Luigi Pirandello
Il fu Mattia Pascal
La casa e la talpa
Ho detto troppo presto, in principio,
che ho conosciuto mio padre. Non l'ho conosciuto. Avevo quattr'anni e mezzo quand'egli
morì. Andato con un suo trabaccolo in Corsica, per certi negozii che vi faceva, non torno
più, ucciso da una perniciosa, in tre giorni, a trentotto anni. Lasciò tuttavia
nell'agiatezza la moglie e i due figli: Mattia (che sarei io, e fui) e Roberto, maggiore
di me di due anni.
Qualche vecchio del paese si compiace ancora di dare a
credere che la ricchezza di mio padre (la quale pure non gli dovrebbe più dar ombra,
passata com'è da un pezzo in altre mani) avesse origini - diciamo così - misteriose.
Vogliono che se la fosse procacciata giocando a carte,
a Marsiglia, col capitano d'un vapore mercantile inglese, il quale, dopo aver perduto
tutto il denaro che aveva seco, e non doveva esser poco, si era anche giocato un grosso
carico di zolfo imbarcato nella lontana Sicilia per conto d'un negoziante di Liverpool
(sanno anche questo! e il nome?), d'un negoziante di Liverpool, che aveva noleggiato il
vapore; quindi, per disperazione, salpando, s'era annegato in alto mare. Così il vapore
era approdato a Liverpool, alleggerito anche del peso del capitano. Fortuna che aveva per
zavorra la malignità de' miei compaesani.
Possedevamo terre e case. Sagace e avventuroso, mio
padre non ebbe mai pe' suoi commerci stabile sede: sempre in giro con quel suo trabaccolo,
dove trovava meglio e più opportunamente comprava e subito rivendeva mercanzie d'ogni
genere; e perché non fosse tentato a imprese troppo grandi e rischiose, investiva a mano
a mano i guadagni in terre e case, qui, nel proprio paesello, dove presto forse contava di
riposarsi negli agi faticosamente acquistati, contento e in pace tra la moglie e i
figliuoli.
Così acquistò prima la terra delle Due Riviere
ricca di olivi e di gelsi, poi il podere della Stìa anch'esso riccamente
beneficato e con una bella sorgiva d'acqua, che fu presa quindi per il molino; poi tutta
la poggiata dello Sperone ch'era il miglior vigneto della nostra contrada, e infine
San Rocchino, ove edificò una villa deliziosa. In paese, oltre alla casa in cui
abitavamo, acquistò due altre case e tutto quell'isolato, ora ridotto e acconciato ad
arsenale.
La sua morte quasi improvvisa fu la nostra rovina. Mia
madre, inetta al governo dell'eredità, dovette affidarlo a uno che, per aver ricevuto
tanti beneficii da mio padre fino a cangiar di stato, stimo dovesse sentir l'obbligo di
almeno un po' di gratitudine, la quale, oltre lo zelo e l'onestà, non gli sarebbe costata
sacrifizii d'alcuna sorta, poiché era lautamente remunerato,
Santa donna, mia madre! D'indole schiva e
placidissima, aveva così scarsa esperienza della vita e degli uomini! A sentirla parlare,
pareva una bambina. Parlava con accento nasale e rideva anche col naso, giacché ogni
volta, come si vergognasse di ridere, stringeva le labbra. Gracilissima di complessione,
fu, dopo la morte di mio padre, sempre malferma in salute; ma non si lagnò mai de' suoi
mali, né credo se ne infastidisse neppure con se stessa, accettandoli, rassegnata, come
una conseguenza naturale della sua sciagura. Forse si aspettava di morire anch'essa, dal
cordoglio, e doveva dunque ringraziare Iddio che la teneva in vita, pur così tapina e
tribolata, per il bene dei figliuoli.
Aveva per noi una tenerezza addirittura morbosa, piena
di palpiti e di sgomento: ci voleva sempre vicini, quasi temesse di perderci, e spesso
mandava in giro le serve per la vasta casa, appena qualcuno di noi si fosse un po'
allontanato.
Come una cieca, s'era abbandonata alla guida del
marito; rimastane senza, si sentì sperduta nel mondo. E non uscì più di casa, tranne le
domeniche, di mattina per tempo, per andare a messa nella prossima chiesa, accompagnata
dalle due vecchie serve, ch'ella trattava come parenti. Nella stessa casa, anzi, si
restrinse a vivere in tre camere soltanto, abbandonando le molte altre alle scarse cure
delle serve e alle nostre diavolerie.
Spirava, in quelle stanze, da tutti i mobili d'antica
foggia, dalle tende scolorite, quel tanfo speciale delle cose antiche, quasi il respiro
d'un altro tempo; e ricordo che più d'una volta io mi guardai attorno con una strana
costernazione che mi veniva dalla immobilità silenziosa di quei vecchi oggetti da tanti
anni lì senz'uso, senza vita.
Fra coloro che più spesso venivano a visitar la mamma
era una sorella di mio padre, zitellona bisbetica, con un pajo d'occhi da furetto, bruna e
fiera. Si chiamava Scolastica. Ma si tratteneva, ogni volta, pochissimo, perché tutt'a un
tratto, discorrendo, s'infuriava, e scappava via senza salutare nessuno. Io, da ragazzo,
ne avevo una gran paura. La guardavo con tanto d'occhi, specialmente quando la vedevo
scattare in piedi su le furie e le sentivo gridare, rivolta a mia madre e pestando
rabbiosamente un piede sul pavimento:
- Senti il vuoto? La talpa! la talpa!
Alludeva al Malagna, all'amministratore che ci scavava
soppiatto la fossa sotto i piedi.
Zia Scolastica (l'ho saputo dipoi) voleva a tutti i
costi che mia madre riprendesse marito. Di solito, le cognate non hanno di queste idee né
dànno di questi consigli. Ma ella aveva un sentimento aspro e dispettoso della giustizia;
e più per questo, certo, che per nostro amore, non sapeva tollerare che quell'uomo ci
rubasse così, a man salva. Ora, data l'assoluta inettitudine e la cecità di mia madre,
non ci vedeva altro rimedio, che un secondo marito. E lo designava anche in persona d'un
pover'uomo, che si chiamava Gerolamo Pomino.
Costui era vedovo, con un figliuolo, che vive tuttora
e si chiama Gerolamo come il padre: amicissimo mio, anzi più che amico, come dirò
appresso. Fin da ragazzo veniva col padre in casa nostra, ed era la disperazione mia e di
mio fratello Berto.
Il padre, da giovane, aveva aspirato lungamente alla
mano di zia Scolastica, che non aveva voluto saperne, come non aveva voluto saperne, del
resto, di alcun altro; e non già perché non si fosse sentita disposta ad amare, ma
perché il più lontano sospetto che l'uomo da lei amato avesse potuto anche col solo
pensiero tradirla, le avrebbe fatto commettere - diceva - un delitto. Tutti finti, per
lei, gli uomini, birbanti e traditori. Anche Pomino? No, ecco: Pomino, no. Ma se n'era
accorta troppo tardi. Di tutti gli uomini che avevano chiesto la sua mano, e che poi si
erano ammogliati, ella era riuscita a scoprire qualche tradimento, e ne aveva ferocemente
goduto. Solo di Pomino, niente; anzi il pover'uomo era stato un martire della moglie.
E perché dunque, ora, non lo sposava lei ? Oh bella,
perché era vedovo! era appartenuto a un'altra donna, alla quale forse, qualche volta,
avrebbe potuto pensare. E poi perché... via! si vedeva da cento miglia lontano, non
ostante la timidezza: era innamorato, era innamorato... s'intende di chi, quel povero
signor Pomino!
Figurarsi se mia madre avrebbe mai acconsentito. Le
sarebbe parso un vero e proprio sacrilegio. Ma non credeva forse neppure, poverina, che
zia Scolastica dicesse sul serio; e rideva in quel suo modo particolare alle sfuriate
della cognata, alle esclamazioni del povero signor Pomino, che si trovava lì presente a
quelle discussioni, e al quale la zitellona scaraventava le lodi più sperticate.
M'immagino quante volte egli avrà esclamato,
dimenandosi su la seggiola, come su un arnese di tortura:
- Oh santo nome di Dio benedetto!
Omino lindo, aggiustato, dagli occhietti ceruli
mansueti, credo che s'incipriasse e avesse anche la debolezza di passarsi un po' di
rossetto, appena appena, un velo, su le guance: certo si compiaceva d'aver conservato fino
alla sua età i capelli, che si pettinava con grandissima cura, a farfalla, e si
rassettava continuamente con le mani.
Io non so come sarebbero andati gli affari nostri, se
mia madre, non certo per sé ma in considerazione dell'avvenire dei suoi figliuoli, avesse
seguìto il consiglio di zia Scolastica e sposato il signor Pomino. È fuor di dubbio
però che peggio di come andarono, affidati al Malagna (la talpa!), non sarebbero potuti
andare.
Quando Berto e io fummo cresciuti, gran parte degli
averi nostri, è vero, era andata in fumo; ma avremmo potuto almeno salvare dalle grinfie
di quel ladro il resto che, se non più agiatamente, ci avrebbe certo permesso di vivere:
senza bisogni. Fummo due scioperati; non ci volemmo dar pensiero di nulla, seguitando, da
grandi, a vivere come nostra madre, da piccoli, ci aveva abituati.
Non aveva voluto nemmeno mandarci a scuola. Un tal
Pinzone fu il nostro ajo e precettore. Il suo vero nome era Francesco, o Giovanni, Del
Cinque; ma tutti lo chiamavano Pinzone, ed egli ci s'era già tanto abituato che si
chiamava Pinzone da sé.
Era d'una magrezza che incuteva ribrezzo; altissimo di
statura; e più alto, Dio mio, sarebbe stato, se il busto, tutt'a un tratto quasi stanco
di tallir gracile in sù, non gli si fosse curvato sotto la nuca in una discreta gobbetta,
da cui il collo pareva uscisse penosamente, come quel d'un pollo spennato, con un grosso
nottolino protuberante, che gli andava sù e giù. Pinzone si sforzava spesso di tener tra
i denti le labbra, come per mordere, castigare e nascondere un risolino tagliente, che gli
era proprio; ma lo sforzo in parte era vano, perché questo risolino, non potendo per le
labbra così imprigionate, gli scappava per gli occhi, più acuto e beffardo che mai.
Molte cose con quegli occhietti egli doveva vedere
nella nostra casa, che né la mamma né noi vedevamo. Non parlava, forse perché non
stimava dover suo parlare, o perché - com'io ritengo più probabile - ne godeva in
segreto, velenosamente.
Noi facevamo di lui tutto quello che volevamo; egli ci
lasciava fare; ma poi, come se volesse stare in pace con la propria coscienza, quando meno
ce lo saremmo aspettato, ci tradiva.
Un giorno, per esempio, la mamma gli ordinò di
condurci in chiesa; era prossima la Pasqua, e dovevamo confessarci. Dopo la confessione,
una breve visitina alla moglie inferma del Malagna, e subito a casa. Figurarsi che
divertimento! Ma, appena in istrada, noi due proponemmo a Pinzone una scappatella: gli
avremmo pagato un buon litro di vino, purché lui, invece che in chiesa e dal Malagna, ci
avesse lasciato andare alla Stìa in cerca di nidi. Pinzone accettò felicissimo,
stropicciandosi le mani, con gli occhi sfavillanti. Bevve; andammo nel podere; fece il
matto con noi per circa tre ore, ajutandoci ad arrampicarci su gli alberi,
arrampicandocisi egli stesso. Ma alla sera, di ritorno a casa, appena la mamma gli
domandò se avevamo fatto la nostra confessione e la visita al Malagna:
- Ecco, le dirò... - rispose, con la faccia più
tosta del mondo; e le narrò per filo e per segno quanto avevamo fatto.
Non giovavano a nulla le vendette che di questi suoi
tradimenti noi ci prendevamo. Eppure ricordo che non eran da burla. Una sera, per esempio,
io e Berto, sapendo che egli soleva dormire, seduto su la cassapanca, nella saletta
d'ingresso, in attesa della cena, saltammo furtivamente dal letto, in cui ci avevano messo
per castigo prima dell'ora solita, riuscimmo a scovare una canna di stagno, da serviziale,
lunga due palmi, la riempimmo d'acqua saponata nella vaschetta del bucato; e, così
armati, andammo cautamente a lui, gli accostammo la canna alle nari - e zifff! -.
Lo vedemmo balzare fin sotto al soffitto.
Quanto con un siffatto precettore dovessimo profittar
nello studio, non sarà difficile immaginare. La colpa però non era tutta di Pinzone;
ché egli anzi, pur di farci imparare qualche cosa, non badava a metodo né a disciplina,
e ricorreva a mille espedienti per fermare in qualche modo la nostra attenzione. Spesso
con me, ch'ero di natura molto impressionabile, ci riusciva. Ma egli aveva una erudizione
tutta sua particolare, curiosa e bislacca. Era, per esempio, dottissimo in bisticci:
conosceva la poesia fidenziana e la maccaronica, la burchiellesca e la leporeambica, e
citava allitterazioni e annominazioni e versi correlativi e incatenati e retrogradi di
tutti i poeti perdigiorni, e non poche rime balzane componeva egli stesso.
Ricordo a San Rocchino, un giorno, ci fece
ripetere alla collina dirimpetto non so più quante volte questa sua Eco:
In cuor di donna quanto dura amore? |
- (Ore). |
Ed ella non mi amò quant'io l'amai? |
- (Mai). |
Or chi sei tu che sì ti lagni meco? |
- (Eco). |
E ci dava a sciogliere tutti gli Enimmi
in ottava rima di Giulio Cesare Croce, e quelli in sonetti del Moneti e gli altri, pure in
sonetti, d'un altro scioperatissimo che aveva avuto il coraggio di nascondersi sotto il
nome di Caton l'Uticense. Li aveva trascritti con inchiostro tabaccoso in un vecchio
cartolare dalle pagine ingiallite.
- Udite, udite quest'altro dello Stigliani. Bello! Che
sarà? Udite:
A un tempo stesso io mi son una, e due, E fo due ciò ch'era una primamente. Una mi adopra con le cinque sue Contra infiniti che in capo ha la gente. Tutta son bocca dalla cinta in sue, E più mordo sdentata che con dente. Ho due bellichi a contrapposti siti, Gli occhi ho ne' piedi, e spesso a gli occhi i diti. |
Mi pare di vederlo ancora, nell'atto di recitare,
spirante delizia da tutto il volto, con gli occhi semichiusi, facendo con le dita il
chiocciolino.
Mia madre era convinta che al bisogno nostro potesse
bastare ciò che Pinzone c'insegnava; e credeva fors'anche, nel sentirci recitare gli
enimmi del Croce o dello Stigliani, che ne avessimo già di avanzo. Non così zia
Scolastica, la quale - non riuscendo ad appioppare a mia madre il suo prediletto Pomino -
s'era messa a perseguitar Berto e me. Ma noi, forti della protezione della mamma, non le
davamo retta, e lei si stizziva così fieramente che, se avesse potuto senza farsi vedere
o sentire, ci avrebbe certo picchiato fino a levarci la pelle. Ricordo che una volta,
scappando via al solito su le furie, s'imbatté in me per una delle stanze abbandonate;
m'afferrò per il mento, me lo strinse forte forte con le dita, dicendomi: - Bellino!
bellino! bellino! - e accostandomi, man mano che diceva, sempre più il volto al
volto, con gli occhi negli occhi, finché poi emise una specie di grugnito e mi lasciò,
ruggendo tra i denti:
- Muso di cane!
Ce l'aveva specialmente con me, che pure attendevo
agli strampalati insegnamenti di Pinzone senza confronto più di Berto. Ma doveva esser la
mia faccia placida e stizzosa e quei grossi occhiali rotondi che mi avevano imposto per
raddrizzarmi un occhio, il quale, non so perché, tendeva a guardare per conto suo,
altrove.
Erano per me, quegli occhiali, un vero martirio. A un
certo punto, li buttai via e lasciai libero l'occhio di guardare dove gli piacesse meglio.
Tanto, se dritto, quest'occhio non m'avrebbe fatto bello. Ero pieno di salute, e mi
bastava.
A diciott'anni m'invase la faccia un barbone rossastro
e ricciuto, a scàpito del naso piuttosto piccolo, che si trovò come sperduto tra esso e
la fronte spaziosa e grave.
Forse, se fosse in facoltà dell'uomo la scelta d'un
naso adatto alla propria faccia, o se noi, vedendo un pover'uomo oppresso da un naso
troppo grosso per il suo viso smunto, potessimo dirgli: «Questo naso sta bene a me, e
me lo piglio;» forse, dico, io avrei cambiato il mio volentieri, e così anche gli
occhi e tante altre parti della mia persona. Ma sapendo bene che non si può, rassegnato
alle mie fattezze, non me ne curavo più che tanto.
Berto, al contrario, bello di volto e di corpo (almeno
paragonato con me), non sapeva staccarsi dallo specchio e si lisciava e si accarezzava e
sprecava denari senza fine per le cravatte più nuove, per i profumi più squisiti e per
la biancheria e il vestiario. Per fargli dispetto, un giorno, io presi dal suo guardaroba
una marsina nuova fiammante, un panciotto elegantissimo di velluto nero, il gibus, e me ne
andai a caccia così parato.
Batta Malagna, intanto, se ne veniva a piangere presso
mia madre le mal'annate che lo costringevano a contrar debiti onerosissimi per provvedere
alle nostre spese eccessive e ai molti lavori di riparazione di cui avevano continuamente
bisogno le campagne.
- Abbiamo avuto un'altra bella bussata! - diceva ogni
volta, entrando.
La nebbia aveva distrutto sul nascere le olive, a Due
Riviere; oppure la fillossera i vigneti dello Sperone. Bisognava piantare
vitigni americani, resistenti al male. E dunque, altri debiti. Poi il consiglio di vendere
lo Sperone, per liberarsi dagli strozzini, che lo assediavano. E così prima fu
venduto lo Sperone, poi Due Riviere, poi San Rocchino. Restavano le
case e il podere della Stia, col molino. Mia madre s'aspettava ch'egli un giorno
venisse a dire ch'era seccata la sorgiva.
Noi fummo, è vero, scioperati, e spendevamo senza
misura; ma è anche vero che un ladro più ladro di Batta Malagna non nascerà mai più su
la faccia della terra. È il meno che io possa dirgli, in considerazione della parentela
che fui costretto a contrarre con lui.
Egli ebbe l'arte di non farci mancare mai nulla,
finché visse mia madre. Ma quell'agiatezza, quella libertà fino al capriccio, di cui ci
lasciava godere, serviva a nascondere l'abisso che poi, morta mia madre, ingojò me solo;
giacché mio fratello ebbe la ventura di contrarre a tempo un matrimonio vantaggioso.
Il mio matrimonio, invece...
- Bisognerà pure che ne parli, eh, don Eligio, del
mio matrimonio?
Arrampicato là, su la sua scala da lampionajo, don
Eligio Pellegrinotto mi risponde:
- E come no? Sicuro. Pulitamente...
- Ma che pulitamente! Voi sapete bene che...
Don Eligio ride, e tutta la chiesetta sconsacrata con
lui. Poi mi consiglia:
- S'io fossi in voi, signor Pascal, vorrei prima
leggermi qualche novella del Boccaccio o del Bandello. Per il tono, per il tono...
Ce l'ha col tono, don Eligio. Auff! Io butto giù come
vien viene.
Coraggio, dunque; avanti!
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi- E-mail: - bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 14 febbraio, 1998