Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
AVVERTENZA SUGLI SCRUPOLI DELLA FANTASIA
Il signor Alberto Heintz, di Buffalo negli
Stati Uniti, al bivio tra l'amore della moglie e quello d'una signorina ventenne, pensa
bene di invitar l'una e l'altra a un convegno per prendere insieme con lui una decisione.
Le due donne e il signor Heintz si trovano puntuali
al luogo convenuto; discutono a lungo, e alla fine si mettono d'accordo.
Decidono di darsi la morte tutti e tre.
La signora Heintz ritorna a casa; si tira una
revolverata e muore. Il signor Heintz, allora, e la sua innamorata signorina ventenne,
visto che con la morte della signora Heintz ogni ostacolo alla loro felice unione è
rimosso, riconoscono di non aver più ragione d'uccidersi e risolvono di rimanere in vita
e di sposarsi. Diversamente però risolve l'autorità giudiziaria, e li trae in arresto.
Conclusione volgarissima.
(Vedere i giornali di New York del 25 gennajo 1921,
edizione del mattino.)
*
Poniamo che un disgraziato scrittor di commedie
abbia la cattiva ispirazione di portare sulla scena un caso simile.
Si può esser sicuri che la sua fantasia si farà
scrupolo prima di tutto di sanare con eroici rimedii l'assurdità di quel suicidio della
signora Heintz, per renderlo in qualche modo verosimile.
Ma si può essere ugualmente sicuri, che, pur con
tutti i rimedii eroici escogitati dallo scrittor di commedie, novantanove critici
drammatici su cento giudicheranno assurdo quel suicidio e inverosimile la commedia.
Perché la vita, per tutte le sfacciate assurdità,
piccole e grandi, di cui beatamente è piena, ha l'inestimabile privilegio di poter fare a
meno di quella stupidissima verosimiglianza, a cui l'arte crede suo dovere obbedire.
Le assurdità della vita non hanno bisogno di parer
verosimili, perché sono vere. All'opposto di quelle dell'arte che, per parer vere, hanno
bisogno d'esser verosimili. E allora, verosimili, non sono più assurdità.
Un caso della vita può essere assurdo; un'opera
d'arte, se è opera d'arte, no.
Ne segue che tacciare d'assurdità e
d'inverosimiglianza, in nome della vita, un'opera d'arte è balordaggine.
In nome dell'arte, sì; in nome della vita, no.
*
C'è nella storia naturale un regno studiato
dalla zoologia, perché popolato dagli animali.
Tra i tanti animali che lo popolano è compreso anche
l'uomo.
E lo zoologo sì, può parlare dell'uomo e
dire, per esempio, che non è un quadrupede ma un bipede, e che non ha la coda, vuoi come
la scimmia, vuoi come l'asino, vuoi come il pavone.
All'uomo di cui parla lo zoologo non può mai capitar
la disgrazia di perdere, poniamo, una gamba e di farsela mettere di legno; di perdere un
occhio e di farselo mettere di vetro. L'uomo dello zoologo ha sempre due gambe, di cui
nessuna di legno; sempre due occhi, di cui nessuno di vetro.
E contraddire allo zoologo è impossibile. Perché lo
zoologo, se gli presentate un tale con una gamba di legno o con un occhio di vetro, vi
risponde che egli non lo conosce, perché quello non è l'uomo, ma un uomo.
È vero però che noi tutti, a nostra volta, possiamo
rispondere allo zoologo che l'uomo ch'egli conosce non esiste, e che invece esistono gli uomini,
di cui nessuno è uguale all'altro e che possono anche avere per disgrazia una gamba di
legno o un occhio di vetro.
Si domanda a questo punto se vogliono esser
considerati come zoologi o come critici letterarii quei tali signori che, giudicando un
romanzo o una novella o una commedia, condannano questo o quel personaggio, questa o
quella rappresentazione di fatti o di sentimenti, non già in nome dell'arte come sarebbe
giusto, ma in nome d'una umanità che sembra essi conoscano a perfezione, come se
realmente in astratto esistesse, fuori cioè di quell'infinita varietà d'uomini capaci di
commettere tutte quelle sullodate assurdità che non hanno bisogno di parer
verosimili, perché sono vere.
*
Intanto, per l'esperienza che dal canto mio ho
potuto fare d'una tal critica, il bello è questo: che mentre lo zoologo riconosce che
l'uomo si distingue dalle altre bestie anche per il fatto che l'uomo ragiona e che le
bestie non ragionano; il ragionamento appunto (vale a dire ciò che è più proprio
dell'uomo) è apparso tante volte ai signori critici, non come un eccesso se mai, ma anzi
come un difetto d'umanità in tanti miei non allegri personaggi. Perché pare che umanità,
per loro, sia qualche cosa che più consista nel sentimento che nel ragionamento.
Ma volendo parlare così astrattamente come codesti
critici fanno, non è forse vero che mai l'uomo tanto appassionatamente ragiona (o
sragiona, che è lo stesso), come quando soffre, perché appunto delle sue sofferenze vuol
veder la radice, e chi gliele ha date, e se e quanto sia stato giusto il dargliele;
mentre, quando gode, si piglia il godimento e non ragiona, come se il godere fosse suo
diritto?
Dovere delle bestie è il soffrire senza ragionare.
Chi soffre e ragiona (appunto perché soffre), per quei signori critici non è umano;
perché pare che, chi soffra, debba esser soltanto bestia, e che soltanto quando sia bestia,
sia per essi umano.
*
Ma di recente ho pur trovato un critico, a cui
son molto grato.
A proposito della mia disumana e, pare,
inguaribile «cerebralità» e paradossale inverosimiglianza delle mie favole e dei miei
personaggi, egli ha domandato a quegli altri critici donde attingevano il criterio per
giudicare siffattamente il mondo della mia arte.
«Dalla cosiddetta vita normale?» ha
domandato. «Ma cos'è questa se non un sistema di rapporti, che noi scegliamo nel caos
degli eventi quotidiani e che arbitrariamente qualifichiamo normale?» Per
concludere che «non si può giudicare il mondo d'un artista con un criterio di giudizio
attinto altrove che da questo mondo medesimo».
Debbo aggiungere, per dar credito a questo critico
presso gli altri critici che non ostante questo, anzi proprio per questo, anch'egli poi
giudica sfavorevolmente l'opera mia: perché gli pare, cioè, ch'io non sappia dar valore
e senso universalmente umano alle mie favole e ai miei personaggi; tanto da lasciar
perplesso chi deve giudicarli, se io non abbia inteso piuttosto limitarmi a riprodurre
certi curiosi casi, certe particolarissime situazioni psicologiche.
Ma se il valore e il senso universalmente umano
di certe mie favole e di certi miei personaggi, nel contrasto com'egli dice, tra realtà e
illusione, tra volto individuale ed immagine sociale di esso, consistesse innanzi tutto
nel senso e nel valore da dare a quel primo contrasto, il quale per una beffa costante
della vita, ci si scopre sempre inconsistente, in quanto che, necessariamente
purtroppo, ogni realtà d'oggi è destinata a scoprircisi illusione domani, ma illusione necessaria,
se purtroppo fuori di essa non c'è per noi altra realtà? Se consistesse appunto in
questo, che un uomo o una donna, messi da altri o da se stessi in una penosa situazione,
socialmente anormale, assurda per quanto si voglia, vi durano, la sopportano, la
rappresentano davanti agli altri, finché non la vedono, sia pure per la loro
cecità o incredibile buonafede; perché appena la vedono come a uno specchio che sia
posto loro davanti, non la sopportano più, ne provan tutto l'orrore e la infrangono o, se
non possono infrangerla, se ne senton morire? Se consistesse appunto in questo, che una
situazione, socialmente anormale, si accetta, anche vedendola a uno specchio, che in
questo caso ci para davanti la nostra stessa illusione; e allora la si rappresenta,
soffrendone tutto il martirio, finché la rappresentazione di essa sia possibile dentro la
maschera soffocante che da noi stessi ci siamo imposta o che da altri o da una crudele
necessità ci sia stata imposta, cioè fintanto che sotto questa maschera un sentimento
nostro, troppo vivo, non sia ferito così addentro, che la ribellione alla fine prorompa e
quella maschera si stracci e si calpesti?
«Allora, di colpo» dice il critico «un fiotto
d'umanità invade questi personaggi, le marionette divengono improvvisamente creature di
carne e di sangue, e parole che bruciano l'anima e straziano il cuore escono dalle loro
labbra»
E sfido! Hanno scoperto il loro nudo volto
individuale sotto quella maschera, che li rendeva marionette di se stessi, o in mano agli
altri; che li faceva in prima apparir duri, legnosi, angolosi, senza finitezza e senza
delicatezza, complicati e strapiombanti, come ogni cosa combinata e messa sù non
liberamente ma per necessità, in una situazione anormale, inverosimile, paradossale, tale
insomma che essi alla fine non han potuto più sopportarla e l'hanno rotta.
L'arruffìo, se c'è, dunque è voluto; il
macchinismo, se c'è, dunque è voluto; ma non da me: bensì dalla favola stessa, dagli
stessi personaggi; e si scopre subito, difatti: spesso è concertato apposta e messo sotto
gli occhi nell'atto stesso di concertarlo e di combinarlo: è la maschera per una
rappresentazione; il giuoco delle parti; quello che vorremmo o dovremmo essere; quello che
agli altri pare che siamo; mentre quel che siamo, non lo sappiamo, fino a un certo punto,
neanche noi stessi; la goffa incerta metafora di noi; la costruzione, spesso arzigogolata,
che facciamo di noi, o che gli altri fanno di noi: dunque, davvero, un macchinismo, sì,
in cui ciascuno volutamente, ripeto, è la marionetta di se stesso; e poi, alla fine, il
calcio che manda all'aria tutta la baracca.
Credo che non mi resti che di congratularmi con la
mia fantasia se, con tutti i suoi scrupoli, ha fatto apparir come difetti reali, quelli
ch'eran voluti da lei: difetti di quella fittizia costruzione che i personaggi stessi han
messo su di sé e della loro vita, o che altri ha messo sù per loro: i difetti insomma
della maschera finché non si scopre nuda.
*
Ma una consolazione più grande m'è venuta dalla
vita, o dalla cronaca quotidiana, a distanza di circa vent'anni dalla prima pubblicazione
di questo mio romanzo Il fu Mattia Pascal, che ancora una volta oggi si ristampa.
Neppure ad esso, quando apparve per la prima volta,
mancò, pur tra il consenso quasi unanime, chi lo tacciasse d'inverosimiglianza.
Ebbene, la vita ha voluto darmi la prova della
verità di esso in una misura veramente eccezionale, fin nella minuzia di certi
caratteristici particolari spontaneamente trovati dalla mia fantasia.
Ecco quanto si leggeva nel Corriere della Sera
del 27 marzo 1920:
L'OMAGGIO DI UN VIVO
ALLA PROPRIA TOMBA
Un singolare caso di bigamia, dovuto all'affermata ma non sussistente morte di un
marito, si è rivelato in questi giorni. Risaliamo brevemente all'antefatto. Nel reparto
Calvairate il 26 dicembre 1916 alcuni contadini pescavano dalle acque del canale delle
«Cinque chiuse» il cadavere di un uomo rivestito di maglia e pantaloni color marrone.
Del rinvenimento fu dato avviso ai carabinieri che iniziarono le investigazioni. Poco dopo
il cadavere veniva identificato da tale Maria Tedeschi, ancor piacente donna sulla
quarantina, e da certi Luigi Longoni e Luigi Majoli, per quello dell'elettricista Ambrogio
Casati di Luigi, nato nel 1869 marito della Tedeschi. In realtà l'annegato assomigliava
molto al Casati.
Quella testimonianza, a quanto ora è risultato,
sarebbe stata alquanto interessata, specie per il Majoli e per la Tedeschi. Il vero Casati
era vivo! Era, però, in carcere ancora dal 21 febbraio dell'anno precedente per un reato
contro la proprietà e da tempo viveva diviso, sebbene non legalmente, dalla moglie. Dopo
sette mesi di gramaglie, la Tedeschi passava a nuove nozze col Majoli, senza urtare contro
nessuno scoglio burocratico. Il Casati finì di scontare la pena l'8 marzo del 1917 e solo
in questi giorni egli apprese di essere... morto e che sua moglie si era rimaritata ed era
scomparsa. Seppe tutto ciò quando si recò all'Ufficio di anagrafe in piazza Missori,
avendo bisogno di un documento. L'impiegato, allo sportello, inesorabilmente gli osservò:
- Ma voi siete morto! Il vostro domicilio legale è
al cimitero di Musocco, campo comune 44, fossa n. 550...
Ogni protesta di colui che voleva essere dichiarato
vivo fu inutile. Il Casati si propone di far riconoscere i suoi diritti alla...
resurrezione, e non appena rettificato, per quanto lo riguarda, lo stato civile, la
presunta vedova rimaritata vedrà annullato il secondo matrimonio.
Intanto la stranissima avventura non ha punto
afflitto il Casati: anzi si direbbe che l'ha messo di buon umore, e, desideroso di nuove
emozioni, ha voluto far una capatina alla... propria tomba e come atto di omaggio alla sua
memoria, ha deposto sul tumulo un fragrante mazzo di fiori e vi ha acceso un lumino
votivo!
Il presunto suicidio in un canale; il cadavere
estratto e riconosciuto dalla moglie e da chi poi sarà secondo marito di lei; il ritorno
del finto morto e finanche l'omaggio alla propria tomba! Tutti i dati di fatto,
naturalmente senza tutto quell'altro che doveva dare al fatto valore e senso, universalmente
umano.
Non posso supporre che il signor Ambrogio Casati
elettricista, abbia letto il mio romanzo e recato i fiori alla sua tomba per imitazione
del fu Mattia Pascal.
La vita, intanto, col suo beatissimo dispregio d'ogni
verosimiglianza, poté trovare un prete e un sindaco che unirono in matrimonio il signor
Majoli e la signora Tedeschi senza curarsi di conoscere un dato di fatto, di cui pur forse
era facilissimo aver notizia, che cioè il marito signor Casati si trovava in carcere e
non sottoterra.
La fantasia si sarebbe fatto scrupolo, certamente, di
passar sopra a un tal dato di fatto; e ora gode, ripensando alla taccia di
inverosimiglianza che anche allora le fu data, di far conoscere di quali reali
inverosimiglianze sia capace la vita anche nei romanzi che, senza saperlo, essa copia
dall'arte.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998