Né del poeta temerai, che
beffi
con satira indiscreta i detti tuoi;
o che a maligne risa esponer osi
tuo talento immortal. All'alta mensa
voi l'innalzaste; e tra la vostra luce
beato l'avvolgeste; e de le Muse
a dispetto e d'Apollo, al sacro coro
l'ascriveste de' vati. Ei de la mensa
fece il suo Pindo: e guai a lui, se quindi
le dee sdegnate giù precipitando
con le forchette il cacciano! Meschino!
Più non poria su le dolenti membra
del suo infermo signor chiedere aita
da la buona Salute; o con alate
odi ringraziar, né tesser inni
al barbato figliuol di Febo intonso.
Più del giorno natale i chiari albori
salutar non potrebbe; e l'auree frecce
nomi-sempiternanti all'arco imporre,
non più gli urti festevoli, o sul naso
l'elegante scoccar d'illustri dita
fôra dato sperare. A lui tu dunque
non disdegna, o signor, volger talora
tu' amabil voce: a lui canta i versi
del delicato cortigian d'Augusto,
o di quel che tra Venere e Lieo
pinse Trimalcion; la Moda impone,
ch'Aarbitro o Flacco a i begli spirti ingombri
spesso le tasche. Oh come il vate amico
te udrà, maravigliando, il sermon prisco
or sciogliere or frenar qual più ti piace:
e per la sua faretra, e per li cento
destrier focosi che in Arcadia pasce,
ti giurerà che di Donato al paro
il difficil sermone intendi e gusti. E questo ancor
di rammentar fia tempo
i novi sofi, che la Gallia o l'Alpe
ammirando persegue: e dir qual arse
de' volumi infelici, o andò macchiato
d'infame nota; e quale asilo appresti
filosofia al morbido Aristippo
del secol nostro; e qual ne appresti al novo
Diogene dell'auro sprezzatore,
e della opinione de' mortali.
Lor volumi famosi a te discesi
per calle obliquo, e compri a gran tesoro
o da cortese man prestati, fiéno
lungo ornamento a lo tuo speglio innante.
Poi che brevi gli avrai scorsi momenti
ornandoti o la man garrendo indotta
del parrucchier; poi che t'avran più notti
conciliato il facil sonno, al fine
anco a lo speglio passeran di lei
che comuni ha con te studi e liceo,
ove togato in cattedra elegante
siede interprete Amore. Or fia la mensa
il favorevol loco ove al sol esca
de' brevi studi il glorioso frutto.
Chi por freni oserà d'inclita stirpe
al'animo, alla mente? Il vulgo tema
oltre natura: e quei, cui dona il vulgo
titol di saggio, mediti romito
il ver celato; e alfin cada adorando
la sacra nebbia che lo avvolge intorno.
Ma tu, come sublime aquila vola
dietro ai sofi novelli. Alto dia plauso
tutta la mensa al tuo poggiare audace.
Te con lo sguardo e con l'orecchio beva
la dama dalle tue labbra rapita:
con cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente: e il «calcolo» e la «massa»
e la «inversa ragion» sonino ancora
su la bocca amorosa. Or più non odia
de le scole il sermone Amor maestro:
e l'accademia e i portici passeggia
de' filosofi al fianco; e con la molle
mano accarezza le cadenti barbe.
Ma guàrdati, o signor, guàrdati, oh Dio!
dal tossico mortal che fuora esala
dai volumi famosi; e occulto poi
sa, per le luci penetrato all'alma,
gir serpendo ne' cori; e con fallace
lusinghevole stil corromper tenta
il generoso de le stirpi orgoglio
che ti scevra dal vulgo. Udrai da quelli,
che ciascun de' mortali all'altro è pari;
che caro a la Natura e caro al cielo
è non manco di te colui che regge
i tuoi destrieri e quei ch'ara i tuoi campi;
e che la tua pietade o il tuo rispetto
devrien fino a costor scender vilmente.
Folli sogni d'infermo! Intatti lascia
così strani consigli: e solo attigni
ciò che la dolce voluttà rinfranca,
ciò che scioglie i desiri, e ciò che nudre
la libertà magnanima. Tu questo
reca solo a la mensa: e sol da questo
cerca plausi ed onor. Così dell'api
l'industrioso popolo ronzando,
gira di fiore in fior, di prato in prato;
e i dissirnili sughi raccogliendo,
tesoreggia nell'arnie: un giorno poi
ne van colme le pàtere dorate
sopra l'ara de' numi; e d'ogni lato
ribocca la fragrante alma dolcezza.
Or versa pur dall'odorato grembo
i tuoi doni, o Pomona; e l'ampie colma
tazze che d'oro e di color diversi
fregia il sassone industre; E tu dai greggi;
rustica Pale coronata vieni
di melissa olezzante e di ginebro;
e co' lavori tuoi di presso latte
declina vergognando a chi ti chiede:
ma deporli non osa. In su la mensa
porien, deposti, le celesti nari
punger ahi troppo; e con ignobil senso
gli stomachi agitar. Soli torreggino
sul ripiegato lino in varia forma
i latti tuoi cui di serbato verno
assodarono i sali, e fecer atti
a dilettar con sùbito rigore
di convitato cavalier le labbra.
Tu, signor, che farai poi che la dama
con la mano e col piè lieve puntando
move in giro i begli occhi; e altrui dà cenno,
che di sorger è tempo? In piè d'un salto
balza primo di tutti; a lei soccorri,
la seggiola rimovi, la man porgi;
guidala in altra stanza, e più non soffri,
che lo stagnante de le dapi odore
il célabro le offenda. Ivi con gli altri
gratissimo vapor t'invita, ond'empie
l'aere il caffè che preparato fuma
in tavola minor, cui vela ed orna
indica tela. Ridolente gomma
quinci arde in tanto; e va lustrando e purga
l'aere profano, e fuor caccia dei cibi
le volanti reliquie. Egri mortali,
che la miseria e la fidanza un giorno
sul meriggio guidâro a queste porte;
tumultuosa, ignuda, atroce folla
di tronche membra, e di squallide facce,
e di bare e di grucce, or via da lunge
vi confortate; e per le alzate nari
del divin prandio il néttare beete
che favorevol aura a voi conduce:
ma non osate i limitari illustri
assediar, fastidioso offrendo
spettacolo di mali a i nostri eroi.
E a te, nobile garzon, tazza intanto
apprestar converrà, che i lenti sorsi
ministri poi de la tua dama a i labbri:
e memore avvertir s'ella più goda,
o sobria o liberal, temprar col dolce
la bollente bevanda; o se più forse
l'ami così, come sorbir la gode
barbara sposa, allor che, molle assisa
ne' broccati di Persia, al suo signore
con le dita pieghevoli il selvoso
mento vezzeggia; e, la svelata fronte
alzando, il guarda; e quelli sguardi han possa
di far che a poco a poco di man cada
al suo signore la fumante canna.
Mentre i labbri e la man v'occupa e scalda
l'odoroso licor, sublimi cose cose
macchinerà tua infaticabil mente.
Quale oggi coppia di corsier de' il carro
condur de la tua bella; o l'alte moli
che per le fredde piagge educa il cimbro;
o quei che abbeverò la Drava; o quelli
che a le vigili guardie un dì fuggîro
de la stirpe campana: oggi qual meglio
si convegna ornamento ai dorsi alteri;
se semplici e negletti, o se pomposi
di ricche nappe e variate stringhe
andran su l'alto collo i crin volando,
e sotto a cuoi vermigli e ad auree fibbie
ondeggeranno li ritondi fianchi.
Quale oggi cocchio trionfanti al corso
vi porterà: se quel cui l'oro copre
fulgido al sole; o de' vostr'alti aspetti
per cristallo settemplice concede
al popolo bearsi; o quel che tutto,
caliginoso e tristo e a la marmorea
tomba simil che de' vostr'avi chiude
i cadaveri eccelsi, ammette a pena
cupido sguardo altrui. Cotanta mole
di cose a un tempo sol nell'altoingegno
tu verserai; poi col supremo auriga
arduo consiglio ne terrai, non senza
qualche lieve garrir con la tua dama.
Servi l'auriga ogni tua legge: e in tanto
altra cura subentri. Or mira i prodi
compagni tuoi che, ministrato a pena
dolce conforto di vivande a i membri,
già scelto il campo e già distinti in bande,
preparansi giocando a fieri assalti.
Così a queste, o signore, illustre inganno
ore lente si faccia. E s'altri ancora
vuole Amor che s'inganni; altronde pungi
la turba convitata; e tu da un lato
sol con la dama tua quel gioco eleggi
che due soltanto a un tavoliere ammetta.
Già di ninfa gentil tacito ardea
dinsoffribile ardor misero amante,
cui null'altra eloquenza usar con lei,
fuor che quella degli occhi era concesso;
poi che il rozzo marito, ad Argo eguale,
vigilava mai sempre; e, quasi biscia,
ora piegando, or allungando il collo,
ad ogni verbo con gli orecchi acuti
era presente. Oimè, come con cenni,
o con notate tavole giammai
o con servi sedotti, a la sua bella
chieder pace ed aita? Ogni d'Amore
stratagemma finissimo vincea
la gelosìa del rustico marito.
Che più lice sperare? Al tempio ei corre
del nume accorto che le serpi annoda
all'aurea verga, e il capo e le calcagna
d'ali fornisce. A lui si prostra umìle;
e in questi detti, lagrimando, il prega:
- O propizio agli amanti, o buon figliuolo
de la candida Maia, o tu che d'Argo
deludesti i cent'occhi, e a lui rapisti
la guardata giovenca, i preghi accogli
d'un amante infelice; e a lui concedi,
se non gli occhi ingannar, gli orecchi almeno
d'un marito importuno. - Ecco si scote
il divin simulacro, a lui s'inchina,
con la verga pacifica la fronte
gli percote tre volte: e il lieto amante
sente dettarsi ne la mente un gioco
che i mariti assordisce. A lui diresti,
che l'ali del suo piè concesse ancora
il supplicato dio;, cotanto ei vola
velocissimamente a la sua donna.
Là bipartita tavola prepara
ov'ebano, ed avorio intarsiati
regnan sul piano, e partono alternando
in due volte sei case ambo le sponde.
Quindici nere d'ebano rotelle
e d'avorio bianchissimo altrettante
stan divise in due parti; e moto e norma
da duo dadi gittati attendon, pronte
gli spazi ad occupar, e quinci e quindi
pugnar contrarie. Oh cara a la Fortuna
quella che corre innanzi all'altre; e seco
trae la compagna, onde il nemico assalto
forte sostenga! Oh giocator felice
chi pria l'estrema casa occupa, e l'altro
de gli spazi a sé dati ordin riempie
con doppio segno! Ei trionfante allora
da la falange il suo rival combatte;
e in proprio ben rivolge i colpi ostili!
Al tavolier s'assidono ambidue,
l'amante cupidissimo e la ninfa.
Quella una sponda ingombra, e questi l'altra.
Il marito col gomito s'appoggia
all'un de' lati: ambi gli orecchi tende,
e sotto al tavolier di quando in quando
guata con gli occhi. Or l'agitar de i dadi
entro a' sonanti bossoli comincia;
ora il picchiar de' bossoli sul piano;
ora il vibrar, lo sparpagliar, l'urtare,
il cozzar de i duo dadi; or de le mosse
rotelle il martellar. Torcesi e freme
sbalordito il geloso: a fuggir pensa,
ma rattienlo il sospetto. Il fragor cresce
il rombazzo, il frastono, il rovinio.
Ei più regger non puote; in piedi balza,
e con ambe le man tura gli orecchi.
Tu vincesti, o Mercurio. Il cauto amante
poco disse, e la bella intese assai.
Tal ne la ferrea età, quando gli sposi
folle superstizion chiamava all'arme,
giocato fu. Ma poi che l'aureo venne
secol di novo; e che del prisco errore
si spogliâro i mariti, al sol diletto
la dama e il cavalier volsero il gioco,
che la necessità trovato avea.
Fu superfluo il romor: di molle panno
la tavola vestissi, e de' patenti
bossoli 'l sen: lo schiamazzio molesto
tal rintuzzossi; e durò al gioco il nome
che ancor l'antico strepito dinota. |
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