FRANCESCO PETRARCA
CANZONIERE
CCVI-CCLXIII
RERUM VULGARIUM FRAGMENTA
codice Vaticano 3195
In vita di Madonna Laura
CCVI
Si l dissi mai, chi vegna in odio a quella
Si l dissi mai,
chi vegna in odio a quella del cui amor vivo, e senza l qual morrei; si l dissi, che miei dí sian pochi, e rei, e di vil signoria lanima ancella; si l dissi, contra me sarme ogni stella, e dal mio lato sia paura e gelosia, e la nemica mia più feroce vèr me sempre e più bella. Si
l dissi, Amor laurate sue quadrella Si l dissi mai, di quel chi
men vorrei, Si l dissi, co i sospir, quantio mai
fêi, Ma sio no l dissi, chi sí dolce apria I no l dissi già mai, né dir poría, Per Rachel ho servito, e non per Lia; |
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CCVII
Ben mi credea passar mio tempo omai
Ben mi credea passar mio tempo omai come passato avea questanni a dietro, senzaltro studio, e senza novi ingegni; or poi che da madonna i non impetro lusata aita, a che condutto mhai, tu l vedi, Amor, che tal arte minsegni. Non so si me ne sdegni; ché n questa età mi fai divenir ladro del bel lume leggiadro, senza l qual non vivrei in tanti affanni. Cosí avessio i primi anni preso lo stil chor prender mi bisogna; ché n giovenil fallir è men vergogna. Li
occhi soavi, ondio soglio aver vita, Chi ho cercate già vie più di mille Di mia morte mi pasco, e vivo in fiamme: Chi no l sa chio vivo, e vissi sempre, Chiusa fiamma è più ardente; e se pur cresce, Cosí di ben amar porto tormento, Canzon mia, fermo in campo |
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CCVIII
Rapido fiume che lalpestra vena
Rapido fiume che lalpestra vena rodendo intorno, onde l tuo nome prendi, notte e dí meco disioso scendi ovAmor me, te sol Natura mena, vattene innanzi: il tuo corso non frena né stanchezza né sonno; e pria che rendi suo dritto al mar, fiso u si mostri attendi lerba più verde, e laria più serena. Ivi è quel nostro vivo e dolce sole chaddorma e nfiora la tua riva manca: forse (oh, che spero?) el mio tardar le dole. Basciale l piede, o la man bella e bianca; dille, e l basciar sie n vece di parole: - Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca. - |
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CCIX
I dolci colli ovio lasciai me stesso
I dolci colli ovio lasciai me
stesso, partendo, onde partir già mai non posso, mi vanno innanzi; et èmmi ogni or a dosso quel caro peso, chAmor mha commesso. Meco di me mi meraviglio spesso, chi pur vo sempre, e non son ancor mosso dal bel giogo più volte indarno scosso, ma com più me nallungo, e più mappresso. E qual cervo ferito di saetta, col ferro avvelenato dentral fianco, fugge, e più duolsi quanto più saffretta, tal io, con quello stral dal lato manco, che mi consuma, e parte mi diletta, di duol mi struggo, e di fuggir mi stanco. |
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CCX
Non da lispano Ibero a lindo Idaspe
Non da lispano Ibero a
lindo Idaspe ricercando del mar ogni pendice, né dal lito vermiglio a londe caspe, né n ciel né n terra è più duna fenice. Qual destro corvo o qual manca cornice canti l mio fato? o qual Parca linnaspe? Ché sol trovo Pietà sorda comaspe, misero, onde sperava esser felice! Chi non vo dir di lei ma chi la scorge, tutto l cor di dolcezza e damor gli empie; tanto nha seco, e tantaltrui ne porge. E per far mie dolcezze amare et empie, o sinfinge, o non cura, o non saccorge del fiorir queste inanzi tempo tempie. |
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CCXI
Voglia mi sprona, Amor mi guida e scorge
Voglia mi sprona, Amor mi guida e
scorge, piacer mi tira, usanza mi trasporta, speranza mi lusinga e riconforta, e la man destra al cor già stanco porge. E l misero la prende, e non saccorge di nostra cieca e disleale scorta; regnano i sensi, e la ragion è morta; de lun vago desio laltro risorge. Vertute, onor, bellezza, atto gentile, dolci parole a i bei rami mhan giunto ove soavemente il cor sinvesca. mille trecento ventisette, a punto su lora prima, il dí sesto daprile nel laberinto intrai; né veggio ondèsca. |
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CCXII
Beato in sogno e di languir contento
Beato in sogno e di languir contento, dabbracciar lombre e seguir laura estiva, nuoto per mar che non ha fondo o riva, solco onde, e n rena fondo, e scrivo in vento, e l sol vagheggio sí, chelli ha già spentocol suo splendor la mia vertù visiva; et una cerva errante e fugitiva caccio con un bue zoppo e nfermo e lento. Cieco e stanco ad ogni altro chal mio danno, il qual dí e notte palpitando cerco, sol Amor e madonna, e Morte chiamo. Cosí vènti anni, grave e lungo affanno, pur lagrime e sospiri e dolor merco: in tale stella presi lèsca e lamo. |
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CCXIII
Grazie cha pochi il ciel largo destina
Grazie cha pochi il ciel largo
destina: rara vertù, non già dumana gente, sotto biondi capei canuta mente, e n umil donna alta beltà divina; leggiadria singulare e pellegrina, e l cantar che ne lanima si sente, landar celeste, e l vago spirto ardente, chogni dur rompe, et ogni altezza inchina; e que belli occhi che i cor fanno smalti, possenti a rischiarar abisso e notti, e tôrre lalme a corpi, e darle altrui; col dir pien dintelletti dolci et alti, co i sospiri soavemente rotti: da questi magi transformato fui. |
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CCXIV
Anzi tre dí creata era alma in parte
Anzi tre dí creata era alma in parte da por sua cura in cose altère e nove, e dispregiar di quel cha molti è n pregio. Questa ncor dubbia del fatal suo corso, sola, pensando, pargoletta, e sciolta, intrò in primavera in un bel bosco. Era un tenero
fior nato in quel bosco Caro, dolce, alto, e faticoso pregio, Ma, lasso!, or veggio che la carne sciolta Pien di lacci e di stecchi un duro corso Guarda l mio stato, a le vaghezze nove, Or ecco in parte le question mie nove: |
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CCXV
In nobil sangue vita umile e queta
In nobil sangue vita umile e queta, et in alto intelletto un puro core, frutto senile in sul giovenil fiore, e n aspetto pensoso anima lieta, raccolto ha n questa donna il suo pianeta, anzi l re de le stelle; e l vero onore, le degne lode, e l gran pregio, e l valore, chè da stancar ogni divin poeta. Amor sè in lei con onestate aggiunto, con beltà naturale abito adorno, et un atto che parla con silenzio, e non so che nelli occhi, che n un punto pò far chiara la notte, oscuro il giorno, e l mèl amaro, et addolcir lassenzio. |
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CCXVI
Tutto l dí piango; e poi la notte, quando
Tutto l dí piango; e poi la
notte, quando prendon riposo i miseri mortali, trovomi in pianto e raddoppiansi i mali: cosí spendo l mio tempo lagrimando. In tristo umor vo li occhi consumando, e l cor in doglia; e son fra gli animali lultimo sí, che li amorosi strali mi tengon ad ogni or di pace in bando. Lasso!, che pur da lun a laltro sole, e da luna ombra a laltra, ho già l più corso di questa morte che si chiama vita. Più laltrui fallo che l mi mal mi dole; ché Pietà viva e l mio fido soccorso vedem arder nel foco, e non maita. |
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CCXVII
Già desiai con sí giusta querela
Già desiai con sí giusta querela e n sí fervide rime farmi udire, chun foco di pietà fêssi sentire al duro cor cha mezza state gela; e lempia nube, che l raffredda e vela, rompesse a laura del mi ardente dire, o fêssi quella ltrui in odio venire che belli, onde mi strugge, occhi mi cela. Or non, odio per lei, per me pietate, cerco; ché quel non vo, questo non posso; tal fu mia stella, e tal mia cruda sorte! Ma canto la divina sua beltate; ché, quandi sia di questa carne scosso, sappia l mondo che dolce è la mia morte. |
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CCXVIII
Tra quantunque leggiadre donne e belle
Tra quantunque leggiadre donne e belle giunga costei, chal mondo non ha pare, col suo bel viso suol dellaltre fare quel che fa l dí de le minori stelle. Amor par cha lorecchie mi favelle, dicendo: - Quanto questa in terra appare, fia l viver bello; e poi l vedrem turbare, perir vertuti, e l mio regno con elle. Come natura al ciel la luna e l sole, a laere i vènti, a la terra erbe e fronde, a luomo lintelletto e le parole, et al mar ritollesse i pesci e londe; tanto e più fíen le cose oscure e sole, se morte li occhi suoi chiude et asconde. - |
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CCXIX
Il cantar novo e l piange delli augelli
Il cantar novo e l piange delli
augelli in sul dí fanno retentir le valli, e l mormorar de liquidi cristalli giù per lucidi, freschi rivi, e snelli. Quella che neve il vólto, oro i capelli, nel cui amor non fûr mai inganni né falli, destami al suon de li amorosi balli, pettinando al suo vecchio i bianchi velli. cosí mi sveglio a salutar lAurora e l Sol chè seco, e più laltro ondio fui ne primi anni abbagliato, e son ancóra. I gli ho veduti alcun giorno ambedui levarsi inseme, e n un punto e n unora quel far le stelle, e questo sparir lui. |
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CCXX
Onde tolse Amor loro, e di qual vena
Onde tolse Amor loro, e di qual
vena, per far due treccie bionde? e n quali spine colse le ròse, e n qual piaggia le brine tènere e fresche, e diè lor polso e lena? onde le perle, in chei frange et affrena dolci parole, oneste e pellegrine? onde tante bellezze, e sí divine, di quella fronte, più che l ciel serena? Da quali angeli mosse, e di qual spera, quel celeste cantar che mi disface sí che mavanza omai da disfar poco? Di qual sol nacque lalma luce altèra di que belli occhi ondio ho guerra e pace, che mi cuocono il cor in ghiaccio e n foco? |
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CCXXI
Qual mio destín, qual forza, o qual inganno
Qual mio destín, qual forza, o qual
inganno, mi riconduce disarmato al campo, là ve sempre son vinto? e sio ne scampo, meraviglia navrò; si moro, il danno. Danno non già, ma pro; sí dolci stanno nel mio cor le faville e l chiaro lampo, che labbaglia e lo strugge, e n chio mavampo; e son già ardendo nel vigesimo anno. Sento i messi di morte, ove apparire veggio i belli occhi e folgorar da lunge; poi, savèn chappressando a me li gire Amor, con tal dolcezza munge e punge, chi no l so ripensar, non che ridire; ché né ngegno né lingua al vero agiunge. |
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CCXXII
Liete, e pensose, accompagnate, e sole
- Liete, e pensose, accompagnate, e
sole, donne, che ragionando ite per via, ove è la vita, ove la morte mia? perché non è con voi, comella sòle? - - Liete siam per memoria di quel sole; dogliose per sua dolce compagnia, la qual ne toglie invidia e gelosia, che daltrui ben, quasi suo mal, si dole. - - Chi pon freno a li amanti, o dà lor legge?- - Nessun a lalma; al corpo ira et asprezza: questo or in lei, tal or si prova in noi. Ma spesso ne la fronte il cor si legge: sí vedemmo oscurar lalta bellezza, e tutti rugiadosi li occhi suoi. - |
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CCXXIII
Quando l Sol bagna in mar laurato carro
Quando l Sol bagna in mar
laurato carro, e laere nostro, e la mia mente imbruna, col cielo, e co le stelle, e co la luna, unangosciosa e dura notte innarro. Poi, lasso!, a tal che non mascolta narro tutte le mie fatiche, ad una ad una, e col mondo, e con mia cieca fortuna, con Amor, madonna, e meco garro. Il sonno è n bando, e del riposo è nulla; ma sospiri, e lamenti in fin a lalba, e lagrime che lalma a li occhi invia. Vien poi laurora, e laura fosca inalba, me no; ma l sol che l cor marde e trastulla, quel pò solo adolcir la doglia mia. |
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CCXXIV
Suna fede amorosa, un cor non finto
Suna fede amorosa, un cor non
finto, un languir dolce, un desiar cortese; soneste voglie in gentil foco accese, un lungo error in cieco laberinto; se ne la fronte ogni penser depinto, od in voce interrotte a pena intese, or da paura, or da vergogna offese; sun pallor di viola e damor tinto; saver altrui più caro che sé stesso; se sospirare e lagrimar mai sempre, pascendosi di duol, dira e daffanno; sarder da lunge et agghiacciar da presso, son le cagion chamando i mi distempre, vostro, donna, l peccato, e mio fia l danno. |
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CCXXV
Dodici donne onestamente lasse
Dodici donne onestamente
lasse, anzi dodici stelle, e n mezzo un sole, vidi in una barchetta allegre e sole, qual non so saltra mai onda solcasse. Simil non credo che Iason portasse al vello onde oggi ogni uom vestir si vòle, né l pastor di chancor Troia si dole; de qua duo tal romor al mondo fasse. Poi le vidi in un carro triumfale, Laurea mia con suoi santi atti schifi sedersi in parte, e cantar dolcemente. Non cose umane, o vision mortale: felice Automedon, felice Tifi, che conduceste sí leggiadra gente! |
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CCXXVI
Passer mai solitario in alcun tetto
Passer mai solitario in alcun tetto non fu quantio, né fera in alcun bosco; chi non veggio l bel viso, e non conosco altro sol, né questocchi hannaltro obietto. Lagrimar sempre è l mio sommo diletto, il rider doglia, il cibo assenzio o tòsco; la notte affanno, e l ciel seren mè fosco, e duro campo di battaglia il letto. Il sonno è veramente, qual uom dice, parente de la morte, e l cor sottragge a quel dolce penser che n vita il tène. Solo al mondo paese almo, felice, verdi rive fiorite, ombrose piagge, voi possedete, et io piango il mio bene. |
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CCXXVII
Aura che quelle chiome bionde e crespe
Aura che quelle chiome bionde e crespe cercondi e movi, e se mossa da loro soavemente, e spargi quel dolce oro, e poi l raccogli e n bei nodi il rincrespe, tu stai nelli occhi ondamorose vespe mi pungon sí, che n fin qua il sento e ploro, e vacillando cerco il mio tesoro, come animal che spesso adombre e ncespe; chor mel par ritrovar, et or maccorgo chi ne son lunge, or mi sollievo or caggio, chor quel chi bramo, or quel chè vero scorgo. Aer felice, col bel vivo raggio rimanti. E tu, corrente e chiaro gorgo, ché non possio cangiar teco viaggio? |
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CCXXVIII
Amor co la man destra il lato manco
Amor co la man destra il lato manco maperse, e piantòvi entro in mezzo l core un lauro verde, sí che di colore ogni smeraldo avria ben vinto e stanco. Vomer di penna, con sospir del fianco, e l piover giù dalli occhi un dolce umore laddornâr sí, chal ciel nandò lodore, qual non so già se daltre frondi unquanco. Fama, onor, e vertute, e leggiadria, casta bellezza in abito celeste son le radici de la nobil pianta. Tal mi trovo al petto, ove chi sia, felice incarco; e con preghiere oneste ladoro, e nchino come cosa santa. |
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CCXXIX
Cantai, or piango, e non men di dolcezza
Cantai, or piango, e non men di
dolcezza del pianger prendo che del canto presi; cha la cagion, non a leffetto intesi son i miei sensi vaghi pur daltezza. Indi a mansuetudine e durezza et atti feri, et umili, e cortesi, porto egualmente; né me gravan pesi, né larme mie punta di sdegni spezza. Tengan dunque vèr me lusato stile Amor, madonna, il mondo, e mia fortuna; chi non penso esser mai se non felice. Viva o mora, o languisca, un più gentile stato del mio non è sotto la Luna; sí dolce è del mio amaro la radice. |
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CCXXX
I piansi, or canto; ché l celeste lume
I piansi, or canto; ché l
celeste lume quel vivo sole alli occhi mei non cela, nel qual onesto Amor chiaro revela sua dolce forza, e suo santo costume: onde e suol trar di lagrime tal fiume, per accorciar del mio viver la tela, che non pur ponte o guado, o remi o vela, ma scampar non potiemmi ale né piume. Sí profondo era, e di sí larga vena il pianger mio, e sí lunge la riva, chi vaggiungeva col penser la pena. Non lauro o palma, ma tranquilla oliva pietà mi manda. e l tempo rasserena, e l pianto asciuga, e vuol ancor chi viva. |
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CCXXXI
I mi vivea di mia sorte contento
I mi vivea di mia sorte
contento, senza lagrime, e senza invidia alcuna; che saltro amante ha più destra fortuna, mille piacer non vaglion un tormento. Or quei belli occhi ondio mai non mi pento de le mie pene, e men non ne voglio una, tal nebbia copre, sí gravosa e bruna, che l sol de la mia vita ha quasi spento. O Natura, pietosa e fera madre, onde tal possa, e sí contrarie voglie di far cose e disfar tanto leggiadre? Dun vivo fonte ogni poder saccoglie: ma tu come l consenti, o sommo Padre, che del tuo caro dono altri ne spoglie? |
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CCXXXII
Vincitore Alessandro lira vinse
Vincitore Alessandro lira vinse, e fe l minore in parte che Filippo: che li val se Pirgotile e Lisippo lintagliâr, solo, et Apelle il depinse? Lira Tideo a tal rabbia sospinse, che, morendo ei, si róse Melanippo: lira cieco del tutto, non pur lippo, fatto avea Silla; a lultimo lestinse. Sal Velentinian, cha simil pena ira conduce; e sal quei che ne more, Aiace, in molti e poi in sé stesso forte. Ira è breve furore e, chi no l frena, è furor lungo, che l suo possessore spesso a vergogna, e talor mena a morte. |
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CCXXXIII
Qual ventura mi fu, quando da luno
Qual ventura mi fu, quando da
luno de duo i più belli occhi che mai fûro, mirandol di dolor turbato e scuro, mosse vertù che fe l mio nfermo e bruno! Sendio tornato a solver il digiuno di veder lei che sola al mondo curo, fummi il Ciel et Amor men che mai duro, se tutte altre mie grazie inseme aduno. Ché dal destrocchio, anzi dal destro sole de la mia donna, al mio destrocchio venne il mal che mi diletta, e non mi dole; e pur comintelletto avesse, e penne, passò quasi una stella che n ciel vóle; e natura e pietate il corso tenne. |
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CCXXXIV
O cameretta, che già fosti un porto
O cameretta, che già fosti un porto a le gravi tempeste mie diurne, fonte se or di lagrime notturne, che l dí celate per vergogna porto! O letticciuol, che requie eri e conforto in tanti affanni, di che dogliose urne ti bagna Amor, con quelle mani eburne, solo vèr me crudeli a sí gran torto! Né pur il mio secreto, e l mio riposo, fuggo, ma più me stesso, e l mio pensero che, seguendol talor, levommi a volo; e l vulgo, a me nemico, et odioso chi l pensò mai?), per mio refugio chero: tal paura ho di ritrovarmi solo. |
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CCXXXV
Lasso!, Amor mi trasporta, ovio non voglio
Lasso!, Amor mi trasporta, ovio
non voglio; e ben maccorgo che l dever si varca, onde, a chi nel mio cor siede monarca, sono importuno assai più chi non soglio. Né mai saggio nocchier guardò da scoglio nave di merci preziose carca, quantio sempre la debile mia barca da le percosse del suo duro orgoglio. Ma lagrimosa pioggia, e fieri vènti dinfiniti sospiri or mhanno spinta, chè nel mio mare orribil notte e verno, ovaltrui noie, a sé doglie e tormenti porta, e non altro, già da londe vinta, disarmata di vele e di governo. |
4 8 11 14 |
CCXXXVI
Amor, io fallo, e veggio il mio fallire
Amor, io fallo, e veggio il mio
fallire, ma fo sí comuom charde e l foco ha n seno, ché l duol pur cresce, e la ragion vèn meno et è già quasi vinta da martíre. Solea frenare il mio caldo desire, per non turbare il bel viso sereno: non posso più; di man mhai tolto il freno, e lalma desperando ha preso ardire. Però soltra suo stile ella saventa, tu l fai, che sí laccendi, e sí la sproni, chogni aspra via per sua salute tenta; e più l fanno i celesti e rari doni, cha in sé madonna. Or fa almen chella il senta, e le mie colpe a sé stessa perdoni. |
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CCXXXVII
Non ha tanti animali il mar fra londe
Non ha tanti animali il mar fra
londe, né lassù sopra l cerchio de la Luna vide mai tante stelle alcuna notte, né tanti augelli albergan per li boschi, né tanterbe ebbe mai campo né piaggia, quantha l mio cor pensier ciascuna sera. Di
dí in dí spero omai lultima sera, Io non ebbi già mai tranquilla notte, Consumando mi vo di piaggia in piaggia, Le città son nemiche, amici i boschi, Deh, or fossio col vago de la luna Sovra dure onde, al lume de la Luna, |
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CCXXXVIII
Real natura, angelico intelletto
Real natura, angelico intelletto, chiara alma, pronta vista, occhio cerviero, providenzia veloce, alto pensero, e veramente degno di quel petto: sendo di donne un bel numero eletto, per adornar il dí festivo e altèro, sùbito scorse il buon giudicio intero fra tanti, e sí bei vòlti, il più perfetto. Laltre maggior di tempo, o di fortuna, trarsi in disparte comandò con mano, e caramente accolse a sé quelluna. Li occhi e la fronte con sembiante umano basciolle sí che rallegrò ciascuna; me empiè dinvidia latto dolce e strano. |
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CCXXXIX
Là vèr laurora, che sí dolce laura
Là vèr laurora, che sí dolce
laura al tempo novo suol muovere i fiori e li augelletti incominciar lor versi, sí dolcemente i pensier dentro a lalma mover mi sento a chi li ha tutti in forza, che ritornar convemmi a le mie note. Temprar
potessio in sí soavi note Quante lagrime, lasso!, e quanti versi Omini e dèi solea vincer per forza A lultimo bisogno, o misera alma, Ridon or per le piagge erbette e fiori: In rete accolgo laura, e n ghiaccio i
fiori, |
6 12 18 25 30 36 |
CCXL
I ho pregato Amor, e l ne riprego
I ho pregato Amor, e l ne
riprego, che mi scusi appo voi, dolce mia pena, amaro mio diletto, se, con piena fede, dal dritto mio sentier mi piego. I no l posso negar, donna, e no l nego, che la ragion, chogni bona alma affrena, non sia dal voler vinta; ondei mi mena talor in parte ovio per forza il sego. Voi, con quel cor, che di sí chiaro ingegno, di sí alta vertute il cielo alluma, quanto mai piovve da benigna stella, devete dir, pietosa e senza sdegno: Che pò questi altro? il mio vólto il consuma: ei perché ingordo, et io perché sí bella? - |
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CCXLI
Lalto signor dinanzi a cui non vale
Lalto signor dinanzi a cui non
vale nasconder, né fuggir, né far difesa, di bel piacer mavea la mente accesa, con un ardente et amoroso strale; e ben che l primo colpo aspro e mortale fossi da sé, per avanzar sua impresa, una saetta di pietate ha presa, e quinci e quindi il cor punge e assale. Luna piaga arde, e versa foco e fiamma; lagrime laltra che l dolor distilla, per li occhi mei, del vostro stato rio. Né, per duo fonti, sol una favilla rallenta de lincendio che minfiamma; anzi, per la pietà, cresce l desio. |
4 8 11 14 |
CCXLII
Mira quel colle, o stanco mio cor vago
Mira quel colle, o stanco mio cor
vago: ivi lasciammo ier lei, chalcun tempo ebbe qualche cura di noi, e le ne ncrebbe, or vorria trar de li occhi nostri un lago. Torna tu in là, chio desser sol mappago; tenta se forse ancor tempo sarebbe da scemar nostro duol, che n fin qui crebbe, del mio mal partecipe, e presago. Or tu chhai posto te stesso in oblio, e parli al cor pur come e fusse or teco, miser, e pien di pensier vani e sciocchi! Chal dipartir dal tuo sommo desio, tu te nandasti, e si rimase seco, e si nascose dentro a suoi belli occhi. - |
4 8 11 14 |
CCXLIII
Fresco, ombroso, fiorito e verde colle
Fresco, ombroso, fiorito e verde
colle, ovor pensando et or cantando siede, e fa qui de celesti spirti fede quella cha tutto l mondo fama tolle, il mio cor che per lei lasciar mi volle, e fe gran senno, e più se mai non riede, va or contando ove da quel bel piede segnata è lerba, e da questocchi è molle. Seco si stringe, e dice a ciascun passo: - Deh fusse or qui, quel miser, pur un poco, chè già di pianger, e di viver lasso! - Ella sel ride; e non è pari il gioco: tu paradiso, i senza cor un sasso, o sacro, aventuroso, e dolce loco! |
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CCXLIV
Il mal mi preme, e mi spaventa il peggio
Il mal mi preme, e mi spaventa il
peggio, al qual veggio sí larga e piana via, chi son intrato in simil frenesia, e con duro penser teco vaneggio; né so se guerra o pace a Dio mi cheggio, ché l danno è grave, e la vergogna è ria. Ma per che più languir? Di noi pur fia quel chordinato è già nel sommo seggio. Ben chi non sia di quel grandonor degno che tu mi fai, ché te ningana Amore, che spesso occhio ben san fa veder torto, pur dalzar lalma a quel celeste regno è il mio consiglio, e di spronare il core; perché l camin è lungo, e l tempo è corto. |
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CCXLV
Due ròse fresche, e còlte in paradiso
Due ròse fresche, e còlte in
paradiso laltrier, nascendo il dí primo di maggio, bel dono, e dun amante antiquo e saggio, tra duo minori egualmente diviso, con sí dolce parlar e con un riso da far innamorare un uom selvaggio, di sfavillante et amoroso raggio e lun e laltro fe cangiare il viso. - Non vede un simil par damanti il Sole, - dicea, ridendo e sospirando inseme; e stringendo ambedue, volgeasi a torno. Cosí partía le ròse e le parole; onde l cor lasso ancor sallegra e teme: felice eloquenzia! O lieto giorno! |
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CCXLVI
Laura, che l verde lauro e laureo crine
Laura, che l verde lauro e
laureo crine soavemente sospirando move, fa con sue viste leggiadrette e nove lanime da lor corpi pellegrine. Candida ròsa nata in dure spine, quando fia chi sua pari al mondo trove? Gloria di nostra etate! O vivo Giove, manda, prego, il mio in prima che l suo fine; sí chio non veggia il gran publico danno e l mondo remaner senza l suo sole, né li occhi miei, che luce altra non hanno, né lalma, che pensar daltro non vòle, né lorecchie, chudir altro non sanno, senza loneste sue dolci parole. |
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CCXLVII
Parrà forse ad alcun che n lodar quella
Parrà forse ad alcun che n
lodar quella chi adoro in terra, errante sia l mio stile, faccendo lei sovrogni altra gentile, santa, saggia, leggiadra, onesta, e bella. A me par il contrario; e temo chella non abbia a schifo il mio dir troppo umíle, degna dassai più alto e più sottile: e chi no l crede, venga egli a vedella. Si dirà ben: - Quello ove questi aspira è cosa da stancare Atene, Arpino, Mantova, e Smirna, e luna e laltra lira. - Lingua mortale al suo stato divino giunger non pòte: Amor la spinge e tira, non per elezion, ma per destino. |
4 8 11 14 |
CCXLVIII
Chi vuol veder quantunque po Natura
Chi vuol veder quantunque po
Natura e l Ciel tra noi, venga a mirar costei, chè sola un sol, non pur a li occhi mei, ma al mondo cieco, che vertù non cura; e venga tosto, perché Morte fura prima i migliori, e lascia star i rei: questa, aspettata al regno delli dèi, cosa bella mortal, passa e non dura. Vedrà, sarriva a tempo ogni vertute, ogni bellezza, ogni real costume giunti in un corpo con mirabil tempre. Allor dirà che mie rime son mute, lingegno offeso dal soverchio lume: ma se più tarda, avrà da pianger sempre. |
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CCXLIX
Qual paura ho, quando mi torna a mente
Qual paura ho, quando mi torna a mente quel giorno chí lasciai grave e pensosa madonna, e l mio cor seco! E non è cosa che sí volentier pensi, e sí sovente. I la riveggio starsi umilemente, tra belle donne, a guisa duna ròsa tra minor fior; né lieta né dogliosa, come chi teme, et altro mal non sente. Deposta avea lusata leggiadria, le perle, e le ghirlande, e i panni allegri, e l riso, e l canto, e l parlar dolce umano. Cosí in dubbio lasciai la vita mia: or tristi augurî, e sogni, e penser negri mi dànno assalto; e piaccia a Dio che n vano. |
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CCL
Solea lontana in sonno consolarme
Solea lontana in sonno consolarme con quella dolce angelica sua vista madonna; or mi spaventa e mi contrista, né di duol né di téma possa aitarme; ché spesso nel suo vólto veder parme vera pietà con grave dolor mista, et udir cose, onde l cor fede acquista, che di gioia e di speme si disarme. - Non ti sovèn di quella ultima sera - dice ella - chi lasciai li occhi tuoi molli e sforzata dal tempo me nandai? I non tel potei dir, allor, né volli; or tel dico per cosa esperta e vera: non sperar di vedermi in terra mai. - |
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CCLI
O misera et orribil visïone!
O misera et orribil visïone! è dunque ver che nnanzi tempo spenta sia lalma luce che suol far contenta mia vita in pene et in speranze bone? Ma come è che sí gran romor non sone, per altri messi, e per lei stessa il senta? Or già Dio e Natura no l consenta, e falsa sia mia trista opinione. A me pur giova di sperare ancóra la dolce vista del bel viso adorno, che me mantene e l secol nostro onora. Se per salir a leterno soggiorno uscita è pur del bel albergo fòra, prego non tardi il mio ultimo giorno. |
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CCLII
In dubbio di mio stato, or piango, or canto
In dubbio di mio stato, or piango, or
canto, e temo, e spero; et in sospiri, e n rime sfogo il mio incarco: Amor tutte sue lime usa sopra l mio core afflitto tanto. Or fia già mai che quel bel viso santo renda a questocchi le lor luci prime? (lasso!, non so che di me stesso estime) li condanni a sempiterno pianto? E per prendere il ciel, debito a lui, non curi che si sia di loro in terra, di chegli è l sole, e non veggiono altrui? In tal paura e n sí perpetua guerra vivo, chi non son più quel che già fui; qual chi per via dubbiosa teme et erra. |
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CCLIII
O dolci sguardi, o parolette accorte
O dolci sguardi, o parolette accorte, or fia mai il dí chi vi riveggia et oda? O chiome bionde, di che l cor mannoda Amor, e cosí preso il mena a morte; o bel viso a me dato in dura sorte, di chio sempre pur pianga, e mai non goda; o chiuso inganno et amorosa froda, darmi un piacer che sol pena mapporte! E se talor da belli occhi soavi, ove mia vita, e l mio pensero alberga, forse mi vèn qualche dolcezza onesta, sùbito, a ciò chogni mio ben disperga e mallontane, or fa cavalli, or navi Fortuna, chal mio mal sempre è sí presta. |
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CCLIV
I pur ascolto, e non odo novella
I pur ascolto, e non odo
novella, de la dolce et amata mia nemica, né so chi me ne pensi o chi mi dica, sí l cor téma e speranza mi puntella. Nocque ad alcuna già lesser sí bella: questa più daltra è bella e più pudica: forse vuol Dio tal di vertute amica tôrre a la terra, e n ciel farne una stella, anzi un sole; e se questo è, la mia vita, i miei corti riposi e i lunghi affanni son giunti al fine. O dura dipartita, perché lontan mhai fatto da miei danni? La mia favola breve è già compita, e fornito il mio tempo a mezzo gli anni. |
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CCLV
La sera desiare, odiar laurora
La sera desiare, odiar laurora soglion questi tranquilli e lieti amanti; a me doppia la sera e doglia e pianti, la matina è per me più felice ora: ché spesso in un momento apron allora lun sole e laltro quasi duo levanti, di beltate e di lume sí sembianti, chanco il ciel de la terra sinnamora; come già fece, allor che primi rami verdeggiâr, che nel cor radice mhanno, per cui sempre altrui più che me stesso ami. Cosí di me due contrarie ore fanno; e chi macqueta è ben ragion chi brami, e téma et odi chi madduce affanno. |
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CCLVI
Far potessio vendetta di colei
Far potessio vendetta di colei che guardando, e parlando, mi distrugge, e per più doglia poi sasconde e fugge, celando li occhi, a me sí dolci e rei. Cosí li afflitti e stanchi spirti mei a poco a poco consumando sugge; e n sul cor, quasi fiero leon, rugge la notte allor quandio posar devrei. Lalma, cui Morte del suo albergo caccia, da me si parte; e di tal nodo sciolta, vassene pur a lei che la minaccia. Meravigliomi ben, salcuna volta, mentre le parla, e piange, e poi labbraccia, non rompe il sonno suo, sella lascolta. |
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CCLVII
In quel bel viso chi sospiro e bramo
In quel bel viso chi
sospiro e bramo, fermi eran li occhi desiosi e ntensi, quando Amor porse (quasi a dir: - che pensi? -) quella onorata man che secondamo. Il corpo preso ivi come pesce a lamo, onde a ben far per vivo essempio viensi, al ver non volse li occupati sensi, o come novo augello al visco in ramo; ma la vista privata del suo obietto, quasi sognando si facea far via, senza la qual è l suo bene imperfetto: lalma, tra luna e laltra gloria mia, quasi celeste, non so, novo diletto e qual strania dolcezza si sentia. |
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CCLVIII
Vive faville uscían de duo bei lumi
Vive faville uscían de duo bei
lumi vér me sí dolcemente folgorando, e parte dun cor saggio sospirando, dalta eloquenza sí soavi fiumi, che per il rimembrar par mi consumi qualor a quel dí torno, ripensando come venieno i miei spirti mancando al variar de suoi duri costumi. Lalma nudrita sempre in doglia e n pene, (quanto è l poder duna prescritta usanza!) contra l doppio piacer sí nferma fue, chal gusto sol del disusato bene, tremando or di paura or di speranza, dabandonarme fu spesso en tra due. |
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CCLIX
Cercato ho sempre solitaria vita
Cercato ho sempre solitaria vita (le rive il sanno, e le campagne e i boschi) per fuggir questi ingegni sordi e loschi, che la strada del cielo hanno smarrita: e se mia voglia in ciò fusse compita, fuor del dolce aere de paesi tòschi ancor mavria tra suoi bei colli foschi Sorga, cha pianger e cantar maita. Ma mia fortuna, a me sempre nemica, mi risospigne al loco ovio mi sdegno veder nel fango il bel tesoro mio. A la man, ondio scrivo, è fatta amica a questa volta; e non è forse indegno: Amor sel vide, e sal madonna et io. |
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CCLX
In tale stella duo belli occhi vidi
In tale stella duo belli occhi vidi, tutti pien donestade e di dolcezza, che presso a quei dAmor leggiadri nidi il mio cor lasso ogni altra vista sprezza. Non si pareggi a lei qual più saprezza, in qual chetade, in quai che strani lidi: non chi recò con sua vaga bellezza in Grecia affanni, in Troia ultimi stridi; no la bella romana che col ferro apre il suo casto e disdegnoso petto; non Polissena, Isifile et Argia. Questa eccellenzia è gloria, si non erro, grande a natura, a me sommo diletto, ma che vèn tardo, e sùbito va via. |
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CCLXI
Qual donna attende a gloriosa fama
Qual donna attende a gloriosa fama, di senno, di valor, di cortesia, miri fiso nelli occhi a quella mia nemica, che mia donna il mondo chiama. Come sacquista onor, come Dio sama, come è giunta onestà con leggiadria, ivi simpara, e qual è dritta via di gir al ciel, che lei aspetta e brama; ivi l parlar che nullo stile aguaglia, e l bel tacere, e quei cari costumi, che ngegno uman non po spiegar in carte. Linfinita bellezza, chaltrui abbaglia, non vi simpara; ché quei dolci lumi sacquistan per ventura e non per arte. |
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CCLXII
- Cara la vita, e dopo lei mi pare
- Cara la vita, e dopo lei mi pare vera onestà, che n bella donna sia. - - Lordine volgi: e non fûr, madre mia, senza onestà mai cose belle o care. E qual si lascia di suo onor privare, né donna è più, né viva; e se qual pria appare in vista, è tal vita aspra e ria via più che morte, e di più pene amare. Né di Lucrezia mi meravigliai, se non come a morir le bisognasse ferro, e non le bastasse il dolor solo. - Vengan quanti filosofi fûr mai a dir ciò: tutte lor vie fíen basse; e questuna vedremo alzarsi a volo. |
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CCLXIII
Arbor vittorïosa triumfale
Arbor vittoriosa trïumfale, onor dimperadori e di poeti, quanti mhai fatto dí dogliosi e lieti in questa breve mia vita mortale! Vera donna, et a cui di nulla cale, se non donor, che sovrogni altra mieti, né dAmor visco témi, o lacci, o reti, né nganno altrui contral tuo senno vale. Gentilezza di sangue, e laltre care cose tra noi, perle e robini et oro, quasi vil soma egualmente dispregi. Lalta beltà, chal mondo non ha pare, noia tè, se non quanto il bel tesoro di castità par chella adorni e fregi. |
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© 30 aprile 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
8 maggio 1996 - Ultimo aggiornamento: 11 febbraio 1998