Ardirò ancor tra i desinari
illustri
sul meriggio innoltrarmi umil cantore,
poi che troppa di te cura mi punge,
signor, ch'io spero un dì veder maestro
e dittator di graziosi modi
all'alma gioventù che Italia onora. Tal, fra le
tazze e i coronati vini,
onde all'ospite suo fe' lieta pompa
la punica regina, i canti alzava
Jopa crinito: e la regina in tanto
dal bel volto straniero iva beendo
l'oblivion del misero Sicheo:
e tale, allor che l'orba Itaca in vano
chiedea a Nettun la prole di Laerte,
Femio s'udìa co' versi e con la cetra
la facil mensa rallegrar de' Proci
cui dell'errante Ulisse i pingui agnelli
e i petrosi licori, e la consorte
convitavano in folla. Amici or china,
giovin signore, al mio cantar gli orecchi
or che tra nuove Elise, e novi Proci,
e tra fedeli ancor Penelopee,
ti guidano a la mensa i versi miei.
Già dall'alto del cielo il sol fuggendo
verge all'occaso: e i piccoli mortali
dominati dal tempo escon di novo
a popolar le vie ch'all'oriente
spandon ombra già grande: a te null'altro
dominator fuor che te stesso è dato,
stirpe di numi: e il tuo meriggio è questo.
Alfin di consigliarsi al fido speglio
la tua dama cessò. cento già volte
o chiese o rimandò novelli ornati;
e cento ancor de le agitate ognora
damigelle or con vezzi or con garriti
rovesciò la fortuna. A sé medesma
quante volte convien piacque e dispiacque;
e quante volte è d'uopo a sé ragione
fece e a' suoi lodatori. I mille intorno
dispersi arnesi alfin raccolse in uno
la consapevol del suo cor ministra;
alfin velata di legger zendado
è l'ara tutelar di sua beltate;
e la seggiola sacra, un po' rimossa,
languidetta l'accoglie. Intorno a lei
pochi giovani eroi van rimembrando
i cari lacci altrui, mentre da lunge
ad altra intorno i cari lacci vostri
pochi giovani eroi van rimembrando.
Il marito gentil queto sorride
a le lor celie; o s'ei si cruccia alquanto,
del tuo lungo tardar solo si cruccia.
Nulla però di lui cura te prenda
oggi, o signore, e s'ei del vulgo a paro
prostrò l'anima imbelle, e non sdegnosse
di chiamarsi marito, a par del vulgo
senta la fame esercitargli in petto
lo stimol fier degli oziosi sughi
avidi d'esca: o se a i mariti alcuno
d'anima generosa impeto resta,
ad altra mensa il piè rivolga; e d'altra
dama al fianco s'assida, il cui marito
pranzi altrove lontan d'un'altra al fianco
che abbia lungi lo sposo: e così nuove
anella intrecci a la catena immensa
onde, alternando, Amor l'anime avvince.
Pur sia che vuol; tu baldanzoso innoltra
ne le stanze più interne: ecco precorre
per annunciarti al gabinetto estremo
il noto scalpiccìo de' piedi tuoi.
Già lo sposo t'incontra. In un baleno
sfugge dall'altrui man l'accorta mano
de la tua dama: e il suo bel labbro in tanto
ti apparecchia un sorriso. Ognun s'arretra
che conosce tuoi dritti, e si conforta
con le adulte speranze, a te lasciando
libero e scarco il più beato seggio.
Tal, colà dove infra gelose mura
Bisanzio ed Ispaàn guardano il fiore
de la beltà che il popolato Egeo
manda, e l'armeno e il tartaro e il circasso
per delizia d'un solo, a bear entra
l'ardente sposa il grave munsulmano.
Nel maestoso passeggiar gli ondeggiano
le late spalle, e su per l'alta testa
le avvolte fasce: dall'arcato ciglio
intorno ei volge imperioso il guardo;
e vede al suo apparire umil chinarsi,
e il piè ritrar l'effeminata, occhiuta
turba, che d'alto sorridendo ei spregia.
Ora comanda, o signor, che tutte a schiera
vengan le grazie tue; sì che a la dama
quanto elegante esser più puoi ti mostri.
Tengasi al fianco la sinistra mano
sotto il breve giubbon celata; e l'altra
sul finissimo lin posi, e s'asconda
vicino al cor; sublime alzisi il petto,
sorgan gli omeri entrambi, a lei converso
scenda il duttile collo; a i lati un poco
stringansi i labbri: vêr lo mezzo acuti
escano alquanto, e da la bocca poi
compendiata in guisa tal, sen esca
un non inteso mormorio. Qual fia
che a tante di beltade arme possenti
schermo si opponga? Ecco, la destra ignuda
già la bella ti cede. Or via, la strigni
e con soavi negligenze al labbro
qual tua cosa l'appressa; e cader lascia
sovra i tiepidi avori un doppio bacio.
Siedi fra tanto; e d'una man istrascica
più più a lei vicin la seggioletta. Ognaltro
tacciasi; ma tu sol, curvato alquanto,
seco susurra ignoti detti a cui
concordin vicendevoli sorrisi,
e sfavillar di cupidette luci
che amor dimostri, o che il somigli almeno.
Ma rimembra, o signor, che troppo nuoce
negli amorosi cor lunga e ostinata
tranquillità. Nell'oceàno ancora
perigliosa è la calma: ahi quante volte
dall'immobile prora il buon nocchiere
invocò la tempesta! e sì crudele
soccorso ancor gli fu negato; e giacque
affamato, assetato, estenuato,
dal venenoso aere stagnante oppresso
fra le inutili ciurme al suol languendo.
Dunque a te giovi de la scorsa notte
ricordar le vicende; e con obliqui
motti pugnerla alquanto, o se nel volto
paga più che non suole accôr fu vista
il novello straniero; e co' bei labbri
semiaperti aspettar, quasi marina
conca, la soavissima rugiada
de' novi accenti: o se cupida troppo
col guardo accompagnò di loggia in loggia
l'almo alunno di Marte, idol vegliante
de' feminili voti, a la cui chioma
col lauro trionfal mille s'avvolgono
e mille frondi dell'idalio mirto.
Colpevole o innocente, allor la bella
dama improviso adombrerà la fronte
d'un nuvoletto di verace sdegno
o simulato; e la nevosa spalla
scoterà un poco; e volgeransi alfine
gli altri a bear le sue parole estreme.
Fors'anco rintuzzar di tue rampogne
saprà l'agrezza; e noverarti a punto
le visite furtive a i cocchi e a i tetti
e all'alte logge de le mogli illustri
di ricchi popolari, a cui sovente,
scender per calle dal piacer segnato
la maestà di cavalier non teme.
Felice te, se mesta e disdegnosa
tu la guidi a la mensa; o se tu puoi
solo piegarla a tollerar de' cibi
la nausea universal! Sorridan pure
a le vostre dolcissime querele
i convitati; e l'un l'altro percota
col gomito maligno: ah non di meno
come fremon lor alme! e quanta invidia
ti portan, te mirando unico scopo
di sì bell'ire! Al solo sposo è dato
in cor nodrir magnanima quiete,
mostrar nel volto ingenuo riso, e tanto
docil fidanza ne le innocue luci.
O tre fiate avventurosi e quattro
voi del nostro buon secolo mariti,
quanto diversi da' vostr'avi! Un tempo
uscìa d'Averno con viperei crini,
con torbid'occhi irrequieti e fredde
tenaci branche, un indomabil mostro
che ansando e anelando intorno giva
a i nuziali letti; e tutto empiea
di sospetto e di fremito e di sangue.
Allor gli antri domestici, le selve,
l'onde, le rupi alto ulular s'udièno
di feminili strida. Allor le belle
dame, con mani incrocicchiate e luci
pavide al ciel, tremando, lagrimando,
tra la pompa feral de le lugùbri
sale, vedean dal truce sposo offrirsi
le tazze attossicate o i nudi stili.
Ahi pazza Italia! Il tuo furor medesmo
oltre l'alpe, oltre il mar destò le risa
presso agli emuli tuoi che di gelosa
titol ti diêro; e t'è serbato ancora
ingiustamente. Non di cieco amore
vicendevol desire, alterno impulso,
non di costume simiglianza or guida
giovani incauti al talamo bramato;
ma la Prudenza co i canuti padri
siede librando il molto oro e i divini
antiquissimi sangui: e allor che l'uno
bene all'altro risponde, ecco Imeneo
scoter sue faci; e unirsi al freddo sposo,
di lui non già, ma de le nozze amante
la freddissima vergine che in core
già i riti volge del bel mondo; e lieta
l'indifferenza maritale affronta.
Così non fien de la crudel Megera
più temuti gli sdegni. Oltre Pirene
contenda or pur le desiate porte
a i gravi amanti; e di femminee risse
turbi Oriente: Italia oggi si ride
di quello ond'era già derisa; tanto
puote una sola età volger le menti.
Ma già rimbomba d'una in altra sala
signore, il nome tuo. Di già l'udîro
l'ime officine ove al volubil tatto
de gl'ingenui palati arduo s'appresta
solletico che molle i nervi scota,
e varia seco voluttà conduca
fino al core dell'alma. In bianche spoglie
affrettansi a compir la nobil opra
gravi ministri: e lor sue leggi detta
una gran mente del paese uscita
ove Colberto e Risceliù fûr chiari.
Forse con tanta maestade in fronte
presso a le navi ond'Ilio arse e cadeo,
a gli ospiti famosi il grande Achille
disegnava la cena: e seco intanto
le vivande cocean su i lenti fochi
Pàtroclo fido e il guidator di carri
Automedonte. O tu, sagace mastro
di lusinghe al palato, udrai fra poco
sonar le lodi tue dall'alta mensa.
Chi fia che ardisca di trovar mai fallo
nel tuo lavoro? Il tuo signor fia tosto
campion de le tue glorie; e male a quanti
cercator di conviti oseran motto
pronunciar contro a te; ché sul cocente
meriggio andran peregrinando poi
miseri e stanchi; e non avran cui piaccia
più popolar con le lor bocche i pranzi.
Imbandita è la mensa. In piè d'un salto
alzati e porgi, almo garzon, la mano
a la tua dama; e lei, dolce cadente
sopra di te, col tuo valor sostieni,
e al pranzo l'accompagna. I convitati
vengan dopo di voi; quindi lo sposo
ultimo segua. O prole alta di numi,
non vergognate di donar voi anco
brevial cibo momenti. A voi non vile
cura sia questa. A quei soltanto è vile
che il duro irrefrenabile bisogno
stimola e caccia. All'impeto di quello
cedan l'orso, la tigre, il falco, il nibbio,
l'orca, il delfino, e quanti altri animantii
crescon qua giù: ma voi con rosee labbra
la sola Voluttade al pasto appelli,
la sola Voluttà, che le celesti
mense apparecchia, e al nettare convita
i viventi per sé dèi sempiterni.
Forse vero non è; ma un giorno è fama,
che fûr gli uomini eguali; e ignoti nomi
fûr nobili e plebei. Al cibo, al bere,
all'accoppiarsi d'ambo i sessi, al sonno
uno istinto medesmo, un'egual forza
sospingeva gli umani: e niun consiglio
nulla scelta d'obbietti o lochi o tempi
era lor conceduto. A un rivo stesso,
a un medesimo frutto, a una stess'ombra
convenivano insieme i primi padri
del tuo sangue, o signore, e i primi padri
de la plebe spregiata: e gli stess'antri
il medesimo suol porgeano loro
il riposo e l'albergo; e a le lor membra
i medesmi animai le irsute vesti.
Sola una cura a tutti era comune
di sfuggire il dolore: e ignota cosa
era il desire agli uman petti ancora.
L'uniforme degli uomini sembianza
spiacque a' celesti: e a variar lor sorte
il Piacer fu spedito. Ecco il bel genio
qual d'Ilio su i campi Iride o Giuno,
e la terra s'appress: e questa ride
di riso ancor non conosciuto. Ei move,
e l'aura estiva del cadente rivo,
e dei clivi odorosi a lui blandisce
le vaghe membra, e lenemente sdrucciola
sul tondeggiar de' muscoli gentile.
A lui giran d'intorno i Vezzi e i Giochi,
e come ambrosia le lusinghe scorrono
da le fraghe del labbro; e da le luci
socchiuse, languidette, umide fuori
di tremulo fulgore escon scintille
ond'arde l'aere che scendendo ei varca.
Alfin sul dorso tuo sentisti, o Terra,
sua prima orma stamparsi; e tosto un lento
fremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell'arsa state il tuono s'ode
che di lontano mormorando viene;
e col profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle e la foresta intorno
mugon del fragoroso alto rimbombo. |
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