice che io avevo un po' ecceduto; che non si debbono, dice, alzar le mani su le allieve... Io, le mani? Se non l'ho toccata! Alla fine però accetta le mie ragioni... Ma Dio, Dio; come andare avanti così? Io non ne posso più!
        Il giorno appresso, intanto, il padre della ragazza, il consigliere cavaliere ufficiale Ippolito Onorio Breganze, andò a fare una scenata nel gabinetto del Direttore.
        Era furibondo.
        L'obesità del corpo veramente non gli permetteva di gestire come avrebbe voluto. Corto di braccia, corto di gambe, portava la pancetta globulenta in qua e in là per la stanza, faticosamente, facendo strillare le suole delle scarpe a ogni passo. Alzare le mani in faccia alla sua figliuola? Neanco Dio, neanco Dio doveva permetterselo! Lui, ch'era il padre, non aveva mai osato far tanto! Si era forse tornati ai beati tempi dei gesuiti, quando s'insegnava a colpi di ferula su la palma della mano o sul di dietro? Voleva pronta e ampia soddisfazione! Ah sì, perrrdio! Se la signora Ajala aveva valide protezioni e preziose amicizie, lui, il consiglierrr Breganze, avrebbe rrreclamato rrriparazione e giustizia più in alto, più in alto (e si sforzava invano di sollevare il braccino) - sissignore, più in alto! a nome della Morale offesa non solo dell'Istituto, ma dell'intero paese.
        E dri dri dri - strillavano le scarpe.
        Il Direttore non riusciva a calmarlo. Gli veniva quasi da ridere: in paese si diceva che colui non era veramente il padre della sua figliuola. Ma il consigliere Ippolito Onorio Breganze, paonazzo in volto, non poteva accontentarsi della semplice riprensione fatta a quattr'occhi alla maestra: pretendeva, esigeva una grave, una seria punizione! A lui, adesso, non istava più a cuore soltanto la sua cara piccina, ma anche «la salute morale, signor Direttore, di tutto il paese scandalizzato!». Non era forse a conoscenza il signor Direttore di quanto era avvenuto? non sapeva a qual donna si era affidata l'educazione delle tenere menti, delle gracili anime?
        - È un'im-mo-ra-li-tà! - tuonò alla fine con tutta la voce, sillabando. - O ci rrrimedia lei, o ci rrrimedio io. Vado a far reclamo formale all'Ispettore scolastico! La rrriverisco.
        E cacciandosi di furia in capo, puhm! il cappello a stajo, se ne andò. Entrava il bidello. Si diedero un inciampone così forte, che per poco non si gettarono a terra tutti e due.
        - Scusi...
        - Scusi...
        E dri dri dri...
        Due giorni dopo, il Direttore del Collegio fu chiamato dall'Ispettore scolastico.
        Da due mesi il Torchiara notava, costernato, il grave danno che quella nomina della maestra Ajala produceva in paese alla posizione politica non ancora assodata dell'Alvignani. «Signor mio, il cuore è stato sempre il gran nemico della testa!» aveva ripetuto più volte a se stesso. Perché si dilettava, il cavalier Claudio Torchiara, di formulare aforismi, intercalandovi di solito quel signor mio anche quando gli enunziava a una donna o, per solitario spasso, a se medesimo.
        La visita furibonda del consiglier Breganze lo aveva lanciato addirittura in un mare di confusione. Adesso, dunque, pure il Municipio si sarebbe voltato contro l'Alvignani? Aveva promesso al Breganze riparo e soddisfazione, ora invitava il Direttore del Collegio; vagliando e traendo giudizio dalle opposte versioni del fatto, avrebbe scritto all'Alvignani per provvedere alla meglio e salvare all'uopo, come suol dirsi, capra e cavoli. In ultima analisi, pazienza per la capra. I cavoli, in questo caso, erano i voti con cui Gregorio Alvignani era stato eletto deputato.
        Il Direttore del Collegio, sebbene stanco ormai delle noje che gli aveva cagionate involontariamente quella maestra, difese pure Marta davanti all'Ispettore, per debito di coscienza.
        - Capisco, capisco, gli rispose il cavalier Torchiara. - Ma l'ingegno, signor mio, e la volontà di far bene non bastano; bisogna pure guardare, guardare nella vita privata, la quale, signor mio, influisce, ha il suo peso e non poco su la considerazione, in cui le allieve debbono tenere la propria maestra, mi spiego?... la quale...
        Ma il Direttore era venuto da poco in paese; non sapeva i precedenti della maestra; ammirato invece del grande valore di lei, credeva meritasse ogni considerazione!
        - E ne terremo conto! - esclamò il cavalier Torchiara. - Come no? ne terremo conto, tanto più che io so in che tristi condizioni versi la famiglia di lei, la quale... Non dubiti, si provvederà, con un trasferimento, per esempio, vantaggioso per la maestra... Intanto, signor mio, il naso bisogna pur cacciarlo fuori della scuola... e... e tener conto dei reclami del pubblico, il quale... Ecco, pare tuttavia che la signora maestra, per quanto, non dico di no, provocata e anche in certo qual modo scusabile... pare abbia.. sì, dico, ecceduto un tantino... Eh già! Il Breganze, signor mio, personaggio di conto... eh!... e anche nell'interesse della maestra, sarà meglio dargli qualche soddisfazioncella, perché la cosa non esca dalle sfere scolastiche, mi spiego?... Senta, facciamo così. Lei persuada la maestra Ajala a darsi per ammalata per una quindicina di giorni, e intanto chiami una supplente perché le alunne non abbiano a soffrirne nello svolgimento del programma, il quale... Nel frattempo si provvederà. Va bene così?
        E lo stesso giorno scrisse una lunga lettera confidenziale al suo caro Gregorio, scongiurandolo di far tutto il possibile per ottenere il trasferimento della sua «raccomandata» - causa per lui di gravissimi danni. Non s'illudeva su le difficoltà; ma a lui, all'Alvignani, dopo lo splendido discorso alla Camera dei Deputati nella discussione del bilancio della pubblica istruzione (discorso che, d'un colpo - non per adularlo! - gli aveva creato una vera posizione parlamentare, come tutti i giornali assicuravano), nessuna difficoltà doveva riuscire insormontabile. Per quell'anno, del resto, la maestra Ajala poteva andare come supplente nel Collegio Nuovo in Palermo (posto vacante).
        In attesa di così grave decisione, Marta fu costretta a prolungare di altri quindici giorni «la sua malattia». Dopo circa un mese arrivarono due lettere dell'on. Alvignani, una per Marta, l'altra per l'ispettore Torchiara.
        Nel ricever quella lettera, Marta provò un vivissimo turbamento. Avvilita dall'impotenza di lottare contro l'ingiustizia patente di tutti; rivoltata della punizione inflittale immeritamente, si sentiva ormai avvelenata d'odio e di bile. Quella lettera le parve un'arma per la vendetta.
        Era sapientemente composta; non una anche vaga allusione al passato che potesse in quel momento urtarla; ma, sotto le amare riflessioni su la vita e su gli uomini, tanta intuizione dello stato d'animo in cui ella si trovava! Meglio, meglio chiudersi in un sogno continuo, sopra le volgarità e le comuni miserie dell'esistenza quotidiana, sopra il giogo livellatore delle leggi a un palmo dal fango, rete protettrice dei nani, ostacolo e pastoja a ogni ascensione verso un'idealità!
        Le diceva d'aver saputo quanto a lei era toccato di soffrire in quegli ultimi tempi e le annunziava il trasferimento e la nomina, per liberarla dal fango che l'attorniava. Si era presa lui, spontaneamente, questa libertà, sicuro d'interpretare un desiderio che ella non gli avrebbe mai manifestato; e la pregava di lasciarlo fare, di concedere almeno che, da lontano, egli si prendesse cura e si ricordasse sempre di lei. Purtroppo, i mezzi che gli si offrivano per manifestare rispettosamente tutto l'animo suo erano meschini e ristretti!
        In capo al foglio, ancora qui, latinamente inciso, il motto:

NIHIL - MIHI - CONSCIO.

        Un solo rammarico per Marta, per Maria e per la madre, partendo: quello di lasciare Anna Veronica.
        Povera Anna! Faceva loro coraggio, ma in fondo al cuore era la più disajutata: esse erano in tre: lei sarebbe rimasta sola, sola, sola, come abbandonata tra nemici. E di nuovo per lei il silenzio, di nuovo la solitudine, i giorni tristi, lunghi, uguali...
        - Mi scriverete, però!
        Diceva di non voler piangere, e piangeva. Le labbra costrette per forza a sorridere, invece di un sorriso, facevano il greppo.
        Volle accompagnarle fino alla stazione ferroviaria a piè del colle su cui sorgeva la città. Durante il tragitto in vettura, non scambiarono una parola. Era una giornata umida, grigia, e la vecchia vettura rimbalzava su i fradici sassi dello stradone scosceso, scotendo continuamente i vetri mal connessi degli sportelli, i quali davano un frastuono irritante.
        Quando poi il convoglio stava per partire, Anna Veronica e la signora Agata, rimaste aggrappate l'una all'altra, soffocando i singhiozzi ciascuna su l'omero dell'altra, furono quasi strappate con violenza dal conduttore. Già la vaporiera fischiava, lì lì per mettersi in moto.
        Anna rimase col volto bagnato di lagrime e le braccia tese che si andavano lentamente abbassando, man mano che il nero convoglio si allontanava; gli occhi fissi a gli sportelli del vagone in cui le tre amiche erano salite, e da cui ancora fin laggiù, fin laggiù, si agitavano in saluto i fazzoletti...
        - Addio... Addio... - mormorava quasi a se stessa, agitando il suo, l'abbandonata.



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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it

Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998