Giuseppe Parini

Il Giorno


La Notte
vv. 1-350

(Il testo de La Notte è quello del Ms. più completo, l'Ambrosiano, IV, 17 [H], uno dei sette manoscritti che contengono testo, man mano che il poeta veniva lavorandoci sopra)

     Nè tu contenderai benigna Notte,
che il mio giovane illustre io cerchi e guidi
con gli estremi precetti entro al tuo regno.

      Già di tenebre involta e di perigli,
sola squallida mesta alto sedevi
su la timida terra. Il debil raggio
de le stelle remote e de’ pianeti,
che nel silenzio camminando vanno,
rompea gli orrori tuoi sol quanto è duopo
a sentirli assai più. Terribil ombra
giganteggiando si vedea salire
su per le case e su per l’alte torri
di teschi antiqui seminate al piede.
E upupe e gufi e mostri avversi al sole
svolazzavan per essa; e con ferali
stridi portavan miserandi augurj.
E lievi dal terreno e smorte fiamme
sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme
di su di giù vagavano per l’aere
orribilmente tacito ed opaco;
e al sospettoso adultero, che lento
col cappel su le ciglia e tutto avvolto
entro al manto sen gìa con l’armi ascose,
colpìeno il core, e lo strignean d’affanno.
 
           E fama è ancor che pallide fantasime
lungo le mura de i deserti tetti
spargean lungo acutissimo lamento,
cui di lontano per lo vasto buio
i cani rispondevano ululando.

      Tal fusti o Notte allor che gl’inclit’avi,
onde pur sempre il mio garzon si vanta,
eran duri ed alpestri; e con l’occaso
cadean dopo lor cene al sonno in preda;
fin che l’aurora sbadigliante ancora
li richiamasse a vigilar su l’opre
de i per novo cammin guidati rivi
e su i campi nascenti; onde poi grandi
fûro i nipoti e le cittadi e i regni.

      Ma ecco Amore, ecco la madre Venere,
ecco del gioco, ecco del fasto i Genj,
che trionfanti per la notte scorrono,
per la notte, che sacra è al mio signore.
Tutto davanti a lor tutto s’irradia
di nova luce. Le inimiche tenebre
fuggono riversate; e l’ali spandono
sopra i covili, ove le fere e gli uomini
da la fatica condannati dormono.
Stupefatta la Notte intorno vedesi
riverberar più che dinanzi al sole
auree cornici, e di cristalli e spegli
pareti adorne, e vesti varie, e bianchi
omeri e braccia, e pupillette mobili,
e tabacchiere preziose, e fulgide
fibbie ed anella e mille cose e mille.
Così l’eterno caos, allor che Amore
sopra posovvi e il fomentò con l’ale,
sentì il generator moto crearsi,
sentì schiuder la luce; e sé medesmo
vide meravigliando e i tanti aprirsi
tesori di natura entro al suo grembo.

      O de’ miei studj glorioso alunno,
tu seconda me dunque, or ch’io t’invito  
glorie novelle ad acquistar là dove
o la veglia frequente o l’ampia scena
i grandi eguali tuoi, degna de gli avi
e de i titoli loro e di lor sorte
e de i pubblici voti, ultima cura
dopo le tavolette e dopo i prandj
e dopo i corsi clamorosi occùpa.

      Or dove ahi dove senza me t’aggiri
lasso! da poi che in compagnia del sole
t’involasti pur dianzi a gli occhi miei?
Qual palagio ti accoglie; o qual ti copre
da i nocenti vapor ch’Espero mena
tetto arcano e solingo; o di qual via
l’ombre ignoto trascorri, ove la plebe
affrettando tenton s’urta e confonde?

      Ahimè, tolgalo il ciel, forse il tuo cocchio,
ove il varco è più angusto, il cocchio altrui
incontrò violento: e qual de i duo
retroceder convegna; e qual star forte,
dispùtano gli aurighi alto gridando.
Sdegna invitto garzon sdegna d’alzare
fra il rauco suon di Stentori plebei
tu’ amabil voce; e taciturno aspetta,
sia che a l’un piaccia rovesciar dal carro
lo suo rivale; o rovesciato anch’esso
perigliar tra le rote; e te per l’alto
de lo infranto cristal mandar carpone.
Ma l’avverso cocchier d’un picciol urto
pago sen fugge o d’un resister breve:
al fin libero andrai. Tu non pertanto
doman chiedi vendetta; alto sonare
fa il sacrilego fatto; osa pretendi,
e i tribunali minimi e i supremi
sconvolgi agita assorda: il mondo s’empia
del grave caso; e per un anno almeno
parli di te, de’ tuoi corsier, del cocchio
e del cocchiere. Di sì fatte cose
voi progenie d’eroi famosi andate
ne le bocche de gli uomini gran tempo.

      Forse ciarlier fastidioso indugia
te con la dama tua nel vuoto corso.
Forse a nova con lei gara d’ingegno
tu mal cauto venisti: e già la bella
teco del lungo repugnar s’adira;
già la man, che tu baci arretra, e tenta
liberar da la tua; e già minaccia
ricovrarsi al suo tetto, e quivi sola
involarse ad ognuno in fin che il sonno
venga pietoso a tranquillar suoi sdegni.
Tu in van chiedi mercè; di mente in vano
tu a lei te stesso sconsigliata incolpi:
ella niega placarse. Il cocchio freme
dell’alterno clamore; e il cocchio in tanto
giace immobil fra l’ombra: e voi sue care
gemme il bel mondo impaziente aspetta.
Ode il cocchiere al fin d’ambe le voci
un comando indistinto; e bestemmiando
sferza i corsieri; e via precipitando
ambo vi porta: e mal sa dove ancora.<>       Folle! di che temei? Sperdano i venti
ogni augurio infelice. Ora il mio eroe
fra l’amico tacer del vuoto corso
lieto si sta la fresca ora godendo
che dal monte lontan spira e consola.
Siede al fianco di lui lieta non meno
l’altrui cara consorte. Amor nasconde
la incauta face; e il fiero dardo alzando
allontana i maligni. O nume invitto,
non sospettar di me; ch’io già non vegno
invido esplorator, ma fido amico
de la coppia beata, a cui tu vegli.
E tu signor tronca gl’indugi. Assai
fûr gioconde quest’ombre, allor che prima
nacque il vago desio, che te congiunse
all’altrui cara sposa or son due lune.
Ecco il tedio a la fin serpe tra i vostri
così lunghi ritiri: e tempo e ormai
che in più degno di te pubblico agone
splendano i genj tuoi. Mira la Notte,
che col carro stellato alta sen vola
per l’eterea campagna; e a te col dito
mostra Tèseo nel ciel, mostra Polluce,
mostra Bacco ed Alcide e gli altri egregi,
che per mille d’onore ardenti prove
colà fra gli astri a sfolgorar salìro.
Svegliati a i grandi esempi; e meco affretta.

      Loco è, ben sai, ne la città famoso,
che splendida matrona apre al notturno
concilio de’ tuoi pari, a cui la vita
fora senza di ciò mal grata e vile.
Ivi le belle, e di feconda prole
inclite madri ad obliar sen vanno
fra la sorte del gioco i tristi eventi
de la sorte d’amore, onde fu il giorno
agitato e sconvolto. Ivi le grandi
Avole auguste e i genitor leggiadri
de’ già celebri eroi il senso e l’onta  
volgon de gli anni a rintuzzar fra l’ire
magnanime del gioco. Ivi la turba
de la feroce gioventù divina
scende a pugnar con le mutabil’arme
di vaghi giubboncei, d’atti vezzosi,
di bei modi del dir stamane appresi;
mentre la vanità fra il dubbio marte
nobil fûror ne’ forti petti inspira;
e con vario destin dando e togliendo
la combattuta palma alto abbandona
i leggeri vessilli all’aure in preda.

      Ecco che già di cento faci e cento
gran palazzo rifulge. Multiforme
popol di servi baldanzosamente
sale scende s’aggira. Urto e fragore
di rote di flagelli e di cavalli
che vengono che vanno, e stridi e fischi
di gente, che domandan che rispondono,
assordan l’aria all’alte mura intorno.
Tutto è strepito e luce. O tu, che porti
la dama e il cavalier dolci mie cure,
primo di carri guidator, qua volgi;
e fra il denso di rote arduo cammino
con olimpica man splendi; e d’un corso
subentrando i grand’atrj, a dietro lascia
qual pria le porte ad occupar tendea.
Quasi a propria virtù plauda al gran fatto
il generoso eroe: plauda la bella,
che con l’agil pensier scorre gli aurighi
de le dive rivali; e novi al petto
sente nascer per te teneri orgogli.

      Ma il bel carro s’ arresta: e a te signore,
a te prima di lei sceso d’un salto,
affidata la dea, lieve balzando,
col sonante calcagno il suol percote.
Largo dinanzi a voi fiammeggi e grondi,
sopra l’ara de’ numi ad arder nato,
il tesoro dell’api: e a lei da tergo
pronta di servi mano a terra proni
lo smisurato lembo alto sospenda:
somma felicità, che lei sepàra
da le ricche viventi, a cui per anco,
misere! sopra il suol l’estrema veste
sibila per la polvere strisciando.

      Ahi, se fresco sdegnuzzo i vostri petti
dianzi forse agitò, tu chino e grave
a lei porgi la destra; e seco innoltra,
quale Ibèro amador quando, raccolta
dall’un lato la cappa, contegnoso
guida l’amanza a diportarsi al vallo,
dove il tauro, abbassando i corni irati,
spinge gli uomini in alto; o gemer s’ode
crepitante giudeo per entro al foco.
Ma no; ché l’amorosa onda pacata
oggi siede per voi: e quanto è duopo
a vagarvi il piacer solo la increspa
una lieve aleggiando aura soave.
Snello adunque e vivace offri a la bella
mollemente piegato il destro braccio.
Ella la manca v’inserisca. Premi
tu col gomito un poco. Anch’ella un poco
ti risponda premendo; e a la tua lena
dolce peso a portar tutta si doni,
mentre a piccioli salti ambo affrettate
per le sonanti scale alto celiando.

      Oh come al tuo venir gli archi e le volte
de’ gran titoli tuoi forte rimbombano!
come a quel suon volubili le porte
cedono spalancate; ed a quel suono
degna superbia in cor ti bolle; e face
l’anima eccelsa rigonfiar più vasta!

      Entra in tal forma; e del tuo grande ingombra
gli spazj fortunati. Ecco di stanze
ordin lungo a voi s’apre. Altra di servi
infimo gregge alberga, ove tra lampi
di molteplice lume acceso e spento,
e fra sempre incostanti ombre schiamazza
il sermon patrio e la facezia e il riso
dell’energica plebe. Altra di vaghi
zazzerati donzelli è certa sede,
ove accento stranier misto al natio
molle susurra: e s’apparecchia in tanto
copia di carte e multiforme avorio,
arme l’uno a la pugna, indice l’altro
d’alti cimenti e di vittorie illustri.

      Al fin più interna, e di gran luce e d’oro
e di ricchi tapeti aula superba
sta servata per voi prole de’ numi.
Io, di razza mortale ignoto vate,
come ardirò di penetrar fra i cori
de’ semidei, ne lo cui sangue in vano
gocciola impura cercheria con vetro
indagator colui che vide a nuoto
per l’onda genitale il picciol uomo?
Qui tra i servi m’arresto; e qui da loro
nuove del mio signor virtudi ascose
tacito apprenderò. Ma tu sorridi
invisibil camena; e me rapisci
invisibil con te fra li negati
ad ognaltro profano aditi sacri.

      Già il mobile de’ seggi ordine augusto
sovra i tiepidi strati in cerchio volge:
e fra quelli eminente i fianchi estende
il grave canapè. Sola da un lato
la matrona del loco ivi si posa;
e con la man, che lungo il grembo cade
lentamente il ventaglio apre e socchiude.
Or di giugner è tempo. Ecco le snelle
e le gravi per molto adipe dame,
che a passi velocissimi s’affrettano
nel gran consesso. I cavalieri egregi
lor camminano a lato: ed elle, intorno
a la sede maggior vortice fatto
di sè medesme, con sommessa voce
brevi note bisbigliano; e dileguansi
dissimulando fra le sedie umìli.

      Un tempo il canapè nido giocondo
fu di risi e di scherzi, allor che l’ombre
abitar gli fu grato ed i tranquilli
del palagio recessi. Amor primiero
trovò l’opra ingegnosa. Io voglio, ei disse,
dono a le amiche mie far d’un bel seggio,
che tre ad un tempo nel suo grembo accoglia.
Così, qualor de gl’importuni altronde
volga la turba, sederan gli amanti
l’uno a lato dell’altro, ed io con loro.
Disse, percosse ambe le palme; e l’ali
aprì volando impaziente all’opra.
Ecco il bel fabbro lungo pian dispone
di tavole contesto, e molli cigne,
a reggerlo vi dà vaghe colonne,
che del silvestre Pane i piè leggieri
imitano scendendo; al dorso poi
v’alza patulo appoggio; e il volge a i lati,  
come far soglion flessuosi acanti,
o ricche corna d’Arcade montone.
Indi, predando a le vaganti aurette
l’ali e le piume, le condensa e chiude
in tumido cuscin, che tutta ingombri
la macchina elegante: e al fin l’adorna
di molli sete e di vernici e d’oro.
Quanto il dono d’Amor piacque a le belle!
Quanti pensier lor balenàro in mente!
Tutte il chiesero a gara: ognuna il volle
ne le stanze più interne: applause ognuna
a la innata energia del vago arnese,
mal repugnante e mal cedente insieme
sotto a i mobili fianchi. Ivi sedendo
si ritrasser le amiche; e da lo sguardo
de’ maligni lontane, a i fidi orecchi
si mormoràro i delicati arcani.
Ivi la coppia de gli amanti a lato
dell’arbitra sagace o i nodi strinse;
o calmò l’ira, e nuove leggi apprese.
Ivi sovente l’amador faceto
raro volume all’altrui cara sposa
lesse spiegando; e con sorrisi arguti
fe’ tra i fogli notar lepida imago.
Il fortunato seggio invidia mosse
de le sedie minori al popol vario:
e fama è che talora invidia mosse
anco a i talami stessi. Ah perchè mai
vinto da insana ambizione uscìo
fra lo immenso tumulto e fra il clamore
de le veglie solenni! Avvi due Genj
fastidiosi e tristi, a cui dier vita
l’Ozio e la vanità, che noti al nome
di Puntiglio e di noia, erran cercando
gli alti palagi e le vigilie illustri
de la prole de’ numi. Un ne le mani
porta verga fatale, onde sospende
ne’ miseri percossi ogni lor voglia;
e di macchine al par, che l’arte inventi
modera l’alme a suo talento e guida:
l’altro piove da gli occhi atro vapore;
e da la bocca sbadigliante esala
alito lungo, che sembiante a i pigri
soffi dell’austro, si dilata e volve,
e d’inane torpor le menti occùpa.
Questa del Canapè coppia infelice
allor prese l’imperio; e i risi e i giochi
ed Amor ne sospinse. Il trono è questo
ove le madri de le madri eccelse
de’ primi eroi esercitan lor tosse;
ove l’inclite mogli, a cui beata
rendon la vita titoli distinti
sbadigliano distinte. ah, se tu sai,
fuggi ratto o signor, fuggi da tanto
pernicioso influsso: e là fra i seggi
de le più miti dèe, quindi remoto
con l’ alma gioventù scherza e t’allegra.

 
 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998