Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
VI
Tac tac tac...
Lei sola, là dentro, quella pallottola d'avorio,
correndo graziosa nella roulette, in senso inverso al quadrante, pareva giocasse:
«Tac tac tac... ».
Lei sola: - non certo quelli che la guardavano,
sospesi nel supplizio che cagionava loro il capriccio di essa, a cui - ecco - sotto, su i
quadrati gialli del tavoliere, tante mani avevano recato, come in offerta votiva, oro, oro
e oro, tante mani che tremavano adesso nell'attesa angosciosa, palpando inconsciamente
altro oro, quello della prossima posta, mentre gli occhi supplici pareva dicessero: «Dove
a te piaccia, dove a te piaccia di cadere, graziosa pallottola d'avorio, nostra dea
crudele!».
Ero capitato là, a Montecarlo, per caso.
Dopo una delle solite scene con mia suocera e mia
moglie, che ora, oppresso e fiaccato com'ero dalla doppia recente sciagura, mi cagionavano
un disgusto intollerabile; non sapendo più resistere alla noja, anzi allo schifo di
vivere a quel modo; miserabile, senza né probabilità né speranza di miglioramento,
senza più il conforto che mi veniva dalla mia dolce bambina, senza alcun compenso, anche
minimo, all'amarezza, allo squallore, all'orribile desolazione in cui ero piombato; per
una risoluzione quasi improvvisa, ero fuggito dal paese, a piedi, con le cinquecento lire
di Berto in tasca.
Avevo pensato, via facendo, di recarmi a Marsiglia,
dalla stazione ferroviaria del paese vicino, a cui m'ero diretto: giunto a Marsiglia, mi
sarei imbarcato, magari con un biglietto di terza classe, per l'America, così alla
ventura.
Che avrebbe potuto capitarmi di peggio, alla fin
fine, di ciò che avevo sofferto e soffrivo a casa mia? Sarei andato incontro, sì, ad
altre catene, ma più gravi di quella che già stavo per strapparmi dal piede non mi
sarebbero certo sembrate. E poi avrei veduto altri paesi, altre genti, altra vita, e mi
sarei sottratto almeno all'oppressione che mi soffocava e mi schiacciava.
Se non che, giunto a Nizza, m'ero sentito cader
l'animo. Gl'impeti miei giovanili erano abbattuti da un pezzo: troppo ormai la noja mi
aveva tarlato dentro, e svigorito il cordoglio. L'avvilimento maggiore m'era venuto dalla
scarsezza del denaro con cui avrei dovuto avventurarmi nel bujo della sorte, così
lontano, incontro a una vita affatto ignota, e senz'alcuna preparazione.
Ora, sceso a Nizza, non ben risoluto ancora di
ritornare a casa, girando per la città, m'era avvenuto di fermarmi innanzi a una grande
bottega su l'Avenue de la Gare, che recava questa insegna a grosse lettere dorate:
DÉPÔT DE ROULETTES DE PRÉCISION
Ve n'erano esposte d'ogni dimensione,
con altri attrezzi del giuoco e varii opuscoli che avevano sulla copertina il disegno
della roulette;
Si sa che gl'infelici facilmente diventano
superstiziosi, per quanto poi deridano l'altrui credulità e le speranze che a loro stessi
la superstizione certe volte fa d'improvviso concepire e che non vengono mai a effetto,
s'intende.
Ricordo che io, dopo aver letto il titolo d'uno di
quegli opuscoli: Méthode pour gagner à la roulette, mi allontanai dalla bottega
con un sorriso sdegnoso e di commiserazione. Ma, fatti pochi passi, tornai in- dietro, e
(per curiosità, via, non per altro!) con quello stesso sorriso sdegnoso e di
commiserazione su le labbra, entrai nella bottega e comprai quell'opuscolo.
Non sapevo affatto di che si trattasse, in che
consistesse il giuoco e come fosse congegnato. Mi misi a leggere; ma ne compresi ben poco.
«Forse dipende,» pensai, «perché non ne so molto,
io, di francese.»
Nessuno me l'aveva insegnato; avevo imparato da me
qualche cosa, così, leggiucchiando nella biblioteca; non ero poi per nulla sicuro della
pronunzia e temevo di far ridere, parlando.
Questo timore appunto mi rese dapprima perplesso se
andare o no; ma poi pensai che m'ero partito per avventurarmi fino in America, sprovvisto
di tutto e senza conoscere neppur di vista l'inglese e lo spagnuolo; dunque via, con quel
po' di francese di cui potevo disporre e con la guida di quell'opuscolo, fino a
Montecarlo, li a due passi, avrei potuto bene avventurarmi.
«Né mia suocera né mia moglie,» dicevo fra me, in
treno, «sanno di questo po' di denaro, che mi resta in portafogli. Andrò a buttarlo lì,
per togliermi ogni tentazione. Spero che potrò conservare tanto da pagarmi il ritorno a
casa. E se no...»
Avevo sentito dire che non difettavano alberi -
solidi - nel giardino attorno alla bisca. In fin de' conti, magari mi sarei appeso
economicamente a qualcuno di essi, con la cintola dei calzoni, e ci avrei fatto anche una
bella figura. Avrebbero detto:
«Chi sa quanto avrà perduto questo povero uomo!»
Mi aspettavo di meglio, dico la verità. L'ingresso,
sì, non c'è male; si vede che hanno avuto quasi l'intenzione d'innalzare un tempio alla
Fortuna, con quelle otto colonne di marmo. Un portone e due porte laterali. Su queste era
scritto Tirez: e fin qui ci arrivavo; arrivai anche al Poussez del portone,
che evidentemente voleva dire il contrario; spinsi ed entrai.
Pessimo gusto! E fa dispetto. Potrebbero almeno
offrire a tutti coloro che vanno a lasciar lì tanto denaro la soddisfazione di vedersi
scorticati in un luogo men sontuoso e più bello. Tutte le grandi città si compiacciono
adesso di avere un bel mattatojo per le povere bestie, le quali pure, prive come sono
d'ogni educazione, non possono goderne. E vero tuttavia che la maggior parte della gente
che va lì ha ben altra voglia che quella di badare al gusto della decorazione di quelle
cinque sale, come coloro che seggono su quei divani, giro giro, non sono spesso in
condizione di accorgersi della dubbia eleganza dell'imbottitura.
Vi seggono, di solito, certi disgraziati, cui la
passione del giuoco ha sconvolto il cervello nel modo più singolare: stanno li a studiare
il così detto equilibrio delle probabilità, e meditano seriamente i colpi da tentare,
tutta un'architettura di giuoco, consultando appunti su le vicende de' numeri: vogliono
insomma estrarre la logica dal caso, come dire il sangue dalle pietre; e son sicurissimi
che, oggi o domani, vi riusciranno.
Ma non bisogna meravigliarsi di nulla.
- Ah, il 12! il 12! - mi diceva un signore di Lugano,
pezzo d'omone, la cui vista avrebbe suggerito le più consolanti riflessioni su le
resistenti energie della razza umana. - Il 12 è il re dei numeri; ed è il mio numero!
Non mi tradisce mai! Si diverte, sì, a farmi dispetti, magari spesso; ma poi, alla fine,
mi compensa, mi compensa sempre della mia fedeltà.
Era innamorato del numero 12, quell'omone lì, e non
sapeva più parlare d'altro. Mi raccontò che il giorno precedente quel suo numero non
aveva voluto sortire neppure una volta; ma lui non s'era dato per vinto: volta per volta,
ostinato, la sua posta sul 12; era rimasto su la breccia fino all'ultimo, fino all'ora in
cui i croupiers annunziano:
- Messieurs, aux trois dernier!
Ebbene, al primo di quei tre ultimi colpi, niente;
niente neanche al secondo; al terzo e ultimo, pàffete: il 12.
- M'ha parlato! - concluse, con gli occhi brillanti
di gioja - M'ha parlato!
È vero che, avendo perduto tutta la giornata, non
gli eran restati per quell'ultima posta che pochi scudi; dimodoché, alla fine, non aveva
potuto rifarsi di nulla. Ma che gl'importava? Il numero 12 gli aveva parlato!
Sentendo questo discorso, mi vennero a mente quattro
versi del povero Pinzone, il cui cartolare de' bisticci col seguito delle sue rime
balzane, rinvenuto durante lo sgombero di casa, sta ora in biblioteca; e volli recitarli a
quel signore:
Ero già stanco di stare alla bada della Fortuna. La dea capricciosa dovea pure passar per la mia strada. E passò finalmente. Ma tignosa. |
E quel signore allora si prese la testa con tutt'e
due le mani e contrasse dolorosamente, a lungo, tutta la faccia. Lo guardai, prima
sorpreso, poi costernato.
- Che ha?
- Niente. Rido, - mi rispose.
Rideva così! Gli faceva tanto male, tanto male la
testa, che non poteva soffrire lo scotimento del riso.
Andate a innamorarvi del numero 12!
Prima di tentare la sorte - benché senz'alcuna
illusione - volli stare un pezzo a osservare, per rendermi conto del modo con cui
procedeva il giuoco.
Non mi parve affatto complicato, come il mio opuscolo
m'aveva lasciato immaginare.
In mezzo al tavoliere, sul tappeto verde numerato,
era incassata la roulette. Tutt'intorno, i giocatori, uomini e donne, vecchi e
giovani, d'ogni paese e d'ogni condizione, parte seduti, parte in piedi, s'affrettavano
nervosamente a disporre mucchi e mucchietti di luigi e di scudi e biglietti di banca, su i
numeri gialli dei quadrati; quelli che non riuscivano ad accostarsi, o non volevano,
dicevano al croupier i numeri e i colori su cui intendevano di giocare, e il croupier,
subito, col rastrello disponeva le loro poste secondo l'indicazione, con meravigliosa
destrezza; si faceva silenzio, un silenzio strano, angoscioso, quasi vibrante di frenate
violenze, rotto di tratto in tratto dalla voce monotona sonnolenta dei croupiers:
- Messieurs, faites vos jeux
Mentre di là, presso altri tavolieri, altre voci
ugualmente monotone dicevano:
Le jeu est fait! Rien ne va plus!
Alla fine, il croupier lanciava la pallottola
sulla roulette
« tac tac... ».
E tutti gli occhi si volgevano a lei con varia
espressione: d'ansia, di sfida, d'angoscia, di terrore. Qualcuno fra quelli rimasti in
piedi, dietro coloro che avevano avuto la fortuna di trovare una seggiola, si sospingeva
per intravedere ancora la propria posta, prima che i rastrelli dei croupiers si
allungassero ad arraffarla.
La boule, alla fine, cadeva sul quadrante, e
il croupier ripeteva con la solita voce la formula d'uso e annunziava il numero
sortito e il colore.
Arrischiai la prima posta di pochi scudi sul
tavoliere di sinistra nella prima sala, così, a casaccio, sul venticinque; e stetti
anch'io a guardare la perfida pallottola, ma sorridendo, per una specie di vellicazione
interna, curiosa, al ventre.
Cade la boule sul quadrante, e:
- Vingtcinq! - annunzia il croupier. - Rouge,
impair et passe!
Avevo vinto! Allungavo la mano sul mio mucchietto
multiplicato, quanto un signore, altissimo di statura, da le spalle poderose troppo in
sù, che reggevano una piccola testa con gli occhiali d'oro sul naso rincagnato, la fronte
sfuggente, i capelli lunghi e lisci su la nuca, tra biondi e grigi, come il pizzo e i
baffi, me la scostò senza tante cerimonie e si prese lui il mio denaro.
Nel mio povero e timidissimo francese, volli fargli
notare che aveva sbagliato - oh, certo involontariamente!
Era un tedesco, e parlava il francese peggio di me,
ma con un coraggio da leone: mi si scagliò addosso, sostenendo che lo sbaglio invece era
mio, e che il denaro era suo.
Mi guardai attorno, stupito: nessuno fiatava, neppure
il mio vicino che pur mi aveva veduto posare quei pochi scudi sul venticinque. Guardai i croupiers:
immobili, impassibili, come statue. «Ah sì?» dissi tra me e, quietamente, mi tirai su
la mano gli altri scudi che avevo posato sul tavolino innanzi a me, e me la filai.
«Ecco un metodo, pour gagner à la roulette,»
pensai, «che non è contemplato nel mio opuscolo. E chi sa che non sia l'unico, in
fondo!»
Ma la fortuna, non so per quali suoi fini segreti,
volle darmi una solenne e memorabile smentita.
Appressatomi a un altro tavoliere, dove si giocava
forte, stetti prima un buon pezzo a squadrar la gente che vi stava attorno: erano per la
maggior parte signori in marsina; c'eran parecchie signore; più d'una mi parve equivoca;
la vista d'un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di sangue e
contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m'affidò molto, in prima; era in marsina
anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla: volli vederlo alla prova: puntò
forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche forte, al colpo seguente: via! non
sarebbe andato appresso ai miei quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella
scottatura, mi vergognai del mio sospetto. C'era tanta gente là che buttava a manate oro
e argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia miseriola?
Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di
cera, con un grosso monocolo all'occhio sinistro il quale affettava un'aria di sonnolenta
indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i suoi luigi; li
posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare, pinzandosi i peli dei baffetti
nascenti aspettava che la boule cadesse; domandava allora al suo vicino se aveva
perduto.
Lo vidi perdere sempre.
Quel suo vicino era un signore magro, elegantissimo,
su i quarant'anni; ma aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con
un pajo d'occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo.
Godeva, evidentemente, nel risponder di sì al giovinetto. Egli, qualche volta, vinceva.
Mi posi accanto a un grosso signore, dalla carnagione
così bruna, che le occhiaje e le palpebre gli apparivano come affumicate; aveva i capelli
grigi, ferruginei, e il pizzo ancor quasi tutto nero e ricciuto; spirava forza e salute;
eppure, come se la corsa della pallottola d'avorio gli promovesse l'asma, egli si metteva
ogni volta ad arrangolare, forte, irresistibilmente. La gente si voltava a guardarlo; ma
raramente egli se n'accorgeva: smetteva allora per un istante, si guardava attorno, con un
sorriso nervoso, e tornava ad arrangolare, non potendo farne a meno, finché la boule
non cadeva sul quadrante.
A poco a poco, guardando, la febbre del giuoco prese
anche me. I primi colpi mi andarono male. Poi cominciai a sentirmi come in uno stato
d'ebbrezza estrosa curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti
ispirazioni; puntavo, ogni volta, dopo gli altri, all'ultimo, là! e subito acquistavo la
coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo. Puntavo dapprima poco; poi, man mano,
di più, di più, senza contare. Quella specie di lucida ebbrezza cresceva intanto in me,
né s'intorbidava per qualche colpo fallito, perché mi pareva d'averlo quasi preveduto;
anzi, qualche volta, dicevo tra me: «Ecco, questo lo perderò; debbo perderlo».
Ero come elettrizzato. A un certo punto, ebbi l'ispirazione di arrischiar tutto, là e
addio; e vinsi. Gli orecchi mi ronzavano; ero tutto in sudore, e gelato. Mi parve che uno
dei croupiers come sorpreso di quella mia tenace fortuna, mi osservasse.
Nell'esagitazione in cui mi trovavo, sentii nello sguardo di quell'uomo come una sfida, e
arrischiai tutto di nuovo, quel che avevo di mio e quel che avevo vinto, senza pensarci
due volte: la mano mi andò su lo stesso numero di prima, il 35; fui per ritrarla; ma no,
lì, lì di nuovo, come se qualcuno me l'avesse comandato.
Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece
un gran silenzio, e mi parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi
nell'ansia mia terribile. La boule girò, girò un'eternità, con una lentezza che
esasperava di punto in punto l'insostenibile tortura. Alfine cadde.
M'aspettavo che il croupier, con la solita
voce (mi parve lontanissima), dovesse annunziare:
- Trentecinq, noir, impair et passe!
Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un
ubriaco. Caddi a sedere sul divano, sfinito; appoggiai il capo alla spalliera, per un
bisogno improvviso, irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po' di sonno. E già
quasi vi cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece
riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi, ma dovetti richiuderli immediatamente: mi
girava la testa. Il caldo, là dentro, era soffocante. Come! Era già sera? Avevo
intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai pian piano;
uscii.
Fuori, nell'atrio, era ancora giorno. La
freschezza dell'aria mi rinfrancò.
Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi,
solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando.
Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora
impacciato, avrei voluto parere anch'io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che
mi parevano più disinvolti; se non che, quando meno me l'aspettavo, qualcuno di questi,
ecco, impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e, tra le
risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché ridevano i
compagni? Sorridevo anch'io, istintivamente, guardando come uno scemo.
- A toi, mon chéri! - sentii dirmi, piano, da
una voce femminile, un po' rauca.
Mi voltai; e vidi una di quelle donne che già
sedevano con me attorno al tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un'altra ne teneva
per sé: le aveva comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo.
Avevo dunque l'aria così goffa e da allocco?
M'assalì una stizza violenta; rifiutai, senza
ringraziare, e feci per scostarmi da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e -
affettando con me, innanzi a gli altri, un tratto confidenziale - mi parlò piano,
affrettatamente. Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo
assistito poc'anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe
puntato per me e per lei.
Mi scrollai tutto: sdegnosamente, e la piantai lì in
asso.
Poco dopo, rientrando nella sala da giuoco, la vidi
che conversava con un signore bassotto, bruno, barbuto, con gli occhi un po' loschi,
spagnuolo all'aspetto. Gli aveva dato la rosa poc'anzi offerta a me. A una certa mossa
d'entrambi, m'accorsi che parlavano di me; e mi misi in guardia.
Entrai in un'altra sala; m'accostai al primo
tavoliere, ma senza intenzione di giocare; ed ecco, ivi a poco, quel signore, senza più
la donna, accostarsi anche lui al tavoliere, ma facendo le viste di non accorgersi di me.
Mi posi allora a guardarlo risolutamente, per fargli
intendere che m'ero bene accorto di tutto, e che con me, dunque, l'avrebbe sbagliata.
Ma non aveva affatto l'apparenza d'un mariuolo,
costui. Lo vidi giocare, e forte: perdette tre colpi consecutivi: batteva ripetutamente le
pàlpebre, forse per lo sforzo che gli costava la volontà di nascondere il turbamento. Al
terzo colpo fallito, mi guardò e sorrise.
Lo lasciai lì, e ritornai nell'altra sala, al
tavoliere dove dianzi avevo vinto.
I croupiers s'erano dati il cambio. La donna
era lì al posto di prima. Mi tenni addietro, per non farmi scorgere, e vidi ch'ella
giocava modestamente, e non tutte le partite. Mi feci innanzi; ella mi scorse: stava per
giocare e si trattenne, aspettando evidentemente che giocassi io, per puntare dov'io
puntavo. Ma aspettò invano. Quando il croupier disse: - Le jeu est fait! Rien
ne va plus! - la guardai, ed ella alzò un dito per minacciarmi scherzosamente. Per
parecchi giri non giocai; poi, eccitatomi di nuovo alla vista degli altri giocatori, e
sentendo che si raccendeva in me l'estro di prima, non badai più a lei e mi rimisi a
giocare.
Per qual misterioso suggerimento seguivo così
infallibilmente la variabilità imprevedibile nei numeri e nei colori? Era solo prodigiosa
divinazione nell'incoscienza, la mia? E come si spiegano allora certe ostinazioni pazze,
addirittura pazze, il cui ricordo mi desta i brividi ancora, considerando ch'io cimentavo
tutto, tutto, la vita fors'anche, in quei colpi ch'eran vere e proprie sfide alla sorte?
No, no: io ebbi proprio il sentimento di una forza quasi diabolica in me, in quei momenti,
per cui domavo, affascinavo la fortuna, legavo al mio il suo capriccio. E non era soltanto
in me questa convinzione; s'era anche propagata negli altri, rapidamente; e ormai quasi
tutti seguivano il mio giuoco rischiosissimo. Non so per quante volte passò il rosso, su
cui mi ostinavo a puntare: puntavo su lo zero, e sortiva lo zero. Finanche quel
giovinetto, che tirava i luigi dalla tasca dei calzoni, s'era scosso e infervorato; quel
grosso signore bruno arrangolava più che mai. L'agitazione cresceva di momento in momento
attorno al tavoliere; eran fremiti d'impazienza, scatti di brevi gesti nervosi, un furor
contenuto a stento, angoscioso e terribile. Gli stessi croupiers avevano perduto la
loro rigida impassibilità.
A un tratto, di fronte a una puntata formidabile,
ebbi come una vertigine. Sentii gravarmi addosso una responsabilità tremenda. Ero poco
men che digiuno dalla mattina, e vibravo tutto, tremavo dalla lunga violenta emozione. Non
potei più resistervi e, dopo quel colpo, mi ritrassi, vacillante. Sentii afferrarmi per
un braccio. Concitatissimo, con gli occhi che gli schizzavano fiamme, quello spagnoletto
barbuto e atticciato voleva a ogni costo trattenermi - Ecco: erano le undici e un quarto;
i croupiers invitavano ai tre ultimi colpi: avremmo fatto saltare la banca!
Mi parlava in un italiano bastardo, comicissimo;
poiché io, che non connettevo già più, mi ostinavo a rispondergli nella mia lingua:
- No, no, basta! non ne posso più. Mi lasci andare,
caro signore.
Mi lasciò andare; ma mi venne appresso. Salì con me
nel treno di ritorno a Nizza, e volle assolutamente che cenassi con lui e prendessi poi
alloggio nel suo stesso albergo.
Non mi dispiacque molto dapprima l'ammirazione quasi
timorosa che quell'uomo pareva felicissimo di tributarmi, come a un taumaturgo. La vanità
umana non ricusa talvolta di farsi piedistallo anche di certa stima che offende e
l'incenso acre e pestifero di certi indegni e meschini turiboli. Ero come un generale che
avesse vinto un'asprissima e disperata battaglia, ma per caso, senza saper come. Già
cominciavo a sentirlo, a rientrare in me, e man mano cresceva il fastidio che mi recava la
compagnia di quell'uomo.
Tuttavia, per quanto facessi, appena sceso a Nizza,
non mi riuscì di liberarmene: dovetti andar con lui a cena. E allora egli mi confessò
che me l'aveva mandata lui, là, nell'atrio del casino, quella donnetta allegra, alla
quale da tre giorni egli appiccicava le ali per farla volare, almeno terra terra; ali di
biglietti di banca; dava cioè qualche centinajo di lire per farle tentar la sorte. La
donnetta aveva dovuto vincer bene, quella sera, seguendo il mio giuoco, giacché,
all'uscita, non s'era più fatta vedere.
- Che podo far? La póvara avrà trovato de meglio.
Sono viechio, ió. E agradecio Dio, ántes, che me la son levada de sobre!
Mi disse che era a Nizza da una settimana e che ogni
mattina s'era recato a Montecarlo, dove aveva avuto sempre, fino a quella sera, una
disdetta incredibile. Voleva sapere com'io facessi a vincere. Dovevo certo aver capito il
giuoco o possedere qualche regola infallibile.
Mi misi a ridere e gli risposi che fino alla mattina
di quello stesso giorno non avevo visto neppure dipinta una roulette, e che non
solo non sapevo affatto come ci si giocasse, ma non sospettavo nemmen lontanamente che
avrei giocato e vinto a quel modo. Ne ero stordito e abbagliato più di lui.
Non si convinse. Tanto vero che, girando abilmente il
discorso (credeva senza dubbio d'aver da fare con una birba matricolata) e parlando con
meravigliosa disinvoltura in quella sua lingua mezzo spagnuola e mezzo Dio sa che cosa,
venne a farmi la stessa proposta a cui aveva tentato di tirarmi, nella mattinata, col
gancio di quella donnetta allegra.
- Ma no, scusi! - esclamai io, cercando tuttavia
d'attenuare con un sorriso il risentimento. - Può ella sul serio ostinarsi a credere che
per quel giuoco là ci possano esser regole o si possa aver qualche segreto? Ci vuol
fortuna! ne ho avuta oggi; potrò non averne domani, o potrò anche averla di nuovo; spero
di sì!
- Ma porqué lei, - mi domandò, - non ha voluto occi
aproveciarse de la sua forturna?
- Io, aprove...
- Sì, come puedo decir? avantaciarse, voilà!
- Ma secondo i miei mezzi, caro signore!
- Bien! - disse lui. - Podo ió por lei. Lei, la
fortuna, ió metaró el dinero.
- E allora forse perderemo! - conclusi io,
sorridendo. - No, no... Guardi! Se lei mi crede davvero così fortunato, - sarò tale al
giuoco; in tutto il resto, no di certo - facciamo così: senza patti fra noi e senza
alcuna responsabilità da parte mia, che non voglio averne, lei punti il suo molto dov'io
il mio poco, come ha fatto oggi; e, se andrà bene...
Non mi lasciò finire: scoppiò in una risata strana,
che voleva parer maliziosa, e disse:
- Eh no, segnore mio! no! Occi, sì, l'ho fatto: no
lo fado domani seguramente! Si lei punta forte con migo, bien! si no, no lo fado
seguramente! Gracie tante!
Lo guardai, sforzandomi di comprendere che cosa
volesse dire: c'era senza dubbio in quel suo riso e in quelle sue parole un sospetto
ingiurioso per me. Mi turbai, e gli domandai una spiegazione.
Smise di ridere; ma gli rimase sul volto come
l'impronta svanente di quel riso.
- Digo che no, che no lo fado, - ripeté. - No digo
altro!
Battei forte una mano su la tavola e, con voce
alterata, incalzai:
- Nient'affatto! Bisogna invece che dica, spieghi che
cosa ha inteso di significare con le sue parole e col suo riso imbecille! Io non
comprendo!
Lo vidi, man mano che parlavo, impallidire e quasi
rimpiccolirsi; evidentemente stava per chiedermi scusa. Mi alzai, sdegnato, dando una
spallata.
- Bah! Io disprezzo lei e il suo sospetto, che non
arrivo neanche a immaginare!
Pagai il mio conto e uscii.
Ho conosciuto un uomo venerando e degno anche, per
le singolarissime doti dell'intelligenza, d'essere grandemente ammirato: non lo era, né
poco né molto, per un pajo di calzoncini, io credo, chiari, a quadretti, troppo aderenti
alle gambe misere, ch'egli si ostinava a portare. Gli abiti che indossiamo, il loro
taglio, il loro colore, possono far pensare di noi le più strane cose.
Ma io sentivo ora un dispetto tanto maggiore, in
quanto mi pareva di non esser vestito male. Non ero in marsina, è vero, ma avevo un abito
nero, da lutto, decentissimo. E poi, se - vestito di questi stessi panni - quel
tedescaccio in prima aveva potuto prendermi per un babbeo, tanto che s'era arraffato come
niente il mio denaro; come mai adesso costui mi prendeva per un mariuolo?
«Sarà forse per questo barbone,» pensavo, andando,
«o per questi capelli troppo corti...»
Cercavo intanto un albergo qualunque, per chiudermi a
vedere quanto avevo vinto. Mi pareva d'esser pieno di denari: ne avevo un po' da per
tutto, nelle tasche della giacca e dei calzoni e in quelle del panciotto; oro, argento,
biglietti di banca; dovevano esser molti, molti!
Sentii sonare le due. Le vie erano deserte. Passò
una vettura vuota; vi montai.
Con niente avevo fatto circa undicimila lire! Non ne
vedevo da un pezzo, e mi parvero in prima una gran somma. Ma poi, pensando alla mia vita
d'un tempo, provai un grande avvilimento per me stesso. Eh che! Due anni di biblioteca,
col contorno di tutte le altre sciagure, m'avevan dunque immiserito a tal segno il cuore?
Presi a mordermi col mio nuovo veleno, guardando il
denaro lì sul letto:
«Va', uomo virtuoso, mansueto bibliotecario, va',
ritorna a casa a placare con questo tesoro la vedova Pescatore. Ella crederà che tu
l'abbia rubato e acquisterà subito per te una grandissima stima. O va' piuttosto in
America, come avevi prima deliberato, se questo non ti par premio degno alla tua grossa
fatica. Ora potresti, così munito. Undicimila lire! Che ricchezza!»
Raccolsi il denaro; lo buttai nel cassetto del
comodino, e mi coricai. Ma non potei prender sonno. Che dovevo fare, insomma? Ritornare a
Montecarlo, a restituir quella vincita straordinaria? o contentarmi di essa e godermela
modestamente? ma come? avevo forse più animo e modo di godere, con quella famiglia che mi
ero formata? Avrei vestito un po' meno poveramente mia moglie, che non solo non si curava
più di piacermi, ma pareva facesse anzi di tutto per riuscirmi incresciosa, rimanendo
spettinata tutto il giorno, senza busto, in ciabatte, e con le vesti che le cascavano da
tutte le parti. Riteneva forse che, per un marito come me, non valesse più la pena di
farsi bella? Del resto, dopo il grave rischio corso nel parto, non s'era più ben rimessa
in salute. Quanto all'animo, di giorno in giorno s'era fatta più aspra, non solo contro
me, ma contro tutti. E questo rancore e la mancanza d'un affetto vivo e vero s'eran messi
come a nutrire in lei un'accidiosa pigrizia. Non s'era neppure affezionata alla bambina,
la cui nascita insieme con quell'altra, morta di pochi giorni, era stata per lei una
sconfitta di fronte al bel figlio maschio d'Oliva, nato circa un mese dopo, florido e
senza stento, dopo una gravidanza felice. Tutti quei disgusti poi e quegli attriti che
sorgono, quando il bisogno, come un gattaccio ispido e nero s'accovaccia su la cenere d'un
focolare spento, avevano reso ormai odiosa a entrambi la convivenza. Con undicimila lire
avrei potuto rimetter la pace in casa e far rinascere l'amore già iniquamente ucciso in
sul nascere dalla vedova Pescatore? Follie! E dunque? Partire per l'America? Ma perché
sarei andato a cercar tanto lontano la Fortuna, quand'essa pareva proprio che avesse
voluto fermarmi qua, a Nizza, senza ch'io ci pensassi, davanti a quella bottega d'attrezzi
di giuoco? Ora bisognava ch'io mi mostrassi degno di lei, dei suoi favori, se veramente,
come sembrava, essa voleva accordarmeli. Via, via! O tutto o niente. In fin de' conti,
sarei ritornato come ero prima. Che cosa erano mai undicimila lire?
Così il giorno dopo tornai a Montecarlo. Ci tornai
per dodici giorni di fila. Non ebbi più né modo né tempo di stupirmi allora del favore,
più favoloso che straordinario, della fortuna: ero fuori di me, matto addirittura; non ne
provo stupore neanche adesso, sapendo pur troppo che tiro essa m'apparecchiava,
favorendomi in quella maniera e in quella misura. In nove giorni arrivai a metter sù una
somma veramente enorme giocando alla disperata: dopo il nono giorno cominciai a perdere, e
fu un precipizio. L'estro prodigioso, come se non avesse più trovato alimento nella mia
già esausta energia nervosa, venne a mancarmi. Non seppi, o meglio, non potei arrestarmi
a tempo. Mi arrestai, mi riscossi, non per mia virtù, ma per la violenza d'uno spettacolo
orrendo, non infrequente, pare, in quel luogo.
Entravo nelle sale da giuoco, la mattina del
dodicesimo giorno, quando quel signore di Lugano, innamorato del numero 12, mi raggiunse,
sconvolto e ansante, per annunziarmi, più col cenno che con le parole, che uno s'era
poc'anzi ucciso là, nel giardino. Pensai subito che fosse quel mio spagnuolo, e ne provai
rimorso. Ero sicuro ch'egli m'aveva ajutato a vincere. Nel primo giorno, dopo quella
nostra lite, non aveva voluto puntare dov'io puntavo, e aveva perduto sempre; nei giorni
seguenti, vedendomi vincere con tanta persistenza, aveva tentato di fare il mio giuoco; ma
non avevo voluto più io, allora: come guidato per mano dalla stessa Fortuna, presente e
invisibile, mi ero messo a girare da un tavoliere all'altro. Da due giorni non lo avevo
più veduto, proprio dacché m'ero messo a perdere, e forse perché lui non mi aveva più
dato la caccia.
Ero certissimo, accorrendo al luogo indicatomi, di
trovarlo lì, steso per terra, morto. Ma vi trovai invece quel giovinetto pallido che
affettava un'aria di sonnolenta indifferenza, tirando fuori i luigi dalla tasca dei
calzoni per puntarli senza nemmeno guardare.
Pareva più piccolo, lì in mezzo al viale: stava
composto, coi piedi uniti, come se si fosse messo a giacere prima, per non farsi male,
cadendo; un braccio era aderente al corpo; l'altro, un po' sospeso, con la mano
raggrinchiata e un dito, l'indice, ancora nell'atto di tirare. Era presso a questa mano la
rivoltella; più là, il cappello. Mi parve dapprima che la palla gli fosse uscita
dall'occhio sinistro, donde tanto sangue, ora rappreso, gli era colato su la faccia. Ma
no: quel sangue era schizzato di lì, come un po' dalle narici e dagli orecchi; altro, in
gran copia, n'era poi sgorgato dal forellino alla tempia destra, su la rena gialla del
viale, tutto raggrumato. Una dozzina di vespe vi ronzavano attorno; qualcuna andava a
posarsi anche lì, vorace, su l'occhio. Fra tanti che guardavano, nessuno aveva pensato a
cacciarle via. Trassi dalla tasca un fazzoletto e lo stesi su quel misero volto
orribilmente sfigurato. Nessuno me ne seppe grado: avevo tolto il meglio dello spettacolo.
Scappai via; ritornai a Nizza per partirne quel
giorno stesso.
Avevo con me circa ottantaduemila lire.
Tutto potevo immaginare, tranne che, nella sera di
quello stesso giorno, dovesse accadere anche a me qualcosa di simile.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998