Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Meriggio
(secondo la lezione del Ms. Ambrosiano, IV, 9 [F])
vv. 594-892

      Ma chi è quell'eroe che tanta parte
colà ingombra di loco; e mangia e fiuta
e guata; e de le altrui fole ridendo
sì superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
mamme del suo palato! oh da' mortali
invidiabil anima che siede
tra l'ammiranda lor testura, e quindi
l'ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi più saggio di lui penétra e intende
la natura migliore? o chi più industre
converte a suo piacer l'aria, la terra,
e il ferace di mostri ondoso abisso?
Qualora ei viene al desco altrui, paventano
suo gusto inesorabile le smilze
ombre degli avi, che per l'aria lievi
aggiransi vegliando ancor intorno
a i ceduti tesori; e piangon, lasse!
le mal spese vigilie, i sobri pasti,
le in preda all'aquilon case, le antique
digiune rozze, gli scommessi cocchi
forte assordanti per stridente ferro
le piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl'in van nudati rustici, le fami
mal desiate, e de le sacre toghe
l'armata in vano autorità sul vulgo.

      L'altro vicin chi fia? Per certo il caso
congiunse accorto i due leggiadri estremi
perché doppio spettacolo campeggi;
e l'un dell'altro al par più lustri e splenda.
Falcato dio degli orti a cui la greca
Làmsaco d'asinelli offrir solea
vittima degna, al giovane seguace
del sapiente di Samo i doni tuoi
reca sul desco. Egli ozioso siede
aborrenndo le carni; le narici
schifo raggrinza; e in nauseanti rughe
ripiega i labbri; e poco pane in tanto
rumina lentamente. Altro giammai
a la squallida inedia eroe non seppe
durar sì forte: né lassezza il vinse
né deliquio giammai né febbre ardente;
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel bel mondo
onor di filosofico talento!
Qual anima è volgar la sua pietade
serbi per l'uomo; e facile ribrezzo
déstino in lui del suo simìle i danni,
o i bisogni o le piaghe. Il cor di questo
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a più lontano limite sospinge.
- Péra colui che prima osò la mano
armata alzar su l'innocente agnella,
e sul placido bue: né il truculento
cor gli piegâro i teneri belati,
né i pietosi mugiti, né le molli
lingue lambenti tortuosamente
la man che il loro fato, ahimè! stringea. -
Tal ei parla, o signor: ma sorge in tanto
a quel pietoso favellar, da gli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta,
pari a le stille tremule, brillanti,
che a la nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco, entro commossi
al tiepido spirar de le prim'aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con gli eburnei denti
segnò di lieve nota: e questi audace
col sacrilego piè lanciolla: ed ella
tre volte rotolò; tre volte scosse
lo scompigliato pelo, e da le vaghe
nari soffiò la polvere rodente:
indi i gemiti alzando: Aita, aita,
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l'impietosita Eco rispose:
e dall'infime chiostre i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide, tremanti
precipitâro. Accorse ognuno; il volto
fu d'essenze spruzzato a la tua dama:
ella rinvenne al fine. Ira e dolore
l'agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo; e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le Grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d'arcani ufici. Ei nudo andonne
de le assise spogliato onde pur dianzi
era insigne a la plebe: e in van novello
signor sperò; ché le pietose dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiâr l'autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via, spargendo
al passeggero inutili lamenti:
e tu, vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.

      Né senza i miei precetti o senza scorta
inerudito andrai, signor, qualora
il perverso destin dal fianco amato
t'allontani a la mensa. Avvien sovente,
che con l'aio seguace o con l'amico
un grande illustre or l'Alpi, or l'oceàno
varchi e scenda in Ausonia, orribil ceffo
per natura o per arte; a cui Ciprigna
ròse le nari, o sale impuro e crudo
snudò i denti ineguali. Ora il distingue
risibil gobba, or furiosi sguardi,
obliqui o loschi: or rantoloso avvolge
fra le tumide fauci ampio volume
di voce che gorgoglia, ed esce al fine
come da inverso fiasco onda che goccia;
or d'avi, or di cavalli, ora di Frini
instancabile parla; or de' celesti
le folgori deride. Aurei monili,
e nastri e gemme, gloriose pompe,
l'ingombran tutto; e gran titolo suona
dinanzi a lui. Qual più tra noi risplende
inclita stirpe, ch'onorar non voglia
d'un ospite sì degno i lari suoi?
Ei però col compagno ammessi fiéno
di Giuno a ifianchi: e tu lontan da lei
co' Silvani capripedi n'andrai
presso al marito; e pranzerai negletto
col popol folto de gli dèi minori.

      Ma negletto non già da gli occhi andrai
de la dama gentil, che, a te rivolti,
incontreranno i tuoi. L'aere a quell'urto
arderà di faville: e Amor con l'ali
l'agiterà. Nel fortunato incontro
i messagger pacifici dell'alma
cambieran lor novelle: e alternamente
spinti, rifluiranno a voi con dolce
delizioso tremito sui cori.
Allor tu le ubbidisci; o se t'invita
le vivande a gustar, che a lei vicine
l'ordin dispose, o se a te chiede invece
quella che innanzi a te sue voglie pugne
non col soave odor, ma con le nove
leggiadre forme onde abbellir la seppe
dell'ammirato cucinier la mano.
Con la mente si pascono le dive
sopra le nubi del brillante Olimpo:
e lor labbra immortali irrita e move
non la materia, ma il divin lavoro.

      Né allor men destro ad ubbidir sarai
che di rado licor la bella strigne
colmo bicchiere, a lo cui orlo intorno
serpe dorata striscia; e par che dica:
- Lungi, o labbra profane: a i labbri solo
de la diva che qui soggiorna e regna
è il castissimo calice serbato:
né cavalier con alito maschile
osi appannarne il nitido cristallo;
né dama convitata unqua presuma
i labbri apporvi ; e sien pur casti e puri,
e quanto esser può mai cari all'amore. -

      Tu ai cenni de' bei guardi e de la destra
che reggendo il bicchier sospesa ondeggia,
affettuoso attendi. I lumi tuoi,
di gioia sfavillando, accolgan pronti
il brindisi segreto: e ti prepara
in simil modo a tacita risposta.

      Ecco d'estro già punta, ecco la Musa
brindisi grida all'uno e all'altro amante;
all'altrui fida sposa a cui se' caro,
e a te, signor, sua dolce cura e nostra.
Quale annoso licor Lieo vi mesce,
tale Amore a voi mesca eterna gioia,
non gustata al marito, e da coloro
invidiata che gustata l'hanno.
Veli con l'ali sue sagace oblio
le alterne infedeltà che un cor dall'altro
porièno un giorno separar per sempre:
e solo agli occhi vostri Amor discopra
le alterne infedeltà che in ambo i petti
ventilar ponno le cedenti fiamme.
Di sempiterno indissolubil nodo
cento auguri per voi vano cantore:
nostra nobile Musa a voi desia
sol quanto piace a voi durevol nodo.
Duri fin che a voi piace; e non si sciolga
senza che fama sopra l'ale immense
tolga l'alta novella, e grande n'empia
col reboato dell'aperta tromba,
l'ampia cittade, e dell'Enotria i monti
e le piagge sonanti, e, s'esser puote,
la bianca Teti e Guadiana e Tule.
Il mattutino gabinetto, il corso,
il teatro la mensa in vario stile
ne ragionin gran tempo. Ognun ne chieda
il dolente marito; ed ei dall'alto
la lamentabil favola cominci.
Tal su le scene, ove agitar solea
l'ombre tinte di sangue Argo piagnente,
squallido messo al palpitante coro
narrava, come furiando Edipo
al talamo sen corse incestuoso,
come le porte rovescionne, e come
al sùbito spettacolo ristette,
quando vicina del nefando letto
vide in un corpo solo e sposa e madre
pender strozzata; e del fatale uncino
le mani armosse; e con le proprie mani
a sé le care luci da la testa
con le man proprie, misero! strapposse.

      Ma già volge al suo fine il pranzo illustre:
già Como e Dionisio al desco intorno
rapidissimamente in danza girano
con la libera Gioia. Ella saltando
or questo or quel de' convitati lieve
tocca col dito; e al suo toccar scoppiettano
brillanti vivacissime scintille
ch'altre ne destan poi. Sonan le risa:
il clamoroso disputar s'accende:
la nobil vanità punge le menti:
e l'amor di sé sol, baldo scorrendo,
porge un scettro a ciascuno; e dice: - Regna. -
Questi i concili di Bellona, e quegli
penetra i tempii de la Pace. Un guida
i condottieri: a i consiglier consiglio
l'altro dona; e divide e capovolge
con seste ardite il pelago e la terra.
Qual di Pallade l'arti e de le Muse
giudica e libra; qual ne scopre acuto
l'alte cagioni; e i gran princìpi abbatte
cui creò la natura, e che tiranni
sopra il senso degli uomini regnâro
gran tempo in Grecia, e nel paese tosco
rinacquer poi più poderosi e forti.

      Cotanto adunque di saper fia dato
a nobil capo? Oh letti, oh specchi, oh mense,
oh corsi, oh scene, oh feudi, oh sangue, oh avi,
che per voi non s'apprende? Or tu, signore,
co' voli arditi del felice ingegno
sopra ognaltro t'innalza. Il campo è questo
ove splender più déi. Nulla scienza,
sia quant'esser mai puote arcana e grande,
ti spaventi giammai. Se cosa udisti,
o leggesti al mattino, onde tu deggia
gloria sperar; qual cacciator che segue
circuendo la fera, e sì la guida
e volge di lontan, che a poco a poco
a le insidie s'accosta e dentro piomba;
tal tu il sermone altrui volgi sagace
fin che là cada over spiegar ti giove
il tuo novo tesoro. E se pur ieri
scesa in Italia peregrina forma
del parlar t'è già nota, allor tu studia
materia espor che, favellando, ammetta
la nova gemma: e poi che il punto hai còlto,
ratto la scopri; e sfolgorando abbaglia
qual altra è mente che superba andasse
di squisita eloquenza a i gran convivi.
In simil guisa il favoloso mago
che fe' gran tempo desiar l'amante
all'animosa vergin di Dordona,
da i cavalier che l'assalien bizzarri
oprar lasciava ogni lor possa ed arte;
poi ecco, in mezzo a la terribil pugna,
strappava il velo a lo incantato scudo;
e quei, sorpresi dal bagliore immenso
ciechi spingea e soggiogati a terra.

      Talor di Zoroastro o d'Archimede
discepol sederà teco a la mensa.
Tu a lui ti volgi, seco lui ragiona,
suo linguaggio ne apprendi; e quello poi,
qual se innato a te fosse, alto ripeti.
Né paventar quel che l'antica fama
narra de' lor compagni. Oggi la diva
Urania il crin compose: e gl'irti alunni
smarriti, vergognosi, balbettanti
trasse da le lor cave, ove già tempo
col profondo silenzio e con la notte
tenean consiglio: indi le servili braccia
fornien di leve onnipotenti, ond'alto
salisser poi piramidi, obelischi
ad eternar de' popoli superbi
i gravi casi: oppur con feri dicchi
stavan contro i gran letti; o di pignone
audace armati spaventosamente
cozzavan con la piena, e giù a traverso
spezzate, rovesciate dissipavano
le tetre corna, decima fatica
d'Ercole invitto. Ora i selvaggi amici
Urania ingentilì. Baldi e leggiadri
nel gran mondo li guida, o tra il clamore
de' frequenti convivi, oppur tra i vezzi
de' gabinetti, ove a la docil dama,
e al caro cavalier mostran qual via
Venere tenga; e in quante forme o quali
suo volto lucidissimo si cangi.

 
595
 
 
 
 
600
 
 
 
 
605
 
 
 
 
610
 
 
 
 
615
 
 
 
 
 
620
 
 
 
 
625
 
 
 
 
630
 
 
 
 
635
 
 
 
 
640
 
 
 
 
645
 
 
 
 
650
 
 
 
 
655
 
 
 
 
660
 
 
 
 
665
 
 
 
 
670
 
 
 
 
675
 
 
 
 
680
 
 
 
 
685
 
 
 
 
690
 
 
 
 
695
 
 
 
 
 
700
 
 
 
 
705
 
 
 
 
710
 
 
 
 
715
 
 
 
 
720
 
 
 
 
725
 
 
 
 
 
730
 
 
 
 
735
 
 
 
 
740
 
 
 
 
745
 
 
 
 
 
750
 
 
 
 
755
 
 
 
 
 
760
 
 
 
 
 
765
 
 
 
 
770
 
 
 
 
775
 
 
 
 
780
 
 
 
 
785
 
 
 
 
790
 
 
 
 
795
 
 
 
 
800
 
 
 
 
805
 
 
 
 
810
 
 
 
 
815
 
 
 
 
820
 
 
 
 
 
825
 
 
 
 
830
 
 
 
 
 
835
 
 
 
 
840
 
 
 
 
845
 
 
 
 
850
 
 
 
 
855
 
 
 
 
860
 
 
 
 
 
865
 
 
 
 
870
 
 
 
 
875
 
 
 
 
880
 
 
 
 
885
 
 
 
 
890
 


Biblioteca

Indice

Fausernet

© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe Bonghi @mail.fausernet.novara.it

Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998