Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mezzogiorno
vv. 1195-1376

(secondo un esemplare a stampa edito a Milano nel 1765 ad opera di G. Galeazzi, che reca correzioni autografe dell'autore. Si trova nella biblioteca Ambrosiana, con la segnatura Ambros., IV, 2. - I versi 1195-1376 compaiono nel Ms. autografo Ambros. IV, 8)

     Già de le fere, e degli augelli il giorno,
e de' pesci notanti, e de' fior varj,
degli alberi, e del vulgo al suo fin corre.
Di sotto al guardo dell'immenso Febo
sfugge l'un mondo; e a berne i vivi raggi
Cuba s'affretta, e il Messico, e l'altrice
di molte perle California estrema.
Già da' maggiori colli, e da l'eccelse
torri il sol manda gli ultimi saluti
all'Italia, fuggente; e par, che brami
rivederti, o signore, anzi che l'Alpe,
o l'Appennino, o il mar curvo ti celi
agli occhi suoi. Altro finor non vide,
che di falcato mietitore i fianchi
su le. campagne tue piegati e lassi,
e su le armate mura or fronti or spalle
carche di ferro, e su le aeree capre
degli edificj tuoi man scabre e arsicce,
e villan polverosi innanzi ai carri
gravi del tuo ricolto, e sui canali
e sui fertili laghi irsute braccia
di remigante che le alterne merci
al tuo comodo guida ed al tuo lusso,
tutt'ignobili oggetti. Or colui vegga,
che da tutti servito, a nullo serve.

      Già di cocchi frequente il Corso splende:
e di mille che là volano rote
rimbombano le vie. Fiero per nova
scoperta biga il giovine leggiadro
che cesse al carpentier gli avìti campi
là si scorge tra i primi. All'un de' lati
sdrajasi tutto: e de le stese gambe
la snellezza dispiega. A lui nel seno
la conoscenza del suo merto abbonda;
e con gentil sorriso arde e balena
su la vetta del labbro; o da le ciglia,
disdegnando, de' cocchi signoreggia
la turba inferior: soave intanto
egli alza il mento, e il gomito protende;
e mollemente la man ripiegando,
i merletti finissimi su l'alto
petto si ricompon con le due dita.
Quinci vien l'altro che pur oggi al cocchio
dai casali pervenne, e già s'ascrive
al concilio de' numi. Egli oggi impara
a conoscere il vulgo, e già da quello
mille miglia lontan sente rapirsi
per lo spazio de' cieli. A lui davanti
ossequiosi cadono i cristalli
de' generosi cocchi oltrepassando;
e il lusingano ancor perché sostegno
sia de la pompa loro. Altri ne viene
che di compro pur or titol si vanta;
e pur s'affaccia, e pur gli orecchi porge,
e pur sembragli udir da tutti i labbri
sonar le glorie sue: mal abbia il lungo
de le rote stridore, e il calpestìo
de' ferrati cavalli, e l'aura, e il vento
che il bel tenor de le bramate voci
scender non lascia a dilettargli 'l core.
Di momento in momento il fragor cresce,
e la folla con esso. Ecco le vaghe
a cui gli amanti per lo dì solenne
mendicarono i cocchi. Ecco le gravi
matrone che gran tempo arser di zelo
contro al bel Mondo, e dell'ignoto Corso
la scelerata polvere dannâro;
ma poi che la vivace amabil prole
crebbe, e invitar sembrò con gli occhi Imene,
cessero alfine; e le tornite braccia,
e del sorgente petto i rugiadosi
frutti prudentemente al guardo aprîro
dei nipoti di Giano. Affrettan quindi
le belle cittadine, ora è più lustri
note a la Fama, poi che ai tetti loro
dedussero gli dèi; e sepper meglio,
e in più tragico stil da la toilette
ai loro amici declamar l'istoria
de' rotti amori; ed agitar repente
con celebrata convulsion la mensa,
il teatro, e la danza. Il lor ventaglio
irrequieto sempre or quinci or quindi
con variata eloquenza esce e saluta.
Convolgonsi le belle: or su l'un fianco
or su l'altro si posano tentennano
volteggiano si rizzan, sul cuscino
ricadono pesanti, e la lor voce
acuta scorre d'uno in altro cocchio.

      Ma ecco alfin che le divine spose
degl'Italici eroi vengono anch'esse.
Io le conosco ai messaggier volanti
che le annuncian da lungi, ed urtan fieri,
e rompono la folla; io le conosco
da la turba de' servi al vomer tolti,
perché oziosi poi diretro pendano
al carro trionfal con alte braccia.
Male a Giuno ed a Pallade Minerva
e a Cinzia e a Citerea mischiarvi osate
voi pettorute Naiadi e Napee
vane di picciol fonte o d'umil selva
che agli Egipani vostri in guardia diede
Giove dall'alto. Vostr'incerti sguardi,
vostra frequente inane maraviglia,
e l'aria alpestre ancor de' vostri moti
vi tradiscono, ahi lasse, e rendon vana
la multiplice in fronte ai palafreni
pendente nappa, ch'usurpar tentaste,
e la divisa onde copriste il mozzo
e il cucinier che la seguace corte
accrebber stanchi, e i miseri lasciâro
canuti padri di famiglia soli
ne la muta magion serbati a chiave.
Troppo da voi diverse esse ne vanno
ritte negli alti cocchi alteramente;
e a la turba volgare che si prostra
non badan punto: a voi talor si volge
lor guardo negligente, e par, che dica:
- Tu ignota mi sei; - o nel mirarvi
col compagno susurrano ridendo.

      Le giovinette madri degli eroi
tutto empierono il Corso, e tutte han seco
Un giovinetto eroe, o un giovin padre
d'altri futuri eroi, che a la toilette
a la mensa, al teatro, al corso, al gioco
segnaleransi un giorno; e fien cantati,
s'io scorgo l'avvenir, da tromba eguale
a quella che a me diede Apollo, e disse:
canta gli Achilli tuoi, canta gli Augusti
del secol tuo. Sol tu manchi, o Pupilla
del più nobile mondo: ora ne vieni,
e del rallegratore de le cose
rallegra or tu la moribonda luce.

      Già d'untuosa polvere novella
di propria man la tabacchiera empisti
a la tua dama, e di novelli odori
il cristallo dorato; ed al suo crine
la bionda che svanìo polve tornasti
con piuma dilicata; e adatto al giorno
le scegliesti 'l ventaglio: al pronto cocchio
di tua man la guidasti, e già con essa
precipitosamente al corso arrivi.
Il memore cocchier serbi quel loco
che voi dianzi sceglieste, e voi non osi
tra le ignobili rote esporre al vulgo,
se star fermi vi piace, od oltre scorra,
se di scorrer v'aggrada. Uscir del cocchio
ti fia lecito ancor. T'accolgan pronti
allo scendere i servi. Ancora un salto
spicca; e rassetta i rincrespati panni,
e le trine sul petto: un po' t'inchina,
ed ai lievi calzàri un guardo volgi;
ergiti, e marcia dimenando il fianco.
Il corso misurar potrai soletto,
s'ami di passeggiare; anzi potrai
dell'altrui dame avvicinarti al cocchio,
e inerpicarti, et introdurvi 'l capo
e le spalle e le braccia, e mezzo ancora
dentro versarti. Ivi sonar tant'alto
fa le tue risa, che da lunge gli oda
la tua dama, e si turbi, ed interrompa
il celiar degli eroi che accorser tosto
tra 'l dubbio giorno a custodir la bella
che solinga lasciasti. O sommi numi
sospendete la Notte; e i fatti egregi
del mio giovin signor splender lasciate
al chiaro giorno. Ma la Notte segue
sue leggi inviolabili, e declina
con tacit'ombra sopra l'emispero;
e il rugiadoso piè lenta movendo,
rimescola i color varj infiniti,
e via gli spazza con l'immenso lembo
di cosa in cosa: e suora de la morte
un aspetto indistinto, un solo volto
al suolo, ai vegetanti, agli animali,
a i grandi, ed a la plebe equa permette;
e i nudi insieme, ed i dipinti visi
de le belle confonde, e i cenci e l'oro.
né veder mi concede all'aer cieco
qual de' cocchi si parta, o qual rimanga
solo all'ombre segrete; e a me di mano
toglie il pennello; e il mio signore avvolge
per entro al tenebroso umido velo.

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© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe Bonghi @mail.fausernet.novara.it

Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998