Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
XII
L'occhio e Papiano
- La tragedia d'Oreste in un teatrino
di marionette! - venne ad annunziarmi il signor Anselmo Paleari. - Marionette automatiche,
di nuova invenzione. Stasera, alle ore otto e mezzo, in via dei Prefetti, numero
cinquantaquattro. Sarebbe da andarci, signor Meis.
- La tragedia d'Oreste?
- Già! D'après Sophocle, dice il
manifestino. Sarà l'Elettra. Ora senta un po, che bizzarria mi viene in mente! Se, nel
momento culminante, proprio quando la marionetta che rappresenta Oreste è per vendicare
la morte del padre sopra Egisto e la madre, si facesse uno strappo nel cielo di carta del
teatrino, che avverrebbe? Dica lei.
- Non saprei, - risposi, stringendomi ne le spalle.
- Ma è facilissimo, signor Meis! Oreste rimarrebbe
terribilmente sconcertato da quel buco nel cielo.
- E perché?
- Mi lasci dire. Oreste sentirebbe ancora gl'impulsi
della vendetta, vorrebbe seguirli con smaniosa passione, ma gli occhi, sul punto, gli
andrebbero lì a quello strappo, donde ora ogni sorta di mali influssi penetrerebbero
nella scena, e si sentirebbe cader le braccia. Oreste, insomma, diventerebbe Amleto. Tutta
la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda
pure: in un buco nel cielo di carta.
E se ne andò, ciabattando.
Dalle vette nuvolose delle sue astrazioni il signor
Anselmo lasciava spesso precipitar così, come valanghe, i suoi pensieri. La ragione, il
nesso, l'opportunità di essi rimanevano lassù, tra le nuvole, dimodoché difficilmente a
chi lo ascoltava riusciva di capirci qualche cosa.
L'immagine della marionetta d'Oreste sconcertata dal
buco nel cielo mi rimase tuttavia un pezzo nella mente. A un certo punto: «Beate le
marionette,» sospirai, «su le cui teste di legno il finto cielo si conserva senza
strappi! Non perplessità angosciose, né ritegni, né intoppi, né ombre, né pietà:
nulla! E possono attendere bravamente e prender gusto alla loro commedia e amare e tener
se stesse in considerazione e in pregio, senza soffrir mai vertigini o capogiri, poiché
per la loro statura e per le loro azioni quel cielo è un tetto proporzionato.
«E il prototipo di queste marionette, caro signor
Anselmo,» seguitai a pensare, «voi l'avete in casa, ed è il vostro indegno genero,
Papiano. Chi più di lui pago del cielo di cartapesta, basso basso, che gli sta sopra,
comoda e tranquilla dimora di quel Dio proverbiale, di maniche larghe, pronto a chiuder
gli occhi e ad alzare in remissione la mano; di quel Dio che ripete sonnacchioso a ogni
marachella: - Ajutati, ch'io t'ajuto -? E s'ajuta in tutti i modi il vostro
Papiano. La vita per lui è quasi un gioco d'abilità. E come gode a cacciarsi in ogni
intrigo: alacre, intraprendente, chiacchierone!»
Aveva circa quarant'anni, Papiano, ed era alto di
statura e robusto di membra: un po' calvo, con un grosso pajo di baffi brizzolati appena
appena sotto il naso, un bel nasone dalle narici frementi; occhi grigi, acuti e irrequieti
come le mani. Vedeva tutto e toccava tutto. Mentre, per esempio, stava a parlar con me,
s'accorgeva - non so come - che Adriana, dietro a lui, stentava a pulire e a rimettere a
posto qualche oggetto nella camera, e subito, assaettandosi:
- Pardon!
Correva a lei, le toglieva l'oggetto dalle mani:
- No, figliuola mia, guarda: si fa cosi!
E lo ripuliva lui, lo rimetteva a posto lui, e
tornava a me. Oppure s'accorgeva che il fratello, il quale soffriva di convulsioni
epilettiche, «s'incantava», e correva a dargli schiaffetti su le guance, biscottini sul
naso:
- Scipione! Scipione!
O gli soffiava in faccia, fino a farlo rinvenire.
Chi sa quanto mi ci sarei divertito, se non avessi
avuto quella maledetta coda di paglia!
Certo egli se ne accorse fin dai primi giorni, o -
per lo meno - me la intravide. Cominciò un assedio fitto fitto di cerimonie, ch'eran
tutte uncini per tirarmi a parlare. Mi pareva che ogni sua parola, ogni sua domanda, fosse
pur la più ovvia, nascondesse un'insidia. Non avrei voluto intanto mostrar diffidenza per
non accrescere i suoi sospetti; ma l'irritazione ch'egli mi cagionava con quel suo tratto
da vessatore servizievole m'impediva di dissimularla bene.
L'irritazione mi proveniva anche da altre due cause
interne e segrete. Una era questa: ch'io, senza aver commesso cattive azioni, senz'aver
fatto male a nessuno, dovevo guardarmi così, davanti e dietro, umoroso e sospettoso, come
se avessi perduto il diritto d'esser lasciato in pace. L'altra, non avrei voluto
confessarla a me stesso, e appunto perciò m'irritava più fortemente, sotto sotto. Avevo
un bel dirmi:
«Stupido! vattene via, levati dai piedi codesto
seccatore!»
Non me ne andavo: non potevo più andarmene.
La lotta che facevo contro me stesso, per non assumer
coscienza di ciò che sentivo per Adriana, m'impediva intanto di riflettere alle
conseguenze della mia anormalissima condizione d'esistenza rispetto a questo sentimento. E
restavo lì, perplesso, smanioso nella mal contentezza di me, anzi in orgasmo continuo,
eppur sorridente di fuori.
Di ciò che m'era occorso di scoprire quella sera,
nascosto dietro la persiana, non ero ancor venuto in chiaro. Pareva che la cattiva
impressione che Papiano aveva ricevuto di me alle notizie della signorina Caporale, si
fosse cancellata subito alla presentazione. Egli mi tormentava, è vero, ma come se non
potesse farne a meno; non certo col disegno segreto di farmi andar via; anzi, al
contrario! Che macchinava? Adriana, dopo il ritorno di lui, era diventata triste e schiva,
come nei primi giorni. La signorina Silvia Caporale dava del lei a Papiano, almeno in
presenza degli altri, ma quell'arcifanfano dava del tu a lei, apertamente; arrivava
finanche a chiamarla Rea Silvia; e io non sapevo come interpretare queste sue
maniere confidenziali e burlesche. Certo quella disgraziata non meritava molto rispetto
per il disordine della sua vita, ma neanche d'esser trattata a quel modo da un uomo che
non aveva con lei né parentela né affinità.
Una sera (c'era la luna piena, e pareva giorno),
dalla mia finestra la vidi, sola e triste, là, nel terrazzino, dove ora ci riunivamo
raramente, e non più col piacere di prima, poiché v'interveniva anche Papiano che
parlava per tutti. Spinto dalla curiosità, pensai d'andarla a sorprendere in quel momento
d'abbandono.
Trovai, al solito, nel corridojo, presso all'uscio
della mia camera, asserpolato sul baule, il fratello di Papiano, nello stesso
atteggiamento in cui lo avevo veduto la prima volta. Aveva eletto domicilio lassù, o
faceva la sentinella a me per ordine del fratello?
La signorina Caporale, nel terrazzino, piangeva. Non
volle dirmi nulla, dapprima; si lamentò soltanto d'un fierissimo mal di capo. Poi, come
prendendo una risoluzione improvvisa, si voltò a guardarmi in faccia, mi porse una mano e
mi domandò:
- E mio amico lei?
- Se vuol concedermi quest'onore... - le risposi,
inchinandomi.
- Grazie. Non mi faccia complimenti, per carità! Se
sapesse che bisogno ho io d'un amico, d'un vero amico, in questo momento! Lei dovrebbe
comprenderlo, lei che è solo al mondo, come me... Ma lei è uomo! Se sapesse... se
sapesse...
Addentò il fazzolettino che teneva in mano, per
impedirsi di piangere; non riuscendovi, lo strappò a più riprese, rabbiosamente.
- Donna, brutta e vecchia, - esclamò: - tre
disgrazie, a cui non c'è rimedio! Perché vivo io?
- Si calmi, via, - la pregai, addolorato. - Perché
dice cosi, signorina?
Non mi riuscì dir altro.
- Perché... - proruppe lei, ma s'arrestò d'un
tratto.
- Dica, - la incitai. - Se ha bisogno d'un amico...
Ella si portò agli occhi il fazzolettino lacerato,
e...
- Io avrei piuttosto bisogno di morire! - gemette con
accoramento così profondo e intenso, che mi sentii subito un nodo d'angoscia alla gola.
Non dimenticherò mai più la piega dolorosa di
quella bocca appassita e sgraziata nel proferire quelle parole, né il fremito del mento
su cui si torcevano alcuni peluzzi neri.
- Ma neanche la morte mi vuole, - riprese. -
Niente... scusi, signor Meis! Che ajuto potrebbe darmi lei? Nessuno. Tutt'al più, di
parole... si, un po' di compassione. Sono orfana, e debbo star qua, trattata come... forse
lei se ne sarà accorto. E non ne avrebbero il diritto, sa! Perché non mi fanno mica
l'elemosina...
E qui la signorina Caporale mi parlò delle sei mila
lire scroccatele da Papiano, a cui io ho già accennato altrove.
Per quanto il cordoglio di quell'infelice
m'interessasse, non era certo quello che volevo saper da lei. Approfittandomi (lo
confesso) dell'eccitazione in cui ella si trovava, fors'anche per aver bevuto qualche
bicchierino di più, m'arrischiai a domandarle:
- Ma, scusi, signorina, perché lei glielo ha dato,
quel danaro?
- Perché? - e strinse le pugna. - Due perfidie, una
più nera dell'altra! Gliel'ho dato per dimostrargli che avevo ben compreso che cosa egli
volesse da me. Ha capito? Con la moglie ancora in vita, costui...
- Ho capito.
- Si figuri, - riprese con foga. - La povera Rita...
- La moglie?
- Sì Rita, la sorella d'Adriana... Due anni malata,
tra la vita e la morte... Si figuri, se io... Ma già, qua lo sanno, com'io mi comportai;
lo sa Adriana, e perciò mi vuol bene; lei sì, poverina. Ma come son rimasta io ora?
Guardi: per lui, ho dovuto anche dar via il pianoforte, ch'era per me... tutto, capirà!
non per la mia professione soltanto: io parlavo col mio pianoforte! Da ragazza,
all'Accademia, componevo; ho composto anche dopo, diplomata; poi ho lasciato andare. Ma
quando avevo il pianoforte, io componevo ancora, per me sola, all'improvviso; mi
sfogavo... m'inebriavo fino a cader per terra, creda, svenuta, in certi momenti. Non so io
stessa che cosa m'uscisse dall'anima: diventavo una cosa sola col mio strumento, e le mie
dita non vibravano più su una tastiera: io facevo piangere e gridare l'anima mia. Posso
dirle questo soltanto, che una sera (stavamo, io e la mamma, in un mezzanino) si raccolse
gente, giù in istrada, che m'applaudi alla fine, a lungo. E io ne ebbi quasi paura.
- Scusi, signorina, - le proposi allora, per
confortarla in qualche modo. - E non si potrebbe prendere a nolo un pianoforte? Mi
piacerebbe tanto, tanto, sentirla sonare; e se lei...
- No, - m'interruppe, - che vuole che suoni io più!
E finita per me. Strimpello canzoncine sguajate. Basta. E finita...
- Ma il signor Terenzio Papiano, - m'arrischiai di
nuovo a domandare, - le ha promesso forse la restituzione di quel denaro?
- Lui? - fece subito, con un fremito d'ira, la
signorina Caporale. - E chi gliel'ha mai chiesto! Ma sì, me lo promette adesso, se io lo
ajuto... Già! Vuol essere ajutato da me, proprio da me; ha avuto la sfrontatezza di
propormelo, cosi, tranquillamente...
- Ajutarlo? In che cosa?
- In una nuova perfidia! Comprende? Io vedo che lei
ha compreso.
- Adri... la... la signorina Adriana? - balbettai.
- Appunto. Dovrei persuaderla io! lo, capisce?
- A sposar lui?
- S'intende. Sa perché? Ha, o piuttosto, dovrebbe
avere quattordici o quindici mila lire di dote quella povera disgraziata: la dote della
sorella, che egli doveva subito restituire al signor Anselmo, poiché Rita è morta senza
lasciar figliuoli. Non so che imbrogli abbia fatto. Ha chiesto un anno di tempo per questa
restituzione. Ora spera che... Zitto... ecco Adriana!
Chiusa in sé e più schiva del solito, Adriana
s'appressò a noi: cinse con un braccio la vita della signorina Caporale e accennò a me
un lieve saluto col capo. Provai, dopo quelle confidenze, una stizza violenta nel vederla
così sottomessa e quasi schiava dell'odiosa tirannia di quel cagliostro. Poco dopo però,
comparve nel terrazzino, come un'ombra, il fratello di Papiano.
- Eccolo, - disse piano la Caporale ad Adriana.
Questa socchiuse gli occhi, sorrise amaramente,
scosse il capo e si ritrasse dal terrazzino, dicendomi:
- Scusi, signor Meis. Buona sera.
- La spia, - mi susurrò la signorina Caporale,
ammiccando.
- Ma di che teme la signorina Adriana? - mi scappò
detto, nella cresciuta irritazione. - Non capisce che, facendo così, dà più ansa a
colui da insuperbire e da far peggio il tiranno? Senta, signorina, io le confesso che
provo una grande invidia per tutti coloro che sanno prender gusto e interessarsi alla
vita, e li ammiro. Tra chi si rassegna a far la parte della schiava e chi si assume, sia
pure con la prepotenza, quella del padrone, la mia simpatia è per quest'ultimo.
La Caporale notò l'animazione con cui avevo parlato
e, con aria di sfida, mi disse:
- E perché allora non prova a ribellarsi lei per
primo ?
- Io?
- Lei, lei, - affermò ella, guardandomi negli occhi,
aizzosa.
- Ma che c'entro io? - risposi. - Io potrei
ribellarmi in una sola maniera: andandomene.
- Ebbene, - concluse maliziosamente la signorina
Caporale, - forse questo appunto non vuole Adriana.
- Ch'io me ne vada?
Quella fece girar per aria il fazzolettino
sbrendolato e poi se lo raccolse intorno a un dito sospirando:
- Chi sa!
Scrollai le spalle.
- A cena! a cena! - esclamai; e la lasciai lì in
asso, nel terrazzino.
Per cominciare da quella sera stessa, passando per il
corridojo, mi fermai innanzi al baule, su cui Scipione Papiano era tornato ad
accoccolarsi, e:
- Scusi, - gli dissi, - non avrebbe altro posto dove
star seduto più comodamente? Qua lei m'impiccia.
Quegli mi guardò balordo, con gli occhi languenti,
senza scomporsi.
- Ha capito? - incalzai, scotendolo per un braccio.
Ma come se parlassi al muro! Si schiuse allora
l'uscio in fondo al corridojo, ed apparve Adriana.
- La prego, signorina, - le dissi, - veda un po' di
fare intender lei a questo poveretto che potrebbe andare a sedere altrove.
- E malato, - cercò di scusarlo Adriana.
- E però che è malato! - ribattei io. - Qua non sta
bene: gli manca l'aria... e poi, seduto su un baule... Vuole che lo dica io al fratello?
- No no, - s'affrettò a rispondermi lei. - Glielo
dirò io, non dubiti.
- Capirà, - soggiunsi. - Non sono ancora re, da
avere una sentinella alla porta.
Perdetti, da quella sera in poi, il dominio di me
stesso; cominciai a sforzare apertamente la timidezza di Adriana; chiusi gli occhi e
m'abbandonai, senza più riflettere, al mio sentimento.
Povera cara mammina! Ella si mostrò dapprincipio
come tenuta tra due, tra la paura e la speranza. Non sapeva affidarsi a questa,
indovinando che il dispetto mi spingeva; ma sentivo d'altra parte che la paura in lei era
pur cagionata dalla speranza fino a quel momento segreta e quasi incosciente di non
perdermi; e perciò, dando io ora a questa sua speranza alimento co' miei nuovi modi
risoluti, non sapeva neanche cedere del tutto alla paura.
Questa sua delicata perplessità, questo riserbo
onesto m'impedirono intanto di trovarmi subito a tu per tu con me stesso e mi fecero
impegnare sempre più nella sfida quasi sottintesa con Papiano.
M'aspettavo che questi mi si piantasse di fronte fin
dal primo giorno, smettendo i soliti complimenti e le solite cerimonie. Invece, no. Tolse
il fratello dal posto di guardia, lì sul baule, come io volevo, e arrivò finanche a
celiar su l'aria impacciata e smarrita d'Adriana in mia presenza.
- La compatisca, signor Meis: è vergognosa come una
monacella la mia cognatina!
Questa inattesa remissione, tanta disinvoltura
m'impensierirono. Dove voleva andar a parare?
Una sera me lo vidi arrivare in casa insieme con un
tale che entrò battendo forte il bastone sul pavimento, come se, tenendo i piedi entro un
pajo di scarpe di panno che non facevan rumore, volesse sentire così, battendo il
bastone, ch'egli camminava.
- Dôva ca l'è stô me car parent? - si mise
a gridare con stretto accento torinese, senza togliersi dal capo il cappelluccio dalle
tese rialzate, calcato fin su gli occhi a sportello, appannati dal vino, né la pipetta
dalla bocca, con cui pareva stesse a cuocersi il naso più rosso di quello della signorina
Caporale. - Dôva ca l'è stô me car parent?
- Eccolo, - disse Papiano, indicandomi; poi rivolto a
me: - Signor Adriano, una grata sorpresa! Il signor Francesco Meis, di Torino, suo
parente.
- Mio parente? - esclamai, trasecolando.
Quegli chiuse gli occhi, alzò come un orso una zampa
e la tenne un tratto sospesa, aspettando che io gliela stringessi.
Lo lasciai lì, in quell'atteggiamento, per
contemplarlo un pezzo; poi:
- Che farsa è codesta? - domandai.
- No, scusi, perché? - fece Terenzio Papiano. - Il
signor Francesco Meis mi ha proprio assicurato che è suo...
- Cusin, - appoggiò quegli, senza aprir gli
occhi. - Tut i Meis i sôma parent.
- Ma io non ho il bene di conoscerla! - protestai.
- Oh ma côsta ca l'è bela! - esclamò colui.
- L'è propi për lon che mi't sôn vnù a trôvè.
- Meis? di Torino? - domandai io, fingendo di cercar
nella memoria. - Ma io non son di Torino!
- Come! Scusi, - interloquì Papiano. - Non mi ha
detto che fino a dieci anni lei stette a Torino?
- Ma si! - riprese quegli allora, seccato che si
mettesse in dubbio una cosa per lui certissima. - Cusin, cusin! Questo signore
qua... come si chiama?
- Terenzio Papiano, a servirla.
- Terenziano: a l'à dime che to pare a l'è
andàit an America: cosa ch'a veul di' lon? a veul di' che ti t' ses fieul 'd barba
Antôni ca l'è andàit 'ntla America. E nui sôma cusin.
- Ma se mio padre si chiamava Paolo...
- Ant&circni!
- Paolo, Paolo, Paolo. Vuol saperlo meglio di me?
Colui si strinse nelle spalle e stirò in sù la
bocca:
- A m'smiava Antôni, - disse stropicciandosi
il mento ispido d'una barba di quattro giorni almeno, quasi tutta grigia. - 'I veui nen
côtradite: sarà prô Paôlo. I ricordo nen ben, perché mi' i l'hai nen conôssulo.
Pover'uomo! Era in grado di saperlo meglio di me come
si chiamasse quel suo zio andato in America; eppure si rimise, perché a ogni costo volle
esser mio parente. Mi disse che suo padre, il quale si chiamava Francesco come lui, ed era
fratello di Antonio... cioè di Paolo, mio padre, era andato via da Torino, quand'egli era
ancor masnà, di sette anni, e che - povero impiegato - aveva vissuto sempre
lontano dalla famiglia, un po' qua, un po' là. Sapeva poco, dunque, dei parenti, sia
paterni, sia materni: tuttavia, era certo, certissimo d'esser mio cugino.
Ma il nonno, almeno, il nonno, lo aveva conosciuto?
Volli domandarglielo. Ebbene, sì: lo aveva conosciuto, non ricordava con precisione se a
Pavia o a Piacenza.
- Ah si? proprio conosciuto? e com'era?
Era... non se ne ricordava lui, franc nen.
- A son passà trant'ani...
Non pareva affatto in mala fede; pareva piuttosto uno
sciagurato che avesse affogato la propria anima nel vino, per non sentir troppo il peso
della noja e della miseria. Chinava il capo, con gli occhi chiusi, approvando tutto ciò
ch'io dicevo per pigliarmelo a godere; son sicuro che se gli avessi detto che da bambini
noi eravamo cresciuti insieme e che parecchie volte io gli avevo strappato i capelli, egli
avrebbe approvato allo stesso modo. Non dovevo mettere in dubbio soltanto una cosa, che
noi cioè fossimo cugini: su questo non poteva transigere: era ormai stabilito, ci s'era
fissato, e dunque basta.
A un certo punto, però, guardando Papiano e
vedendolo gongolante, mi passò la voglia di scherzare. Licenziai quel pover'uomo mezzo
ubriaco, salutandolo : - Caro parente! - e domandai a Papiano, con gli occhi fissi
negli occhi, per fargli intender bene che non ero pane pe' suoi denti:
- Mi dica adesso dov'è andato a scovare quel bel
tomo.
- Scusi tanto, signor Adriano ! - premise
quell'imbroglione, a cui non posso fare a meno di riconoscere una grande genialità. - Mi
accorgo di non essere stato felice...
- Ma lei è felicissimo, sempre! - esclamai io.
- No, intendo: di non averle fatto piacere. Ma creda
pure che è stata una combinazione. Ecco qua: son dovuto andare questa mattina all'Agenzia
delle imposte, per conto del marchese, mio principale. Mentr'ero là, ho sentito chiamar
forte: «Signor Meis! Signor Meis!». Mi volto subito, credendo che vi sia anche
lei, per qualche affare, chi sa avesse, dico, bisogno di me, sempre pronto a servirla. Ma
che! chiamavano a questo bel tomo, come lei ha detto giustamente; e allora, così... per
curiosità, mi avvicinai e gli domandai se si chiamasse proprio Meis e di che paese fosse,
poiché io avevo l'onore e il piacere d'ospitare in casa un signor Meis... Ecco com'è
andata! Lui mi ha assicurato che lei doveva essere suo parente, ed è voluto venire a
conoscerla...
- All'Agenzia dell'imposte?
- Sissignore, è impiegato là: ajuto-agente.
Dovevo crederci? Volli accertarmene. Ed era vero,
sì; ma era vero del pari che Papiano, insospettito, mentre io volevo prenderlo di fronte,
là, per contrastare nel presente a' suoi segreti armeggii, mi sfuggiva, mi sfuggiva per
ricercare invece nel mio passato e assaltarmi così quasi a le spalle. Conoscendolo bene,
avevo pur troppo ragione di temere che egli, con quel fiuto nel naso, fosse bracco da non
andare a lungo a vento: guaj se fosse riuscito ad aver sentore della minima traccia:
l'avrebbe certo seguitata fino al molino della Stìa.
Figurarsi dunque il mio spavento, quando, ivi a pochi
giorni, mentre me ne stavo in camera a leggere, mi giunse dal corridojo, come dall'altro
mondo, una voce, una voce ancor viva nella mia memoria.
- Agradecio Dio, ántes che me la son levada de
sobre!
Lo Spagnuolo ? quel mio spagnoletto barbuto e
atticciato di Montecarlo? colui che voleva giocar con me e col quale m'ero bisticciato a
Nizza?... Ah, perdio! Ecco la traccia! Era riuscito a scoprirla Papiano!
Balzai in piedi, reggendomi al tavolino per non
cadere, nell'improvviso smarrimento angoscioso: stupefatto, quasi atterrito, tesi
l'orecchio, con l'idea di fuggire non appena quei due - Papiano e lo Spagnuolo (era lui,
non c'era dubbio: lo avevo veduto nella sua voce) - avessero attraversato il corridojo.
Fuggire? E se- Papiano, entrando, aveva domandato alla serva s'io fossi in casa? Che
avrebbe pensato della mia fuga? Ma d'altra parte, se già sapeva ch'io non ero Adriano
Meis? Piano! Che notizia poteva aver di me quello Spagnuolo? Mi aveva veduto a Montecarlo.
Gli avevo io detto, allora, che mi chiamavo Mattia Pascal? Forse! Non ricordavo...
Mi trovai, senza saperlo, davanti allo specchio, come
se qualcuno mi ci avesse condotto per mano. Mi guardai. Ah quell'occhio maledetto ! Forse
per esso colui mi avrebbe riconosciuto. Ma come mai, come mai Papiano era potuto arrivare
fin là, fino alla mia avventura di Montecarlo? Questo più d'ogni altro mi stupiva. Che
fare intanto? Niente. Aspettar lì che ciò che doveva avvenire avvenisse.
Non avvenne nulla. E pur non di meno la paura non mi
passò, neppure la sera di quello stesso giorno, allorché Papiano, spiegandomi il mistero
per me insolubile e terribile di quella visita, mi dimostrò ch'egli non era affatto su la
traccia del mio passato, e che solo il caso, di cui da un pezzo godevo i favori, aveva
voluto farmene un altro, rimettendomi tra i piedi quello Spagnuolo, che forse non si
ricordava più di me né punto né poco.
Secondo le notizie che Papiano mi diede di lui, io,
andando a Montecarlo, non potevo non incontrarvelo, poich'egli era un giocatore di
professione. Strano era che lo incontrassi ora a Roma, o piuttosto, che io, venendo a
Roma, mi fossi intoppato in una casa, ove anch'egli poteva entrare. Certo, s'io non avessi
avuto da temere, questo caso non mi sarebbe parso tanto strano: quante volte infatti non
ci avviene d'imbatterci inaspettatamente in qualcuno che abbiamo conosciuto altrove per
combinazione? Del resto, egli aveva o credeva d'avere le sue buone ragioni per venire a
Roma e in casa di Papiano. Il torto era mio, o del caso che mi aveva fatto radere la barba
e cangiare il nome.
Circa vent'anni addietro, il marchese Giglio
d'Auletta, di cui Papiano era il segretario, aveva sposato l'unica sua figliuola a don
Antonio Pantogada, addetto all'Ambasciata di Spagna presso la Santa Sede. Poco dopo il
matrimonio, il Pantogada, scoperto una notte dalla polizia in una bisca insieme con altri
dell'aristocrazia romana, era stato richiamato a Madrid. Là aveva fatto il resto, e forse
qualcos'altro di peggio, per cui era stato costretto a lasciar la diplomazia. D'allora in
poi, il marchese d'Auletta non aveva avuto più pace, forzato continuamente a mandar
danaro per pagare i debiti di giuoco del genero incorreggibile. Quattr'anni fa, la moglie
del Pantogada era morta, lasciando una giovinetta di circa sedici anni, che il marchese
aveva voluto prendere con sé, conoscendo pur troppo in quali mani altrimenti sarebbe
rimasta. Il Pantogada non avrebbe voluto lasciarsela scappare; ma poi, costretto da una
impellente necessità di denaro, aveva ceduto. Ora egli minacciava senza requie il suocero
di riprendersi la figlia, e quel giorno appunto era venuto a Roma con questo intento, per
scroccare cioè altro danaro al povero marchese, sapendo bene che questi non avrebbe mai e
poi mai abbandonato nelle mani di lui la sua cara nipote Pepita.
Aveva parole di fuoco, lui, Papiano, per bollare
questo indegno ricatto del Pantogada. Ed era veramente sincera quella sua collera
generosa. E mentre egli parlava, io non potevo fare a meno di ammirare il privilegiato
congegno della sua coscienza che, pur potendo indignarsi così, realmente, delle altrui
nequizie, gli permetteva poi di farne delle simili o quasi, tranquillissimamente, a danno
di quel buon uomo del Paleari, suo suocero.
Intanto il marchese Giglio quella volta voleva tener
duro. Ne seguiva che il Pantogada sarebbe rimasto a Roma parecchio tempo e sarebbe certo
venuto a trovare in casa Terenzio Papiano, col quale doveva intendersi a meraviglia. Un
incontro dunque fra me e quello Spagnuolo sarebbe stato forse inevitabile, da un giorno
all'altro. Che fare?
Non potendo con altri, mi consigliai di nuovo con lo
specchio. In quella lastra l'immagine del fu Mattia Pascal, venendo a galla come dal fondo
della gora, con quell'occhio che solamente m'era rimasto di lui, mi parlò così:
«In che brutto impiccio ti sei cacciato, Adriano
Meis! Tu hai paura di Papiano, confessalo! e vorresti dar la colpa a me, ancora a me, solo
perché io a Nizza mi bisticciai con lo Spagnuolo. Eppure ne avevo ragione, tu lo sai. Ti
pare che possa bastare per il momento il cancellarti dalla faccia l'ultima traccia di me?
Ebbene, segui il consiglio della signorina Caporale e chiama il dottor Ambrosini, che ti
rimetta l'occhio a posto. Poi... vedrai!»
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998