Luigi Pirandello
L'esclusa
Parte 1
«Mio buon Gesù, voglio riconciliarmi
con Voi, confessando al Vostro ministro tutti i peccati coi quali V'ho offeso. Grande
miseria è la mia, se tanto facile m'è dimenticarmi di Voi. Ingrata, non so vivere
senz'offender Voi, Padre mio e mio amabile Salvatore. E ora che mi sento colpevole, mi
accuso, mi pento, imploro misericordia da Voi. Piangi, mio cuore, che hai offeso Dio, il
quale tanto ha sofferto pe' tuoi peccati. Ricevete, o Signore, questa mia confessione;
gradite, avvalorate con la grazia Vostra il mio atto di contrizione e il proponimento del
cuor mio, che mi fa ripetere con Santa Caterina da Genova: - Amor mio, non più mondo, non
più peccati; ma amore, fedeltà, obbedienza ai Tuoi santi comandamenti. - In nome del
Padre, del Figliuolo, e dello Spirito Santo. Così sia».
Segnatasi e chiuso il libro delle
preghiere, Marta rivolse uno sguardo angoscioso al confessionale, davanti al quale,
dall'altra parte, stava inginocchiata una vecchia penitente venuta prima di lei. Da
quest'altra parte, il legno del confessionale, tutto a forellini, levigato e giallognolo,
serbava l'impronta opaca di tante fronti di peccatori. Marta lo notò con un certo
ribrezzo, e si tirò ancora di più sul capo il lungo scialle nero, fin quasi a
nascondersi il volto. Era pallidissima, e tremava.
La chiesa, deserta, aveva un silenzio
misterioso, assorbente, nella cruda immobile frescura insaporata d'incenso. La solenne
vacuità dell'interno sacro, quasi sospeso agl'immani pilastri, alle ampie arcate, dava
all'anima, in quella penombra, un senso d'oppressione. Tutta la navata di centro era
occupata da due ali di seggiole impagliate, disposte in lunghe file sul pavimento
polveroso, ineguale per le antiche pietre tombali, logore.
Marta stava inginocchiata su una di queste
pietre, e aspettava che quella vecchia penitente le cedesse il posto nel confessionale.
Quanti peccati, quella vecchia! Ma suoi o
della miseria? e quali mai? Il vecchio confessore li ascoltava attraverso i forellini del
legno, con volto impassibile.
Ma chinò gli occhi e, per distrarsi,
cercò di decifrare l'iscrizione funeraria in parte svanita sulla pietra dalla logora
effigie. Lì sotto, uno scheletro... Che importava più il nome? Ma come e quanto più
raccolto, più sicuro, più protetto, nella pace solenne d'una chiesa, appariva il riposo
della morte!
Le due ali di seggiole s'allungavano fino
alle colonne che reggevano sul nàrtice la cantorìa. Dietro queste colonne erano due
lunghe panche, su una delle quali Marta, entrando, aveva veduto un vecchio contadino con
le braccia incrociate sul petto, rapito nella preghiera, con gli occhi risecchi dagli
anni, infossati. Oh quelle mani scabre, terrose, quel collo dalla floscia giogaja divisa
da un solco nero, dal mento giù giù fin sotto la gola, e quelle tempie schiacciate,
quella fronte increspata sotto l'ispida canizie! Di tratto in tratto il vecchietto
tossiva, e quei colpi di tosse rimbombavano cupamente nel silenzio della chiesa deserta.
Dai finestroni in alto entrava a colpire a
fasci i grandi affreschi della vòlta l'ardente pallore in cui il giorno moriva tra uno
sbaldore assordante di rondini.
Marta era venuta in chiesa per consiglio
di Anna Veronica. Ma cominciava già, in quella lunga attesa, ad avere di se stessa,
inginocchiata lì come una mendicante, una penosissima impressione. Intendeva in Anna
tutta quell'umiltà, fonte per lei di tanta serena dolcezza; Anna era veramente caduta;
aveva perciò cercato e trovato nella fede un conforto, nella chiesa un rifugio. Ma lei?
Aveva la coscienza sicura, lei, che non sarebbe mai venuta meno ai suoi doveri di moglie,
non perché stimasse degno di tale rispetto il marito, ma perché non degno di lei stimava
il tradirlo, e che mai nessuna lusinga sarebbe valsa a strapparle una anche minima
concessione. La gente, ora, vedendola lì in chiesa, umile e prostrata, non avrebbe
supposto ch'ella avesse accettato come giusta la punizione e che s'inginocchiasse davanti
a Dio a mendicare conforto e rifugio, perché non si riconosceva più il diritto di
levarsi in piedi e a fronte alta davanti agli uomini? Non per questi, è vero, non per la
punizione immeritata, non per la sciagura del padre, di cui lei non voleva riconoscersi
cagione, si era lasciata indurre da Anna a venire in chiesa per confessarsi; ma per sé,
per aver lume e pace da Dio. Che avrebbe detto però, tra poco, a quel vecchio confessore?
Di che doveva pentirsi? Che aveva fatto, qual peccato commesso da meritare tutti quei
castighi, quelle pene, e l'infamia, la sciagura del padre e del figliuolo, il perpetuo
lutto in casa, e forse la miseria, domani? Accusarsi? pentirsi? Se male aveva fatto, senza
volerlo, per inesperienza, non lo aveva scontato a dismisura? Certo quel sacerdote le
avrebbe consigliato d'accettare con amore e con rassegnazione il castigo mandato da Dio.
Ma da Dio, proprio? Se Dio era giusto, se Dio vedeva nei cuori... Gli uomini, piuttosto...
Strumenti di Dio? Ma ricevono da Dio forse la misura del castigo? Eccedono, o per bassezza
di spirito o per aberrazione d'onestà... Accettare umilmente la condanna, senza
ragionarla, e perdonare? Avrebbe potuto perdonare? No! No!
E Marta levò il capo e guardò la chiesa,
come se a un tratto vi si trovasse smarrita. Quel silenzio, quella pace solenne, l'altezza
di quella vòlta, e là quel confessionale piccolo, e quella vecchia prostrata e quel
confessore immobile, impassibile, tutto le si allontanò improvvisamente dallo spirito
rivoltato, come un sogno vano in cui ella, nel torpore della coscienza, fosse penetrata e
che ora, risentendo la cruda e dolorosa sua realtà, vedesse dileguare.
Si alzò, ancora perplessa; sentì
mancarsi le gambe, ebbe come una vertigine, si portò una mano agli occhi, e con l'altra
si sorresse a una seggiola; poi attraversò quasi vacillante la chiesa. Su la panca, sotto
la cantorìa, vide ancora il vecchietto, nella stessa positura, con le braccia incrociate
sul petto, assorto nella preghiera, estatico.
Fino a casa si portò nell'anima
l'immagine di lui.
Quella fede ci voleva! Ma non poteva
averla lei. Lei non poteva perdonare. Dentro il cranio, il cervello le si era ormai
ridotto come una spugna arida, da cui non poteva più spremere un pensiero che la
confortasse, che le désse un momento di requie.
Era fantastica, forse, questa sensazione;
ma le cagionava intanto un'angoscia vera, che invano cercava sfogo nelle lagrime. Quante,
Dio, quante ne aveva versate! Ora, ecco, neanche di piangere le riusciva più. Sempre quel
nodo, sempre, irritante, opprimente, alla gola. Vedeva addensarsi, concretarsi intorno a
lei una sorte iniqua, ch'era ombra prima, vana ombra, nebbia che con un soffio si sarebbe
potuta disperdere: diventava macigno e la schiacciava, schiacciava la casa, tutto; e lei
non poteva più far nulla contro di essa. Il fatto. C'era un fatto. Qualcosa
ch'ella non poteva più rimuovere; enorme per tutti, per lei stessa enorme, che pur lo
sentiva nella propria coscienza inconsistente, ombra, nebbia, divenuta macigno: e il padre
che avrebbe potuto scrollarlo con fiero disprezzo, se n'era lasciato invece schiacciare
per il primo. Era forse un'altra, lei, dopo quel fatto? Era la stessa, si sentiva
la stessa; tanto che non le pareva vero, spesso, che la sciagura fosse avvenuta. Ma
s'impietriva anche lei, ora, cominciava a non poter sentire più nulla: non cordoglio per
la morte del padre, non pietà per la madre né per la sorella, né amicizia per Anna
Veronica: nulla, nulla!
Tornare in chiesa? E perché? Pregava, e
la preghiera era solamente un vano agitarsi delle labbra; il senso delle parole le
sfuggiva. Spesso, durante la messa, si sorprendeva intenta a guardare i piedi del
sacerdote su la predella dell'altare, le brusche d'oro della pianeta, i merletti del
messale; poi, all'elevazione, destata dal rumorìo delle seggiole smosse, dallo
scampanellìo argentino, si alzava anche lei e s'inginocchiava, guardando stupita certe
vicine che si davano pugni rintronanti sul petto, piangendo lagrime vere. Perché?
Per sottrarsi al vaneggiamento in cui ogni
suo pensiero, ogni sentimento naufragava, provò se le riusciva di rimettersi allo studio,
o almeno a leggere. Riaprì i vecchi libri abbandonati, e n'ebbe un'indicibile tenerezza.
Le memorie più dolci rivissero e quasi le palpitarono sotto gli occhi: rivide la scuola,
le varie classi, le panche, la cattedra: ecco, a uno a uno, tutti i professori che si
susseguivano nel giro delle lezioni, e poi il giardino della ricreazione, il chiasso, le
risa, le passeggiate a braccetto per i vialetti tra le compagne più care: poi il suono
della campana, e la classe di nuovo; il direttore, la direttrice... le gare... i
castighi... Sul tavolino le stava aperto sotto gli occhi un libro, un trattato di
geografia; sfogliò alcune pagine: sul margine di una, un segno, e queste parole scritte
di sua mano:
«Mita, domani partiremo per Pekino!».
Mita Lumìa... Che abisso ora tra lei e quella compagna di collegio!
Come mai in certe anime non sorgeva alcuna
aspirazione a levarsi un po' sopra gli altri, foss'anche in una minima cosa?
Questo, sù per giù, Marta aveva notato
in tutte le sue compagne di scuola, questo notava in sua sorella, nella buona Maria. Suo
marito era poi proprio dell'armento, e lieto e pago di appartenervi. Oh se ella avesse
seguitato gli studii! A quest'ora!
Si ricordò di tutte le lodi che i
professori le avevano fatto, e anche... sì, anche delle lodi che un altro le aveva
fatte: l'Alvignani, per le risposte alle sue lettere. Che gli aveva risposto? Aveva
discusso con lui delle condizioni della donna nella società... «Ella sa accomodare i
sensi acutissimi» le aveva scritto in una delle sue lettere l'Alvignani, «i sensi
acutissimi all'osservazione della realtà.» L'aveva fatta ridere tanto questa lode. E
quell'accomodare i sensi! Forse era detto bene... perché, cultissimo,
l'Alvignani... ma scriveva, secondo lei, troppo dipinto; mentre, quando parlava... Oh, a
Roma, lei, se non l'avessero così incatenata... A Roma, moglie di Gregorio Alvignani, in
altro ambiente, largo, pieno di luce intellettuale... lontano, lontano da tutto quel
fango...
Chinava il capo su i libri, animata
improvvisamente dall'antico fervore, quasi per un bisogno irresistibile di rinutrire
comunque un'aspirazione che pur non resisteva al minimo urto della realtà; al cigolare
dell'uscio, quand'ella doveva recarsi nelle altre stanze, ove erano la madre e la sorella
vestite di nero.
Di ciò che avvenisse in famiglia, non
sapeva nulla. Aveva notato soltanto che la madre e Maria la guardavano, come se volessero
nasconderle qualcosa: una impressione, un sentimento. Non erano forse contente che ella se
ne stésse quasi tutto il giorno appartata? La scusavano? la compativano? La madre aveva
spesso gli occhi rossi di pianto; Maria s'assottigliava sempre più, spighiva, aveva preso
un'aria sbalordita, una gramezza che affliggeva. Per farle piacere, le domandava:
- Andiamo in chiesa, Maria?
Questa domanda per la sorella significava:
«Andiamo a pregare per il babbo?» E
rispondeva sempre di sì; e andavano.
Un pomeriggio, uscendo dalla chiesa,
furono prese d'assalto da un ragazzetto quasi tutto ignudo, con la camicina soltanto,
sudicia, che gli cadeva a sbrendoli su le gambette magre, terrose; il visetto, giallo e
sporco. Con una manina egli afferrò lo scialle di Marta e non volle più lasciarlo,
pregando che gli facessero la carità: era figlio di un muratore caduto dalla fabbrica.
- È vero, - confermò Maria. - Jeri, da
un'impalcatura. S'è rotto un braccio e una gamba.
- Vieni, vieni con me, povero piccino! -
disse allora Marta, avviandosi.
- No, Marta... fece Maria, guardando
pietosamente la sorella; ma subito abbassò gli occhi, come pentita, contrariata.
- Perché? - le domandò Marta.
- Nulla, nulla... andiamo... - rispose
frettolosamente Maria.
Giunte a casa, Marta domandò alla madre
qualche soldo per quel ragazzo.
- Oh figlia mia! Non ne abbiamo più
neanche per noi...
- Come!
- Sì, sì... seguitò tra le lagrime la
madre. - Paolo è scomparso da due giorni; non si sa dove sia... La concerìa chiusa; vi
hanno apposto i suggelli... È la nostra rovina! State qua, figliuole mie. Diglielo tu,
Maria. Io debbo recarmi subito dall'avvocato.
Parte 1
Prima dell'alba del giorno appresso
furono destate di soprassalto da uno strepito indiavolato giù per la strada: urli, grida
scomposte che andavano al cielo, fischi spaventevoli di bùccine marine.
- I pescatori... - disse Maria,
quasi tra sé, in un sospiro, nel bujo della camera.
Eh sì: quello era il giorno della festa
dei santi Patroni del paese. Chi ci aveva pensato?
Come ogni anno, sù dalla borgata marina
venivano in tumulto, su lo spuntar del giorno, i così detti pescatori: quasi tutta
la gente che abitava in riva al mare, non dedita alla pesca soltanto. A loro, a gli
abitanti della borgata, era serbato per antica abitudine l'onore di portare in trionfo per
le vie della città il fèrcolo de' due santi Patroni, che appunto nel mare avevano
sofferto il loro primo martirio, e su i marinaj perciò facevano valere più specialmente
la loro protezione.
Così ogni anno la città era destata da
quell'invasione fragorosa, come dal mare stesso in tempesta. Lungo le vie si schiudevano
le finestre frettolosamente, da cui si sporgevano braccia nude, subito ritirate, e facce
pallide di sonno, avvolte in vecchi scialli, in cuffie, in fazzoletti.
Nessuna delle tre sconsolate pensò di
scendere dal letto. Rimasero con gli occhi aperti nel bujo, e a ciascuna passò innanzi
alla mente la visione di quegli energumeni giù per la via, tra il fumo e le fiamme
sanguigne delle torce a vento squassate, vestiti di bianco, in camicia e mutande, coi
piedi scalzi, una fascia rossa alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo.
Tant'altre volte, negli anni lieti, li avevano veduti.
Passata quella furia infernale, la strada
ricadde nel silenzio notturno; ma si ravvivò poco dopo festivamente. Maria affondò la
faccia nel guanciale e si mise a piangere in silenzio, angosciata dai ricordi.
S'intese il primo grido degli scalzi
miracolati:
- Il Santo delle grazie, divoti!
Erano ragazzi, giovinotti, uomini maturi,
che per miracolo dei santi Cosimo e Damiano (di cui il popolo faceva un santo solo in due
persone) si ritenevano scampati da qualche pericolo o guariti da qualche infermità, e
che, ogni anno, per voto, andavano in giro per il paese, in peduli, vestiti di bianco come
i pescatori, e con un vassojo davanti sostenuto da una fascia di seta a tracolla.
Sul vassojo erano immagini dei due Martiri, da uno, da due, da tre soldi e più.
- Il Santo delle grazie, divoti!
Salivano nelle case per vendere quelle
immagini; ricevevano dalle famiglie, in adempimento dei voti, offerte d'uno o più ceri
dorati, d'uno o più galletti infettucciati; offerte e quattrini recavano d'ora in ora
alla Commissione dei festajoli nella chiesetta dei Santi.
Oltre ai ceri e ai galletti, offerte
maggiori andavano a quella chiesa pompaticamente, a suon di tamburi: agnelli, pecore,
montoni, anch'essi infettucciati, dal vello candido, pettinato, e frumentazioni su muli
parati con ricche gualdrappe e variopinti festelli.
Nelle prime ore del mattino giunse Anna
Veronica, vestita di nero, al solito, col lungo scialle da penitente. Bisognava adempiere
al voto fatto durante la malattia di Marta: recare alla chiesa le due torce promesse e la
tovaglietta ricamata.
E Marta doveva andare con lei. Nello
scompiglio di quegli ultimi giorni, dopo la fuga di Paolo, ella non aveva pensato ad
avvertirne Marta, la vigilia.
- Sù, sù, figliuola, fatti coraggio. A
un voto non si può mancare.
Marta, tutta chiusa in sé, come avvolta
in un silenzio tetro, le rispose subito, urtata:
- Non vengo... lasciami! Non vengo.
- Come! - esclamò Anna. - Che dici?
E guardò, ferita, Maria e l'amica.
- Avete ragione, sì, - rispose,
scrollando il capo. - Ma chi può ajutarci?
Marta sorse in piedi.
- Debbo dimostrarmi grata per giunta, è
vero? della grazia che ho ricevuto, guarendo... -
- Ma è facile morire, figliuola mia, -
sospirò Anna Veronica, socchiudendo gli occhi. - Se sei rimasta in vita, non ti par segno
che Dio ti vuol viva per qualche cosa?
Marta non rispose; come se queste parole
dell'amica, pronunciate con la consueta dolcezza, avessero risposto a un suo segreto
sentimento, a un segreto proposito, corrugò le ciglia e s'avviò per la sua camera.
- Ti servirà anche di svago, - aggiunse
Anna.
Giù per le vie era un gran fermento di
popolo. Dalla marina, dai paeselli montani, da tutto il circondario, era affluita gente in
numerose comitive, che ora procedevano a disagio, prese per mano per non smarrirsi, a
schiere di cinque o sei: le donne, gajamente parate, con lunghi scialli ricamati o con
brevi mantelline di panno bianco, azzurro o nero, grandi fazzoletti a fiorami, di cotone o
di seta, in capo e sul seno, grossi cerchi d'oro a gli orecchi e collane e spille a
pendagli e a lagrimoni; gli uomini: contadini, solfaraj, marinaj, impacciati dai ruvidi
abiti nuovi, dagli scarponi imbullettati.
Marta e Anna Veronica, che sotto lo
scialle nascondeva le torce e la tovaglietta, tra la folla fluttuante, stordita, senza
direzione, andavano quanto più sollecitamente potevano.
Giunsero alla fine nella piazza davanti
alla chiesuola, rigurgitante di popolo. Il baccano era enorme, incessante; la confusione,
indescrivibile. S'erano improvvisate tutt'intorno baracche con grandi lenzuola palpitanti:
vi si vendevano giocattoli e frutta secche e dolciumi, gridati a squarciagola; andavano in
giro i figurinaj con le imagini di gesso dipinte, rifacendo il verso degli scalzi
miracolati; i frullonaj, tirando e allargando la cordicella del frullo; i gelataj coi loro
carretti a mano parati di lampioncini variopinti e di bicchieri:
- Lo scialacuore! lo scialacuore!
E al gajo bando seguiva una distribuzione
di scappellotti ai monelli più molesti, che attorniavano i carretti come un nugolo
ostinato di mosche.
Contrastava con quel vario allegro
berciare dei venditori la cantilena lamentosa opprimente d'una turba di mendicanti su gli
scalini davanti al portone della chiesa, dove la gente accalcata faceva a gomitate per
entrare. Marta e Anna Veronica si trovarono prese, quasi schiacciate tra quel pigia pigia
e sospinte alla fine senza muover piede entro la chiesa buja, zeppa di curiosi e di
divoti.
Deposto in mezzo alla navata centrale
s'ergeva il fèrcolo enorme, massiccio, ferrato, per poter resistere alle scosse della
disordinata bestiale processione. Sul fèrcolo, le statue dei due santi dalle teste di
ferro, quasi identiche nell'atteggiamento, con le tuniche fino ai piedi e una palma in
mano. In fondo, sotto un arco della navata, a sinistra, tra due colonne, attorno a
un'ampia tavola, stava in gran faccende la Commissione dei festajoli, che riceveva dai
divoti l'adempimento delle promesse: tabelle votive, in cui era rappresentato rozzamente
il miracolo ottenuto nei più disparati e strani accidenti, torce, paramenti d'altare,
gambe, braccia, mammelle, piedi e mani di cera.
Tra i festajoli, quell'anno, era Antonio
Pentàgora.
Per fortuna, Anna Veronica se n'accorse
prima d'accostarsi alla tavola; ristette perplessa, confusa.
- Rimani qua un momentino, Marta.
M'accosto io sola.
- Perché? - domandò Marta, che s'era
fatta d'improvviso pallidissima; e aggiunse, con gli occhi bassi: - C'è Nicola in chiesa.
- È lì al banco, il padre, - disse Anna,
sottovoce. - Meglio che tu stia qua. Mi sbrigo subito.
Niccolino non s'aspettava quell'incontro
con Marta. Non la aveva più riveduta dalla vigilia della rottura col fratello. Restò
come stralunato a mirarla; poi s'allontanò mogio mogio, si confuse tra la folla,
vergognoso. Ne aveva avuto sempre una gran soggezione; aveva tanto desiderato d'esser
voluto bene da lei come un fratello minore, cresciuto com'era senza madre, senza sorelle.
Di tra quel rimescolìo di teste cercò di scorgerla da lontano, senza più farsi vedere:
la scorse; rimase a contemplarla, a spiarla; poi, intrufolandosi tra la ressa, la seguì
con gli occhi fino all'uscita della chiesa. Per un pezzo non poté più avere né occhi
né orecchi per lo spettacolo della festa. Si ritrovò, senza saper come, in mezzo alla
piazza stipata, soffocato tra la folla enormemente cresciuta, che aspettava ora l'uscita
del fèrcolo dalla chiesa. Dalla calca dei corpi ammaccati si levavano tutt'intorno, su i
colli tesi, le facce accaldate, congestionate, smanianti nell'oppressura il respiro;
alcune con una espressione supplice, d'avvilimento, negli occhi, altre con una espressione
feroce. Le campane in alto sonavano a distesa su quel fermento, e le campane delle altre
chiese rispondevano in distanza.
A un tratto, tutta la folla si commosse,
si sospinse premuta da mille forze contrarie, non badando agli urti, alle ammaccature,
alla soffocazione, pur di vedere.
- Eccolo! Eccolo! Spunta!
Le donne singhiozzavano, molti imprecavano
inferociti, divincolandosi rabbiosamente tra la calca che impediva loro di vedere; tutti
vociavano in preda al delirio. E le campane rintoccavano, come impazzite dagli urli della
folla.
Il fèrcolo irruppe a un tratto,
violentemente, dal portone e s'arrestò di botto là, davanti alla chiesa. Allora il grido
uscì frenetico da migliaja di gole:
- Viva San Cosimo e Damiano!
E migliaja, migliaja di braccia
s'agitarono per aria, come se tutto il popolo si fosse levato in furore, a una mischia
disperata.
- Largo! Largo! - si gridò da ogni parte,
poco dopo. - La via al Santo! La via al Santo!
E davanti al fèrcolo, lungo la piazza, la
gente cominciò a ritrarsi di qua e di là a stento, respinta con violenza dalle guardie,
per aprire un solco. Si sapeva che i due Santi procedevano per via quasi di corsa, a
tempesta: erano i Santi della salute, i salvatori del paese nelle epidemie del colera, e
dovevano correre perciò di qua e di là, continuamente. Quella corsa era tradizionale:
senz'essa la festa avrebbe perduto tutto il brio e il carattere. Ciascuno però temeva di
restarne schiacciato.
Squillò davanti alla chiesa stridulamente
un campanello. Allora, tra le poderose stanghe della bara s'impegnò una zuffa tra i pescatori
che dovevano caricarsela sulle spalle. A ogni tappa, lungo la via, si ripeteva quella
zuffa, sedata a stento ogni volta dai festajoli che dirigevano la processione.
Cento teste sanguigne, scarmigliate, da
energumeni, si cacciarono tra le stanghe della macchina, avanti e dietro. Era un groviglio
di nerborute braccia nude, paonazze, tra camìce strappate, facce grondanti sudore a rivi,
tra mugolìo e aneliti angosciosi, spalle schiacciate sotto la stanga ferrata, mani
nodose, ferocemente aggrappate al legno. E ciascuno di quei furibondi, sotto l'immane
carico, invaso dalla pazzia di soffrire quanto più gli fosse possibile per amore dei
Santi, tirava a sì la bara, e così le forze si escludevano, e i Santi andavano com'ebbri
tra la folla che spingeva urlando selvaggiamente.
A ogni breve tappa, dopo una corsa, dai
balconi, dalle finestre gremite, alcune femmine buttavano per divozione sul fèrcolo e su
la folla, da canestri, da ceste, fette di pan nero, spugnoso. E, sotto, la folla
s'azzuffava per ghermirle. Nel frattempo, i portatori imbottavano fiaschi di vino e
s'ubriacavano, sebbene quasi tutto il vino tracannato, di lì a poco, se n'andasse in
sudore.
A quando a quando il fèrcolo diventava
d'una leggerezza portentosa: procedeva allora con slancio irresistibile, salterellando tra
l'allegro schiamazzo della folla. Tal'altra, al contrario, diventava d'una pesantezza
insopportabile: i Santi non volevano andare avanti, rinculavano improvvisamente:
accadevano allora disgrazie; qualcuno tra la folla rimaneva pesto. Un momento di pànico;
poi tutti, per rifarsi animo, gridavano: - Viva San Cosimo e Damiano! - dimenticavano e
procedevano oltre. Ma più volte, giunti allo stesso punto di prima, ecco di nuovo il
fèrcolo arrestarsi improvvisamente; tutti gli occhi allora si volgevano alle finestre, e
la folla, minacciando, imprecando, costringeva coloro che vi erano affacciati a ritirarsi,
poiché era segno che fra essi doveva esserci qualcuno che o non aveva adempiuto alla
promessa o aveva fatto parlar male di sé e non era degno perciò di guardare i Santi.
Così il popolo in quel giorno si rendeva
censore.
Stavano a un balcone, affacciate, Marta e
Anna Veronica, tra la signora Agata e Maria. Antonio Pentàgora già da un pezzo aveva
dato il segno ai portatori. Dapprima, le quattro povere donne non compresero la mossa dei
Santi: li videro rinculare, ma non credettero che quella manovra si facesse per loro.
Quando il fèrcolo pervenne di nuovo sotto il balcone e s'arrestò, tutta la folla levò
gli occhi e le braccia contro di loro gridando, imprecando, esasperata per la sciagura
d'un povero ragazzo tratto allora da terra, fracassato e sanguinante. Subito Marta e Anna
Veronica si ritrassero dal balcone, seguite da Maria che piangeva; la signora Agata
pallidissima, tutta vibrante di sdegno, chiuse così di furia le imposte, che un vetro
andò in frantumi. Parve quest'atto un insulto alla folla fanatica: gli urli,
gl'improperii salirono al cielo. E a quella tempesta imperversante sotto la loro casa
tremavano le quattro povere donne a verga a verga, tenendosi strette l'una all'altra,
rincantucciate; e nell'attesa angosciosa udirono contro la ringhiera di ferro del balcone
battere una, due, tre volte, poderosamente, la testa d'uno dei Santi.
A ogni testata tremava la casa.
Poi la furia a poco a poco si quietò;
successe nella strada un gran silenzio.
- Vili! vili! - diceva Marta a denti
stretti, pallida, fremente.
Anna Veronica piangeva con la faccia
nascosta tra le mani. Maria s'appressò paurosamente al balcone e, attraverso il vetro,
vide una bacchetta della ringhiera torta dalle ferree testate.
Parte 1
- Troppo, eh? - fece Antonio
Pentàgora, col suo solito ghigno frigido rassegato su le labbra e negli occhi uno sguardo
di commiserazione per Niccolino.
- Vigliaccheria! - proruppe questi,
furibondo. - Si vergogni! Tutto il paese è pieno dello scandalo di jeri. Bella prodezza!
- E bravo Niccolino! - esclamò
tranquillamente il padre. - Me ne congratulo davvero! Sentimenti nobili, generosi...
Bravo! Tienteli ben radicati, figliuolo mio, e vedrai col tempo come ramificheranno.
Niccolino scappo via fremendo, per non
lasciarsi andare a qualche eccesso. Così pure era scappato via Rocco la sera avanti, dopo
una lite violenta, durante la quale padre e figlio per poco non erano venuti alle mani.
Rimasto solo, Antonio Pentàgora scosse
più volte il capo lentamente e sospirò:
- Poveri di spirito!
E rimase a lungo a pensare, col faccione
sanguigno, chino sul petto, gli occhi chiusi, le ciglia aggrottate.
Sapeva, sapeva d'essere inviso a tutti,
cominciando dagli stessi suoi figli. Mah!... E poi? Non era in suo potere portarci
rimedio: doveva essere così, per forza. Per i Pentàgora, cui la sorte s'era divertita a
bollare col marchio dei cervi, non c'era remissione. «Là! o esposti all'odio o al
dileggio. Meglio all'odio. Era destino!»
Tutti gli uomini, per lui, venivano al
mondo con la parte assegnata. Sciocchezza il credere di poterla cambiare. Anch'egli, in
gioventù, come adesso i figliuoli, lo aveva creduto per un momento possibile: aveva
sperato, s'era lusingato: gli era parso d'aver nel cuore, come il povero Niccolino,
sentimenti nobili, generosi: s'era affidato ad essi, dov'era giunto? Gira gira, alle
corna. La parte era quella, doveva esser quella.
S'era così fissato in questo suo modo di
pensare, che se per caso qualcuno, spinto dal bisogno, veniva a chiedergli ajuto, egli,
pur sentendosi talvolta inchinevole a cedere, già commosso, si frenava, sbuffava, poi
apriva le labbra al solito ghigno e consigliava a quel povero diavolo di rivolgersi
altrove: al tal dei tali, per esempio, buon filantropo del paese:
- Va' da lui, caro mio: è nato apposta
per soccorrere la gente. Io no, vedi. A me, quest'ufficio non m'appartiene. Farei
un'offesa a quel degno galantuomo che lo esercita da tant'anni e non può farne a meno.
Io, di corna negozio.
Era divenuto così cinico nel linguaggio,
involontariamente. Diceva queste cose con la massima naturalezza. E derideva lui per primo
la sua disgrazia coniugale, per prevenire gli altri e disarmarli. Si sentiva in società
come sperduto in mezzo a un campo nemico. E quel suo ghigno era come il digrignare d'un
cane inseguito, quando si volta. Per fortuna, era ricco: dunque, forte. Non aveva da
temere. Tutta la gente, infatti, gli faceva largo: largo al vitello, anzi al bue d'oro!
- Sciocchezze!
Dopo il tradimento, per lui inevitabile,
della nuora, si era rallegrato della sfacciata relazione di Rocco con quella donnetta
galante:
- Bravo Roccuccio! Mi piace. Ora sei a
posto. Vedrai che a poco a poco... Fammi tastar la fronte...
Ma no: quello scioccone non ci s'era
sentito a suo agio, nel posto assegnatogli dalla sorte. Imbronciato sempre, sgarbato, di
pessimo umore. Poi, all'improvviso, era accaduta la morte di Francesco Ajala, del bau!
Ebbene, e quell'animella squinternata s'era d'un subito sentita schiacciare dall'unanime
compianto che quel pazzo furioso aveva raccolto in paese. Zitto zitto, per non dar più
luogo a ciarle, s'era liberato dell'amante, e gli era ritornato in casa come un funerale.
- E perché? L'hai forse ucciso tu
Francesco Ajala?
Non c'era stato verso, per lungo tempo,
d'indurlo a uscir di casa, a divagarsi. Cavalli, cavalli da tiro e da sella: sei cavalli
gli aveva comperati! Dopo quindici giorni non aveva più voluto saperne. - E allora, che
altro? un viaggetto di distrazione, in Italia o all'estero? - No: neppur questo! - Il
giuoco, al circolo? - Novemila lire perdute in una sola sera. E gliele aveva pagate, senza
neppur fiatare.
Ebbene, che gli restava da fare? S'era
presentata l'occasione della festa dei santi Patroni: a mali estremi, estremi rimedii: e
aveva provocato lo scandalo della processione sotto i balconi di casa Ajala.
Non se ne pentiva. Rocco era scappato via
come una mala bestia, sparando calci, alla bollatura di fuoco. Sì: gliel'aveva data un
po' troppo forte, poverino. Ma ci voleva! Col tempo si sarebbe calmato e lo avrebbe
ringraziato.
«Senti, senti la pazza!» fece tra sé
Antonio Pentàgora, riscotendosi al fitto bofonchìo precipitoso della sorella Sidora, che
s'aggirava smaniosamente per casa.
Anche a lei, forse, era arrivata la
notizia dello scandalo. Che ne pensava? Nessuno poteva saperlo, tranne il fuoco del
camino, acceso d'estate e d'inverno, nel quale ella - diceva il Pentàgora - voleva
incenerire tutte le corna della famiglia, e non ci riusciva.
Per parecchi giorni Rocco non volle
vedere, neppur da lontano, il padre. Niccolino gli teneva compagnia, gli offriva uno
sfogo, da buon fratello.
- Non bastava, non bastava averla
scacciata? M'ero vendicato... Bastava! Ma no: le muore il padre, per giunta. Non dico che
ci abbia avuto colpa io; ma certo in qualche modo vi ho pure contribuito; muore il
bambino; anche lei è stata per morire; si rialza a stento dalla malattia; e lui,
vigliacco, va a farle sotto gli occhi quella scenata infame! Perché insultarla ancora?
Chi glien'aveva dato l'incarico? Vigliacco! Vigliacco!
E si torceva le mani dalla rabbia.
Intanto le notizie di giorno in giorno
peggioravano. La concerìa, chiusa; Paolo Sistri, scappato (e la gente lo incolpava d'aver
rubato dalla cassa quel che poi non c'era). La miseria, dunque, batteva alla porta delle
tre povere donne abbandonate. Come avrebbero fatto? Sole, senza ajuto, mal viste da tutto
il paese?
E la notte a Rocco pareva di vedersi
comparire davanti la figura gigantesca di Francesco Ajala in atto di scuotere le mani,
pallido, gonfio in volto: «Rovini due case: la tua e la mia!». Vedeva tal'altra
la suocera (fin dal primo giorno del fidanzamento tanto buona con lui) scarmigliata,
disperata, e Marta piangente, con la faccia nascosta, e Maria quasi istupidita, che
mormorava: «Chi ci ajuta? chi ci ajuta?».
Così Rocco, il giorno in cui seppe che la
concerìa era messa all'incanto, facendosi violenza, si recò lui per primo dal padre a
proporgli - cupo, senza guardarlo in faccia - di acquistarla per suo conto.
- Tu sei pazzo! - gli rispose il
Pentàgora. - Neanche se me l'aggiudicassero per tre bajocchi. Poi, guarda: fin qui t'ho
lasciato fare: denari, adesso, me ne hai buttati via abbastanza. Non son rena! Anche la
carità? Non è affar mio, lo sai. Nojaltri, di corna negoziamo.
E lo lasciò in asso.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998