Alfin sul dorso
tuo sentisti, o Terra,
sua prim'orma stamparsi; e tosto un lento
tremere soavissimo si sparse
di cosa in cosa; e ognor crescendo, tutte
di natura le viscere commosse:
come nell'arsa state il tuono s'ode
che di lontano mormorando viene;
e col profondo suon di monte in monte
sorge; e la valle, e la foresta intorno
mugon del fragoroso alto rimbombo,
finché poi cade la feconda pioggia
che gli uomini e le fere e i fiori e l'erbe
ravviva riconforta allegra e abbella. Oh
beati tra gli altri, oh cari al cielo
viventi a cui con miglior man Titano
formò gli organi illustri, e meglio tese,
e di fluido agilissimo inondolli!
Voi l'ignoto solletico sentiste
del celeste motore. In voi ben tosto
le voglie fermentâr, nacque il desio.
Voi primieri scopriste il buono, il meglio;
e con foga dolcissima correste
a possederli. Allor quel de' due sessi,
che necessario in prima era soltanto,
d'amabile, e di bello il nome ottenne.
Al giudizio di Paride voi deste
il primo esempio: tra feminei volti
a distinguer s'apprese; e voi sentiste
primamente le grazie. A voi tra mille
sapor fûr noti i più soavi: allora
fu il vin preposto all'onda; e il vin s'elesse
figlio de' tralci più riarsi, e posti
a più fervido sol, ne' più sublimi
colli dove più zolfo il suolo impingua.
Così l'Uom si divise: e fu il signore
dai volgari distinto a cui nel seno
troppo languir l'ebeti fibre, inette
a rimbalzar sotto i soavi colpi
de la nova cagione onde fûr tocche:
e quasi bovi, al suol curvati ancora
dinanzi al pungol del bisogno andâro;
e tra la servitute, e la viltade,
e 'l travaglio, e l'inopia a viver nati,
ebber nome di plebe. Or tu signore
che feltrato per mille invitte reni
sangue racchiudi, poiché in altra etade
arte, forza, o fortuna i padri tuoi
grandi rendette, poiché il tempo alfine
lor divisi tesori in te raccolse,
del tuo senso gioisci, a te dai numi
concessa parte: e l'umil vulgo intanto
dell'industria donato, ora ministri
a te i piaceri tuoi nato a recarli
su la mensa real, non a gioirne.
Ecco la dama tua s'asside al desco:
tu la man le abbandona; e mentre il servo
la seggiola avanzando, all'agil fianco
la sottopon, sì che lontana troppo
ella non sia, né da vicin col petto
prema troppo la mensa, un picciol salto
spicca, e chino raccogli a lei del lembo
il diffuso volume. A lato poscia
di lei tu siedi: a cavalier gentile
il fianco abbandonar de la sua dama
non fia lecito mai, se già non sorge
strana cagione a meritar, ch'egli usi
tanta licenza. Un nume ebber gli antichi
immobil sempre, e ch'allo stesso padre
degli dèi non cedette, allor ch'ei venne
il Campidoglio ad abitar, sebbene
e Giuno e Febo e Venere e Gradivo
e tutti gli altri dèi da le lor sedi
per riverenza del Tonante uscîro.
Indistinto ad ognaltro il loco sia
presso al nobile desco: e s'alcun arde
ambizioso di brillar fra gli altri,
brilli altramente. Oh come i varj ingegni
la libertà del genial convito
desta ed infiamma! Ivi il gentil Motteggio,
maliziosetto svolazzando intorno,
reca su l'ali fuggitive ed agita
ora i raccolti da la fama errori
de le belle lontane, ora d'amante
o di marito i semplici costumi:
e gode di mirare il queto sposo
rider primiero, e di crucciar con lievi
minacce in cor de la sua fida sposa
i timidi segreti. Ivi abbracciata
co' festivi Racconti intorno gira
l'elegante Licenza: or nuda appare
come le Grazie; or con leggiadro velo
solletica vie meglio; e s'affatica
di richiamar de le matrone al volto
quella rosa gentil che fu già un tempo
onor di belle donne, all'Amor cara
e cara all'Onestade; ora ne' campi
cresce solinga, e tra i selvaggi scherzi
a le rozze villane il viso adorna.
Già s'avanza la mensa. In mille
guise
e di mille sapor, di color mille
la variata eredità degli avi
scherza ne' piatti; e giust'ordine serba.
Forse a la dama di sua man le dapi
piacerà ministrar, che novo pregio
acquisteran da lei. Veloce il ferro
che forbito ti attende al destro lato
nudo fuor esca; e come quel di Marte,
scintillando lampeggi: indi la punta
fra due dita ne stringi, e chino a lei
tu il presenta, o signore. Or si vedranno
de la candida mano all'opra intenta
i muscoli giocar soavi e molli:
e le grazie, piegandosi dintorno,
vestiran nuove forme, or da le dita
fuggevoli scorrendo, ora su l'alto
de' bei nodi insensibili aleggiando,
et or de le pozzette in sen cadendo,
che dei nodi al confin v'impresse Amore.
Mille baci di freno impazienti
ecco sorgon dal labbro ai convitati;
già s'arrischian, già volano, già un guardo
sfugge dagli occhi tuoi, che i vanti audaci
fulmina, et arde, e tue ragion difende.
Sol de la fida sposa a cui se' caro
il tranquillo marito immoto siede:
e nulla impression l'agita e scuote
di brama, o di timor; però che Imene
da capo a piè fatollo. Imene or porta
non più serti di rose avvolti al crine,
ma stupido papavero grondante
di crassa onda letèa: Imene, e il Sonno
oggi han pari le insegne. Oh come spesso
la dama dilicata invoca il Sonno
che al talamo presieda, e seco invece
trova Imenèo; e stupida rimane
quasi al meriggio stanca villanella
che tra l'erbe innocenti adagia il fianco
queta e sicura; e d'improviso vede
un serpe; e balza in piedi inorridita;
e le rigide man stende, e ritragge
il gomito, e l'anelito sospende;
e immota e muta, e con le labbra aperte
obliquamente il guarda! Oh come spesso
incauto amante a la sua lunga pena
cercò sollievo: et invocar credendo
Imene, ahi folle! invocò il Sonno; e questi
di fredda oblivion l'alma gli asperse;
e d'invincibil noia, e di torpente
indifferenza gli ricinse il core.
Ma se a la dama dispensar non piace
le vivande, o non giova, allor tu stesso
il bel lavoro imprendi. Agli occhi altrui
più brillerà così l'enorme gemma,
dolc'esca agli usurai, che quella osâro
a le promesse di signor preporre
villanamente: ed osservati fieno
i manichetti, la più nobil opra
che tessesse giammai anglica Aracne.
Invidieran tua dilicata mano
i convitati; inarcheran le ciglia
sul difficil lavoro, e d'oggi in poi
ti fia ceduto il trinciator coltello
che al cadetto guerrier serban le mense.
Teco son io, signor; già intendo e
veggo
felice osservatore i detti e i motti
de' semidei che coronando stanno,
e con vario costume ornan la mensa.
Or chi è quell'eroe che tanta parte
colà ingombra di loco, e mangia e fiuta
e guata e de le altrui cure ridendo
si superba di ventre agita mole?
Oh di mente acutissima dotate
mamme del suo palato! oh da mortali
invidiabil anima che siede
tra la mirabil lor testura; e quindi
l'ultimo del piacer deliquio sugge!
Chi più saggio di lui penètra e intende
la natura migliore; o chi più industre
converte a suo piacer l'aria, la terra,
e 'l ferace di mostri ondoso abisso?
Qualor s'accosta al desco altrui, paventano
suo gusto inesorabile le smilze
ombre de' padri, che per l'aria lievi
s'aggirano vegliando ancora intorno
ai ceduti tesori: e piangon lasse
le mal spese vigilie, i sobrj pasti,
le in preda all'aquilon case, le antique
digiune rozze, gli scommessi cocchj
forte assordanti per stridente ferro
le piazze e i tetti: e lamentando vanno
gl'invan nudati rustici, le fami
mal desiate, e de le sacre toghe
l'armata in vano autorità sul vulgo.
Chi siede a lui vicin? Per certo il
caso
congiunse accorto i due leggiadri estremi
perché doppio spettacolo campeggi;
e l'un dell'altro al par più lustri e splenda.
Falcato dio degli orti a cui la greca
Làmsaco d'asinelli offrir solea
vittima degna, al giovine seguace
del sapiente di Samo i doni tuoi
reca sul desco: egli ozioso siede
dispregiando le carni; e le narici
schifo raggrinza, in nauseanti rughe
ripiega i labbri, e poco pane intanto
rumina lentamente. Altro giammai
a la squallida fame eroe non seppe
durar sì forte: né lassezza il vinse
né deliquio giammai né febbre ardente;
tanto importa lo aver scarze le membra,
singolare il costume, e nel bel mondo
onor di filosofico talento.
Qual anima è volgar la sua pietade
all'Uom riserbi; e facile ribrezzo
déstino in lui del suo simile i danni,
i bisogni, e le piaghe. Il cor di lui
sdegna comune affetto; e i dolci moti
a più lontano limite sospinge.
«Pera colui che prima osò la mano
armata alzar su l'innocente agnella,
e sul placido bue: né il truculento
cor gli piegâro i teneri belati
né i pietosi mugiti né le molli
lingue lambenti tortuosamente
la man che il loro fato, ahimè, stringea.»
Tal ei parla, o signore; e sorge intanto
al suo pietoso favellar dagli occhi
de la tua dama dolce lagrimetta
pari a le stille tremule, brillanti
che a la nova stagion gemendo vanno
dai palmiti di Bacco entro commossi
al tiepido spirar de le prim'aure
fecondatrici. Or le sovviene il giorno,
ahi fero giorno! allor che la sua bella
vergine cuccia de le Grazie alunna,
giovenilmente vezzeggiando, il piede
villan del servo con l'eburneo dente
segnò di lieve nota: ed egli audace
con sacrilego piè lanciolla: e quella
tre volte rotolò; tre volte scosse
gli scompigliati peli, e da le molli
nari soffiò la polvere rodente.
Indi i gemiti alzando: aita aita
parea dicesse; e da le aurate volte
a lei l'impietosita Eco rispose:
e dagl'infimi chiostri i mesti servi
asceser tutti; e da le somme stanze
le damigelle pallide tremanti
precipitâro. Accorse ognuno; il volto
fu spruzzato d'essenze a la tua dama;
ella rinvenne alfin: l'ira, il dolore
l'agitavano ancor; fulminei sguardi
gettò sul servo, e con languida voce
chiamò tre volte la sua cuccia: e questa
al sen le corse; in suo tenor vendetta
chieder sembrolle: e tu vendetta avesti
vergine cuccia de le grazie alunna.
L'empio servo tremò; con gli occhi al suolo
udì la sua condanna. A lui non valse
merito quadrilustre; a lui non valse
zelo d'arcani uficj: in van per lui
fu pregato e promesso; ei nudo andonne
dell'assisa spogliato ond'era un giorno
venerabile al vulgo. In van novello
signor sperò; ché le pietose dame
inorridìro, e del misfatto atroce
odiâr l'autore. Il misero si giacque
con la squallida prole, e con la nuda
consorte a lato su la via spargendo
al passeggiere inutile lamento:
e tu vergine cuccia, idol placato
da le vittime umane, isti superba.
Fia tua cura, o signore, or che più
ferve
la mensa, di vegliar su i cibi; e pronto
scoprir qual d'essi a la tua dama è caro:
o qual di raro augel, di stranio pesce
parte le aggrada. Il tuo coltello Amore
anatomico renda, Amor che tutte
degli animali noverar le membra
puote; e discerner sa qual abbian tutte
Uso, e natura. Più d'ognaltra cosa
però ti caglia rammentar mai sempre
qual più cibo le nuoca, o qual più giovi;
e l'un rapisci a lei, l'altro concedi
come d'uopo ti par. Serbala, oh dio,
serbala ai cari figlj. Essi dal giorno
che le alleviâro il dilicato fianco
non la rivider più: d'ignobil petto
esaurirono i vasi, e la ricolma
nitidezza serbâro al sen materno.
Sgridala, se a te par, ch'avida troppo
agogni al cibo; e le ricorda i mali
che forse avranno altra cagione, e ch'ella
al cibo imputerà nel dì venturo.
Né al cucinier perdona a cui non calse
tanta salute. A te sui servi altrui
ragion donossi in quel felice istante
che la noia, o l'amor vi strinser ambo
in dolce nodo; e dier ordini e leggi.
Per te sgravato d'odioso incarco
ti fia grato colui che dritto vanta
d'impor novo cognome a la tua dama;
e pinte trascinar su gli aurei cocchi
giunte a quelle di lei le proprie insegne:
dritto illustre per lui, e ch'altri seco
audace non tentò divider mai. |
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