Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
Maturazione
La strega non si sapeva dar pace:
- Che hai concluso? - mi domandava. - Non t'era
bastato, di', esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e
rovinarmela? Non t'era bastato?
- Eh no, cara suocera! - le rispondevo. - Perché, se
mi fossi arrestato lì vi avrei fatto un piacere, reso un servizio...
- Lo senti? - strillava allora alla figlia. - Si
vanta, osa vantarsi per giunta della bella prodezza che è andato a commettere c quella...
- e qui una filza di laide parole all'indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i
fianchi, appuntando le gomita davanti: - Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo
figlio, così? Ma già, a lui, che glien'importa? È suo anche quello, è suo...
Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno,
sapendo la virtù ch'esso aveva sull'animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe
nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell'angustia, nell'incertezza del
domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie
che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna,
ch'era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto
concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa!
E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona,
rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di
bene, senza più voglia neanche di parlare o d'aprir gli occhi.
Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva
più né vedere né sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa,
col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar
nell'inferno di casa mia.
Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna,
con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più né ritegno né
scrupolo, fece l'ultima: si mise d'accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza
figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono
così per la maggior parte scoperti e il podere insieme col molino fu messo dai creditori
sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati.
Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in
cerca di un'occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della
famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m'ero fatta con le mie imprese giovanili e con
la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a
cui giornalmente mi toccava d'assistere e di prender parte in casa mia mi toglievano
quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po' a considerare, ciò che avrei
potuto e saputo fare.
Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia
madre, lì in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara,
ma agli occhi miei irresponsabile de' suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino
a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sé, con le mani in
grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di
poterci stare, lì a quel posto; come se fosse sempre in attesa di partire, di partire tra
poco - se Dio voleva! E non dava fastidio neanche all'aria. Sorrideva ogni tanto a
Romilda, pietosamente; non osava più di accostarsele; perché, una volta, pochi giorni
dopo la sua entrata in casa nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata
sgarbatamente allontanata da quella strega.
- Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare.
Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d'ajuto
in quel momento, m'ero stato zitto; ma spiavo perché nessuno le mancasse di rispetto.
M'accorgevo intanto che questa guardia ch'io facevo a
mia madre irritava sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand'io non
fossi in casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la
maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E questo
pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per vedere se avesse
pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi domandava:
- Perché mi guardi così?
- Stai bene, mamma?
Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi
rispondeva:
- Bene; non vedi? Va' da tua moglie, va'; soffre,
poverina.
Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli
che si prendesse lui in casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto
volentieri sopportato anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei
unicamente.
Berto mi rispose che non poteva; non poteva perché la
sua condizione di fronte alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima,
dopo il nostro rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque
potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma - diceva - si
sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perché anche egli conviveva con
la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva diventar cattiva per le inevitabili
gelosie e gli attriti che nascono tra suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a
casa mia; se non altro, non si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e
non sarebbe stata costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo
di non potere, per tutte le considerazioni esposte più sù, prestarmi un anche menomo
soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto.
Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l'animo
esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto
indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio
spirito, che se un rosignolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del
canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere
anche per poco l equilibrio che forse gli costava tanto studio, l'equilibrio per cui
poteva vivere pulitamente e fors'anche con una cert'aria di dignità alle spalle della
moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre alla
bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d'elegante signore, non
aveva più nulla, lui, da dare alla moglie neppure un briciolo di cuore, che forse
l'avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio
l'aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero
Berto?
Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da
porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore,
temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di
quarantadue lire mensili, diventava di giorno in giorno più cupa e di più fosche
maniere. Prevedevo da un momento all'altro un prorompimento del suo furore, contenuto
ormai da troppo tempo, forse per la presenza e per il contegno della mamma. Nel vedermi
aggirar per casa come una mosca senza capo, quella bufera di femmina mi lanciava certe
occhiatacce, lampi forieri di tempesta. Uscivo per levar la corrente e impedire la
scarica. Ma poi temevo per la mamma, e rincasavo.
Un giorno, però, non feci a tempo. La tempesta,
mente, era scoppiata, e per un futilissimo pretesto: per una visita delle due vecchie
serve alla mamma.
Una di esse, non avendo potuto metter nulla da parte,
perché aveva dovuto mantenere una figlia rimasta vedova con tre bambini, s'era subito
allogata altrove a servire; ma l'altra, Margherita, sola al mondo, più fortunata, poteva
ora riposar la sua vecchiaja, col gruzzoletto raccolto in tanti anni di servizio in casa
nostra. Ora pare che con queste due buone donne, già fidate compagne di tanti anni, la
mamma si fosse pian piano rammaricata di quel suo misero e amarissimo stato. Subito allora
Margherita, la buona vecchierella che già l'aveva sospettato e non osava dirglielo, le
aveva profferto d'andar via con lei, a casa sua: aveva due camerette pulite, con un
terrazzino che guardava il mare, pieno di fiori: sarebbero state insieme, in pace: oh,
ella sarebbe stata felice di poterla ancora servire, di poterle dimostrare ancora
l'affetto e la devozione che sentiva per lei.
Ma poteva accettar mia madre la profferta di quella
povera vecchia? Donde l'ira della vedova Pescatore.
Io la trovai, rincasando, con le pugna protese contro
Margherita, la quale pur le teneva testa coraggiosamente, mentre la mamma, spaventata, con
le lagrime agli occhi, tutta tremante, si teneva aggrappata con ambo le mani all'altra
vecchietta, come per ripararsi.
Veder mia madre in quell'atteggiamento e perdere il
lume degli occhi fu tutt'uno. Afferrai per un braccio la vedova Pescatore e la mandai a
ruzzolar lontano. Ella si rizzò in un lampo e mi venne incontro, per saltarmi addosso; ma
s'arrestò di fronte a me.
- Fuori! - mi gridò. - Tu e tua madre, via! Fuori di
casa mia!
- Senti; - le dissi io allora, con la voce che mi
tremava dal violento sforzo che facevo su me stesso, per contenermi. - Senti: vattene via
tu, or ora, con le tue gambe, e non cimentarmi più. Vattene,; per il tuo bene! vattene!
Romilda, piangendo e gridando, si levò dalla poltrona
e venne a buttarsi tra le braccia della madre:
- No! Tu con me, mamma! Non mi lasciare, non mi
lasciare qua sola!
Ma quella degna madre la respinse, furibonda:
- L'hai voluto? tientelo ora, codesto mal ladrone! Io
vado sola!
Ma non se ne andò s'intende.
Due giorni dopo, mandata - suppongo - da Margherita,
venne in gran furia, al solito, zia Scolastica, per portarsi via con sé la mamma.
Questa scena merita di essere rappresentata.
La vedova Pescatore stava quella mattina, a fare il
pane, sbracciata, con la gonnella tirata sù e arrotolata intorno alla vita, per non
sporcarsela. Si voltò appena, vedendo entrare la zia e seguitò ad abburattare, come se
nulla fossa. La zia non ci fece caso; del resto, ella era entrata senza salutar nessuno;
diviata a mia madre, come se in quella casa non ci fosse altri che lei.
- Subito, via vèstiti! Verrai con me. Mi fu sonata
non so che campana. Eccomi qua. Via, presto! il fagottino!.
Parlava a scatti. Il naso adunco, fiero, nella faccia
bruna, itterica, le fremeva, le si arricciava di tratto in tratto, e gli occhi le
sfavillavano.
La vedova Pescatore, zitta.
Finito di abburattare; intrisa la farina e coagulatala
in pasta, ora essa la brandiva alta e la sbatteva forte apposta, su la madia: rispondeva
così a quel che diceva la zia. Questa, allora, rincarò la dose. E quella, sbattendo man
mano più forte «Ma sì! - ma certo! - ma come no? - ma sicuramente!» ; poi, come
se non bastasse, andò a prendete il mattarello; e se lo pose lì accanto, su la madia,
come per dire: ci ho anche questo.
Non l'avesse mai fatto!- Zia Scolastica scattò in
piedi, si tolse furiosamente lo scialletto che teneva su le spalle e lo lanciò a mia
madre:
- Eccoti! lascia tutto. Via subito!
E andò a piantarsi di faccia alla vedova Pescatore.
Questa, per non averla così dinanzi a petto, si tirò un passo indietro, minacciosa, come
volesse brandire il matterello; e allora zia Scolastica, preso a due mani dalla madia il
grosso batuffolo della pasta, gliel'appiastrò sul capo, glielo tirò giù su la faccia e,
a pugni chiusi, là là, là, sul naso, sugli occhi, in bocca, dove coglieva coglieva.
Quindi afferrò per un braccio mia madre e se la trascinò via.
Quel che seguì fu per me solo. La vedova Pescatore,
ruggendo dalla rabbia, si strappò la pasta dalla faccia, dai capelli tutti
appiastricciati, e venne a buttarla in faccia a me, che ridevo, ridevo in una specie di
convulsione; m'afferrò la barba, mi sgraffiò tutto; poi, come impazzita, si buttò per
terra e cominciò a strapparsi le vesti addosso, a rotolarsi, a rotolarsi, frenetica, sul
pavimento; mia moglie intanto (sit venia verbo) receva di là, tra acutissime strida,
mentr'io:
- Le gambe! le gambe! - gridavo alla vedova Pescatore
per terra. - Non mi mostrate le gambe, per carità!
Posso dire che da allora ho fatto il gusto a ridere
di tutte le mie sciagure e d'ogni mio tormento. Mi vidi, in quell'istante, attore d'una
tragedia che più buffa non si sarebbe potuta immaginare: mia madre, scappata via, così,
con quella matta; mia moglie, di là, che... lasciamola stare!; Marianna Pescatore lì per
terra; e io, io che non avevo più pane, quel che si dice pane, per il giorno appresso, io
con la barba tutta impastocchiata, il viso sgraffiato, grondante non sapevo ancora se di
sangue o di lagrime, per il troppo ridere. Andai ad accertarmene allo specchio. Erano
lagrime; ma ero anche sgraffiato bene. Ah quel mio occhio, in quel momento, quanto mi
piacque! Per disperato, mi s'era messo a guardare più che mai altrove, altrove per conto
suo. E scappai via, risoluto a non rientrare in casa, se prima non avessi trovato comunque
da mantenere, anche miseramente, mia moglie e me.
Dal dispetto rabbioso che sentivo in quel momento per
la sventatezza mia di tanti anni, argomentavo però facilmente che la mia sciagura non
poteva ispirare a nessuno, non che compatimento, ma neppur considerazione. Me l'ero ben
meritata. Uno solo avrebbe potuto averne pietà: colui che aveva fatto man bassa d'ogni
nostro avere; ma figurarsi se Malagna poteva più sentir l'obbligo di venirmi in soccorso
dopo quanto era avvenuto tra me e lui.
Il soccorso, invece, mi venne da chi meno avrei potuto
aspettarmelo.
Rimasto tutto quel giorno fuori di casa, verso sera,
m'imbattei per combinazione in Pomino, che, fingendo di non accorgersi di me, voleva tirar
via di lungo.
- Pomino!
Si volse, torbido in faccia, e si fermò con gli occhi
bassi:
- Che vuoi?
- Pomino! - ripetei io più forte, scotendolo per una
spalla e ridendo di quella sua mutria. - Dici sul serio?
Oh, ingratitudine umana! Me ne voleva, per giunta, me
ne voleva, Pomino, del tradimento che, a suo credere, gli avevo fatto. Né mi riuscì di
convincerlo che il tradimento invece lo aveva fatto lui a me, e che avrebbe dovuto non
solo ringraziarmi, ma buttarsi anche a faccia per terra, a baciare dove io ponevo i piedi.
Ero ancora com'ebbro di quella gajezza mala che si era
impadronita di me da quando m'ero guardato allo specchio.
Vedi questi sgraffii? - gli dissi, a un certo punto. -
Lei me li ha fatti!
- Ro... cioè, tua moglie?
- Sua madre!
E gli narrai come e perché. Sorrise, ma parcamente.
Forse pensò che a lui non li avrebbe fatti, quegli sgraffii, la vedova Pescatore: era in
ben altra condizione dalla mia, e aveva altra indole e altro cuore, lui.
Mi venne allora la tentazione di domandargli perché
dunque, se veramente n'era cosi addogliato, non l'aveva sposata lui, Romilda, a tempo,
magari prendendo il volo con la, com'io gli avevo consigliato, prima che, per la sua
ridicola timidezza o per la sua indecisione, fosse capitata a me la disgrazia
d'innamorarmene; e altro, ben altro avrei voluto dirgli, nell'orgasmo in cui mi trovavo;
ma mi trattenni. Gli domandai, invece, porgendogli la mano, con chi se la facesse, di quei
giorni.
- Con nessuno! - sospirò egli allora. - Con nessuno!
Mi annojo, mi annojo mortalmente!
Dall'esasperazione con cui proferì queste parole mi
parve d'intendere a un tratto la vera ragione per cui Pomino era così addogliato. Ecco
qua: non tanto Romilda egli forse rimpiangeva, quanto la compagnia che gli era venuta a
mancare; Berto non c'era più; con me non poteva più praticare, perché c'era Romilda di
mezzo, e che restava più dunque da fare al povero Pomino?
- Ammógliati, caro! - gli dissi. - Vedrai come si sta
allegri!
Ma egli scosse il capo, seriamente, con gli occhi
chiusi; alzò una mano:
- Mai! mai più!
- Bravo, Pomino: persèvera! Se desideri compagnia,
sono a tua disposizione, anche per tutta la notte, se vuoi.
E gli manifestai il proponimento che avevo fatto,
uscendo di casa, e gli esposi anche le disperate condizioni in cui mi trovavo. Pomino si
commosse, da vero amico, e mi profferse quel po' di denaro che aveva con sé. Lo
ringraziai di cuore, e gli dissi che quell'aiuto non m'avrebbe giovato a nulla: il giorno
appresso sarei stato da capo. Un collocamento fisso m'abbisognava.
Aspetta! - esclamò allora Pomino. - Sai che mio padre
è ora al Municipio?
- No. Ma me l'immagino.
- Assessore comunale per la pubblica istruzione.
- Questo non me lo sarei immaginato.
- Jersera, a cena... Aspetta! Conosci Romitelli?
- No.
- Come no! Quello che sta laggiù, alla biblioteca
Boccamazza. È sordo, quasi cieco, rimbecillito, e non si regge più sulle gambe. Jersera,
a cena, mio padre mi diceva che la biblioteca è ridotta in uno stato miserevole e che
bisogna provvedere con la massima sollecitudine. Ecco il posto per te!
- Bibliotecario? - esclamai. - Ma io...
- Perché no? - disse Pomino. - Se l'ha fatto
Romitelli...
Questa ragione mi convinse.
Pomino mi consigliò di farne parlare a suo padre da
zia Scolastica. Sarebbe stato meglio.
Il giorno appresso, io mi recai a visitar la mamma e
ne parlai a lei, poiché zia Scolastica, da me, non volle farsi vedere. E così, quattro
giorni dopo, diventai bibliotecario. Settanta lira al mese. Più ricco della vedova
Pescatore! Potevo cantar vittoria.
Nei primi mesi fu un divertimento, con quel Romitelli,
a cui non ci fu verso di fare intendere che era stato giubilato dal Comune e che per ciò
non doveva più venire alla biblioteca. Ogni mattina, alla stess'ora, né un minuto prima
né un minuto dopo, me lo vedevo spuntare a quattro piedi (compresi i due bastoni, uno per
mano, che gli servivano meglio dei piedi). Appena arrivato, si toglieva dal taschino del
panciotto un vecchio cipollone di rame, e lo appendeva a muro con tutta la formidabile
catena; sedeva, coi due bastoni fra le gambe, traeva di tasca la papalina, la tabacchiera
e un pezzolone a dadi rossi e neri; s'infrociava una grossa presa di tabacco, si puliva,
poi apriva il cassetto del tavolino e ne traeva un libraccio che apparteneva alla
biblioteca: Dizionario storico dei musicisti, artisti e amatori morti e viventi,
stampato a Venezia nel 1758.
- Signor Romitelli! - gli gridavo, vedendogli fare
tutte queste operazioni, tranquillissimamente, senza dare il minimo segno d'accorgersi di
me.
Ma a chi dicevo? Non sentiva neanche le cannonate. Lo
scotevo per un braccio, ed egli allora si voltava, strizzava gli occhi, contraeva tutta la
faccia per sbirciarmi, poi mi mostrava i denti gialli, forse intendendo di sorridermi,
così; quindi abbassava il capo sul libro, come se volesse farsene guanciale; ma che!
leggeva a quel modo, a due centimetri di distanza, con un occhio solo; leggeva forte:
- Birnbaum, Giovanni Abramo... Birnbaum, Giovanni
Abramo, fece stampare... Birnbaum, Giovanni Abramo, fece stampare a Lipsia, nel 1738... a
Lipsia nel 1738... un opuscolo in-8º... in-8º: Osservazioni imparziali su un passo
delicato del Musicista critico. Mitzler... Mitzler inserì... Mitzler inserì questo
scritto nel primo volume della sua Biblioteca musicale. Nel 1739...
E seguitava così, ripetendo due o tre volte nomi e
date, come per cacciarsele a memoria. Perché leggesse cosi forte, non saprei. Ripeto, non
sentiva neanche le cannonate.
Io stavo a guardarlo, stupito. O che poteva importare
a quell'uomo in quello stato, a due passi ormai dalla tomba (morì difatti quattro mesi
dopo la mia nomina a bibliotecario), che poteva importargli che Birnbaum Giovanni Abramo
avesse fatto stampare a Lipsia nel 1738 un opuscolo in-8º? E non gli fosse almeno costata
tutto quello stento la lettura! Bisognava proprio riconoscere che non potesse farne a meno
di quelle date lì e di quelle notizie di musicisti (lui, così sordo!) e artisti e
amatori, morti e viventi fino al 1758. O credeva forse che un bibliotecario, essendo la
biblioteca fatta per leggervi, fosse obbligato a legger lui, posto che non aveva veduto
mai apparirvi anima viva; e aveva preso quel libro, come avrebbe potuto prenderne un
altro? Era tanto imbecillito, che anche questa supposizione è possibile, e anzi molto
più probabile della prima.
Intanto, sul tavolone lì in mezzo, c'era uno strato
di polvere alto per lo meno un dito; tanto che io - per riparare in certo qual modo alla
nera ingratitudine de' miei concittadini - potei tracciarvi a grosse lettere questa
iscrizione:
A MONSIGNOR BOCCAMAZZA MUNIFICENTISSIMO DONATORE IN PERENNE ATTESTATO DI GRATITUDINE I CONCITTADINI QUESTA LAPIDE POSERO |
Precipitavano poi, a quando a quando, dagli
scaffali due o tre libri, seguiti da certi topi grossi quanto un coniglio.
Furono per me come la mela di Newton.
Ho trovato! - esclamai tutto contento. - Ecco
l'occupazione per me, mentre Romitelli legge il suo Birnbaum.
E, per cominciare, scrissi una elaboratissima istanza,
d'ufficio, all'esimio cavalier Gerolamo Pomino, assessore comunale per la pubblica
istruzione, affinché la biblioteca Boccamazza o di Santa Maria Liberale fosse con la
maggior sollecitudine provveduta di un pajo di gatti per lo meno, il cui mantenimento non
avrebbe importato quasi alcuna spesa al Comune, atteso che i suddetti animali avrebbero
avuto da nutrirsi in abbondanza col provento della loro caccia. Soggiungevo che non
sarebbe stato male provvedere altresì la biblioteca d'una mezza dozzina di trappole e
dell'esca necessaria, per non dire cacio, parola volgare, che - da subalterno - non
stimai conveniente sottoporre agli occhi d'un assessore comunale per la pubblica
istruzione.
Mi mandarono dapprima due gattini così miseri che si
spaventarono subito di quegli enormi topi, e - per non morir di fame - si ficcavano loro
nelle trappole, a mangiarsi il cacio. Li trovavo ogni mattina là, imprigionati, magri,
brutti, e così afflitti che pareva non avessero più né forza né volontà di miagolare.
Reclamai, e vennero due bei gattoni lesti e serii, che
senza perder tempo si misero a fare il loro dovere. Anche le trappole servivano: e queste
me li davan vivi, i topi. Ora, una sera, indispettito che di quelle mie fatiche e di
quelle mie vittorie il Romitelli non si volesse minimamente dar per inteso, come se lui
avesse soltanto l'obbligo di leggere e i topi quello di mangiarsi i libri della
biblioteca, volli, prima d'andarmene, cacciarne due, vivi, entro il cassetto del suo
tavolino. Speravo di sconcertargli, almeno per la mattina seguente, la consueta
nojosissima lettura. Ma che! Come aprì il cassetto e si sentì sgusciare sotto il naso
quelle due bestie, si voltò verso me, che già non mi potevo più reggere e davo in uno
scoppio di risa, e mi domandò:
- Che è stato?
- Due topi, signor Romitelli!
- Ah, topi... - fece lui tranquillamente.
Erano di casa; c'era avvezzo; e riprese, come se nulla
fosse stato, la lettura del suo libraccio.
In un Trattato degli Arbori di Giovan Vittorio
Soderini si legge che i frutti maturano «parte per caldezza e parte per freddezza;
perciocché il calore, come in tutti è manifesto, ottiene la forza del concuocere, ed è
la semplice cagione della maturezza». Ignorava dunque Giovan Vittorio Soderini che oltre
al calore, i fruttivendoli hanno sperimentato un'altra cagione della maturezza. Per
portare la primizia al mercato e venderla più cara, essi colgono i frutti, mele e pesche
e pere, prima che sian venuti a quella condizione che li rende sani e piacevoli, e li
maturano loro a furia d'ammaccature.
Ora così venne a maturazione l'anima mia, ancora
acerba.
In poco tempo, divenni un altro da quel che ero prima.
Morto il Romitelli mi trovai qui solo, mangiato dalla noja, in questa chiesetta fuori
mano, fra tutti questi libri; tremendamente solo, e pur senza voglia di compagnia. Avrei
potuto trattenermici soltanto poche ore al giorno; ma per le strade del paese mi
vergognavo di farmi vedere, così ridotto in miseria; da casa mia rifuggivo come da una
prigione; e dunque, meglio qua, mi ripetevo. Ma che fare? La caccia ai topi, sì; ma
poteva bastarmi?
La prima volta che mi avvenne di trovarmi con un libro
tra le mani, tolto così a caso, senza saperlo, da uno degli scaffali' provai un brivido
d'orrore. Mi sarei io dunque ridotto come il Romitelli, a sentir l'obbligo di leggere, io
bibliotecario, per tutti quelli che non venivano alla biblioteca? E scaraventai il libro a
terra. Ma poi lo ripresi; e - sissignori - mi misi a leggere anch'io, e anch'io con un
occhio solo, perché quell'altro non voleva saperne.
Lessi così di tutto un po', disordinatamente; ma
libri, in ispecie, di filosofia. Pesano tanto: eppure, chi se ne ciba e se li mette in
corpo, vive tra le nuvole. Mi sconcertarono peggio il cervello, già di per sé balzano.
Quando la testa mi fumava, chiudevo la biblioteca e mi recavo per un sentieruolo scosceso,
a un lembo di spiaggia solitaria.
La vista del mare mi faceva cadere in uno sgomento
attonito, che diveniva man mano oppressione intollerabile. Sedevo su la spiaggia e
m'impedivo di guardarlo, abbassando il capo: ma ne sentivo per tutta la riviera il
fragorìo, mentre lentamente, lentamente, mi lasciavo scivolar di tra le dita la sabbia
densa e greve, mormorando:
- Così, sempre, fino alla morte, senz'alcun
mutamento, mai...
L'immobilità della condizione di quella mia esistenza
mi suggeriva allora pensieri sùbiti, strani, quasi lampi di follia. Balzavo in piedi,
come per scuotermela d'addosso, e mi mettevo a passeggiare lungo la riva; ma vedevo allora
il mare mandar senza requie, là, alla sponda, le sue stracche ondate sonnolente; vedevo
quelle sabbie lì abbandonate; gridavo con rabbia, scotendo le pugna:
- Ma perché? ma perché?
E mi bagnavo i piedi.
Il mare allungava forse un po' più qualche ondata,
per ammonirmi:
«Vedi, caro, che si guadagna a chieder certi perché?
Ti bagni i piedi. Torna alla tua biblioteca! L'acqua salata infradicia le scarpe; e
quattrini da buttar via non ne hai. Torna alla biblioteca, e lascia i libri di filosofia:
va', va' piuttosto a leggere anche tu che Birnbaum Giovanni Abramo fece stampare a Lipsia
nel 1738 un opuscolo in-8º: ne trarrai senza dubbio maggior profitto.»
Ma un giorno finalmente vennero a dirmi che mia moglie
era stata assalita dalle doglie, e che corressi subito a casa. Scappai come un dàino: ma
più per sfuggire a me stesso, per non rimanere neanche un minuto a tu per tu con me, a
pensare che io stavo per avere un figliuolo, io, in quelle condizioni, un figliuolo!
Appena arrivato alla porta di casa, mia suocera
m'afferrò per le spalle e mi fece girar su me stesso:
- Un medico! Scappa! Romilda muore!
Viene da restare, no? a una siffatta notizia a
bruciapelo. E invece, «Correte!». Non mi sentivo più le gambe; non sapevo più da qual
parte pigliare; e mentre correvo, non so come, - Un medico! un medico! - andavo dicendo; e
la gente si fermava per via, e pretendeva che mi fermassi anch'io a spiegare che cosa mi
fosse accaduto; mi sentivo tirar per le maniche, mi vedevo di fronte facce pallide,
costernate; scansavo, scansavo tutti: - Un medico! un medico!
E il medico intanto era la, già a casa mia. Quando
trafelato, in uno stato miserando, dopo aver girato tutte le farmacie, rincasai, disperato
e furibondo, la prima bambina era già nata; si stentava a far venir l'altra alla luce.
- Due!
Mi pare di vederle ancora, lì, nella cuna, l'una
accanto all'altra: si sgraffiavano fra loro con quelle manine cosi gracili eppur quasi
artigliate da un selvaggio istinto, che incuteva ribrezzo e pietà: misere, misere,
misere, più di quei due gattini che ritrovavo ogni mattina dentro le trappole; e
anch'esse non avevano forza di vagire come quelli di miagolare; e intanto, ecco, si
sgraffiavano!
Le scostai, e al primo contatto di quelle carnucce
tènere e fredde, ebbi un brivido nuovo, un tremor di tenerezza, ineffabile: - erano mie!
Una mi morì pochi giorni dopo; l'altra volle darmi il
tempo, invece, di affezionarmi a lei, con tutto l'ardore di un padre che, non avendo più
altro, faccia della propria creaturina lo scopo unico della sua vita; volle aver la
crudeltà di morirmi, quando aveva già quasi un anno, e s'era fatta tanto bellina, tanto,
con quei riccioli d'oro ch'io m'avvolgevo attorno le dita e le baciavo senza saziarmene
mai; mi chiamava papà, e io le rispondevo subito: - Figlia -; e lei di nuovo: -
Papà...-; così, senza ragione, come si chiamano gli uccelli tra loro.
Mi morì contemporaneamente alla mamma mia, nello
stesso giorno e quasi alla stess'ora. Non sapevo più come spartire le mie cure e la mia
pena. Lasciavo la piccina mia che riposava, e scappavo dalla mamma, che non si curava di
sé, della sua morte, e mi domandava di lei, della nipotina, struggendosi di non poterla
più rivedere, baciare per l'ultima volta. E durò nove giorni, questo strazio! Ebbene,
dopo nove giorni e nove notti di veglia assidua, senza chiuder occhio neanche per un
minuto... debbo dirlo? - molti forse avrebbero ritegno a confessarlo; ma è pure umano,
umano, umano - io non sentii pena, no, sul momento: rimasi un pezzo in una tetraggine
attonita, spaventevole, e mi addormentai. Sicuro. Dovetti prima dormire. Poi, sì, quando
mi destai, il dolore m'assalì rabbioso, feroce, per la figlietta mia, per la mamma mia,
che non erano più... E fui quasi per impazzire. Un'intera notte vagai per il paese e per
le campagne; non so con che idee per la mente; so che, alla fine, mi ritrovai nel podere
della Stìa, presso alla gora del molino, e che un tal Filippo, vecchio mugnajo,
lì di guardia, mi prese con sé, mi fece sedere più là, sotto gli alberi, e mi parlò a
lungo, a lungo della mamma e anche di mio padre e de' bei tempi lontani; e mi disse che
non dovevo piangere e disperarmi cosi, perché per attendere alla figlioletta mia, nel
mondo di là, era accorsa la nonna, la nonnina buona, che la avrebbe tenuta sulle
ginocchia e le avrebbe parlato di me sempre e non me la avrebbe lasciata mai sola, mai.
Tre giorni dopo Roberto, come se avesse voluto pagarmi
le lagrime, mi mandò cinquecento lire. Voleva che provvedessi a una degna sepoltura della
mamma, diceva. Ma ci aveva già pensato zia Scolastica.
Quelle cinquecento lire rimasero un pezzo tra le
pagine di un libraccio della biblioteca.
Poi servirono per me; e furono - come dirò - la
cagione della mia prima morte.
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998