Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo la lezione del Ms. Ambrosiano, IV, 3-4)
vv. 865-1166

     Ma qual di tanti e sì leggiadri arnesi
sì felice sarà che innanzi a gli altri,
signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del pari. Ecco l’astuccio
di pelli rilucenti ornato e d’oro
sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
occupar di sua mole: esso a cent’usi
opportuno si vanta, e ad esso in grembo
atta a gli orecchi, a i denti, a i peli, all’ugne
vien forbita famiglia. A i primi onori
seco s’affretta d’odorifer’onda
colmo cristal, che a la tua vita in forse
doni conforto allor che il vulgo ardisca
troppo accosto vibrar da la vil salma
fastidiosi effluvi a le tue nari.
Né men pronto di quello e all’uopo istesso
l’imitante un cuscin purpureo drappo
reca turgido il sen d’erbe odorate
che l’aprica montagna in tuo favore
al possente meriggio educa e scalda.
Ecco vien poi da cristallina rupe
tolto nobil vasello. Onde traluce
prezioso confetto, ove a gli aromi
stimolanti s’unì l’ambra o la terra,
che il Giappon manda a profumar de’ grandi
l’etereo fiato; o quel che il caramano
fa gemer latte dall’inciso capo
de’ papaveri suoi; perché, se mai
non ben felice amor l’alma t’attrista,
lene serpendo per li membri acquete
a te gli spirti, e ne la mente induca
lieta stupidità, che mille adune
imagin dolci e al tuo desio conformi.
A tanto arredo il cannocchial succeda,
e la chiusa tra l’oro anglica lente.
Quel notturno favor ti presti allora
che al teatro t’assidi, e t’avvicini
o i piè leggeri o le canore labbra
da la scena remota, o con maligno
guardo dell’alte vai logge spiando
le abitate tenébre, o miri altronde
gli ognor nascenti e moribondi amori
de le tenere dame, onde s’appresti
all’eloquenza tua nel dì venturo
lunga e grave materia. A te la lente
nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
economa presieda, e sì li parta,
che il mirato da te vada superbo,
né i malvisti accusarte osin giammai.
La lente ancor su l’occhio tuo sedendo
irrefragabil giudice condanni
o approvi di Palladio i muri e gli archi
o di Tizian le tele: essa a le vesti,
a i libri, a i volti feminili applauda
severa o li dispregi. E chi del senso
comun sì privo fia che insorger osi
contro al sentenziar de la tua lente?
Non per questa però sdegna, o signore,
giunto a lo speglio, in gallico sermone
il vezzoso giornal; non le notate
eburnee tavolette, a guardar preste
tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce
doman tra i belli spirti; e non isdegna
la picciola guaina ove al tuo cenno
mille ognora stan pronti argentei spilli.
Oh quante volte a cavalier sagace
ho vedut’io le man render beate
uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro
donâr gemina lama, e a cui la madre
de la gemma più bella d’Anfitrite
diè manico elegante ove il colore
con dolce variar l’iride imìta?
Verrà il tempo verrà, che ne’ superbi
convivi ognaltro avanzerai per fama
d’esimio trinciatore, e i plausi e i gridi
de’ tuoi gran pari ecciterai, qualora
pollo o fagian con le forcine in alto
sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
mirabilmente. Or qual più resta omai
onde colmar tue tasche inclito ingombro?
Ecco a molti colori oro distinto,
ecco nobil testuggine su cui
voluttuose immagini lo sguardo
invitan de gli eroi. Copia squisita
di fumido rapé quivi è serbata
e di spagna oleoso, onde lontana
pur come suol fastidioso insetto
da te fugga la noia. Ecco che smaglia
cupido a te di circondar le dita
vivo splendor di preziose anella.
Ami la pietra, ove si stanno ignude
sculte le Grazie, e che il giudeo ti fece
creder opra d’argivi allor ch’ei chiese
tanto tesoro, e d’erudito il nome
ti compartì prostrandosi a’ tuoi piedi?
Vuoi tu i lieti rubini? O più t’aggrada
sceglier quest’oggi l’indico adamante
là dove il lusso incantata costrinse
la fatica e il sudor di cento buoi
che pria vagando per le tue campagne
facean sotto a i lor piè nascere i beni?
Prendi o tutti o qual vuoi; ma l’aureo cerchio
che sculto intorno è d’amorosi motti
ognor teco si vegga, e il minor dito
premati alquanto, e sovvenir ti faccia
dell’altrui fida sposa a cui se’ caro.
Vengano alfin degli orioi gemmati,
venga il duplice pondo; e a te de l’ore
che all’alte imprese dispensar conviene
faccia rigida prova. Ohimè che vago
arsenal minutissimo di cose
ciondola quindi, e ripercosso insieme
molce con soavissimo tintinno!
Ma v’hai tu il meglio? Ah! sì, che i miei precetti
sagace prevenisti. Ecco risplende
chiuso in breve cristallo il dolce pegno
di fortunato amor: lungi, o profani,
ché a voi tant’oltre penetrar non lice.

      Compiuto è il gran lavoro. Odi, signore,
sonar già intorno la ferrata zampa
de’ superbi corsier che irrequieti
ne’ grand’atri sospinge, arretra e volge
la disciplina dell’ardito auriga.
Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente signor scender non lice
da le stanze superne infin che al gelo,
o al meriggio non abbia il cocchier stanco
durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
per quanto immensa via natura il parta
dal suo signore. Or dunque i miei precetti
io seguirò; ché varie al tuo mattino
portar dee cure il variar dei giorni.
Tu dolce intanto prenderai solazzo
ad agitar fra le tranquille dita
dell’oriolo i ciondoli vezzosi.

      Signore, al ciel non è cosa più cara
di tua salute; e troppo a noi mortali
è il viver de’ tuoi pari util tesoro.
Uopo è talor che da gli egregi affanni
t’allevi alquanto, e con pietosa mano
il teso per gran tempo arco rallente.
Tu dunque allor che placida mattina
vestita riderà d’un bel sereno
esci pedestre, e le abbattute membra
all’aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuoio a te la gamba calzi
purpureo stivaletto, onde giammai
non profanin tuo piè la polve e il limo
che l’uomo calpesta. A te s’avvolga intorno
veste leggiadra che sul fianco sciolta
sventoli andando, e le formose braccia
stringa in maniche anguste, a cui vermiglio
o cilestro ermesino orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne
o pur d’oriental candido bisso
voluminosa benda indi a te fasci
la snella gola. E il crin... Ma il crin, signore,
forma non abbia ancor da la man dotta
dell’artefice suo; ché troppo fôra,
ahi troppo grave error lasciar tant’opra
de le licenziose aure in balìa.
Né senz’arte però vada negletto
su gli omeri a cader; ma, o che natura
a te il nodrisca, o che da ignote fronti
il più famoso parrucchier lo involi
e lo adatti al tuo capo, in sul tuo capo
ripiegato l’afferri e lo sospenda
con testugginei denti il pettin curvo.
Ampio cappello alfin che il disco agguagli
del gran lume febeo tutto ti copra,
e allo sguardo profan tuo nume asconda.
Poi che così le belle membra ornate
con artifici negligenti avrai,
esci soletto a respirar talora
i mattutini fiati; e lieve canna
brandendo con la man, quasi baleno
le vie trascorri, e premi ed urta il vulgo
che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
fôra colpa l’uscir; però che andriéno
mal dal vulgo distinti i primi eroi.

      Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
fien qualch’ore serbarsi al molle ferro
che i peli a te rigermoglianti a pena
d’in su la guancia miete, e par che invidi,
ch’altri fuor che é solo indaghi e scopra
unqua il tuo sesso. Arroge a questo il giorno
che di lavacro universal convienti
terger le vaghe membra. È ver che allora
d’esser mortal dubiterai; ma innalza
tu allor la mente, e a i grandi aviti onori
che fino a te per secoli cotanti
misti scesero al chiaro altero sangue,
e il pensier ubbioso al par di nebbia
per lo vasto vedrai aere smarrirsi
a i raggi de la gloria onde t’investi.
e di te pago sorgerai qual pria
gran semidéo che a sé solo somiglia.
Fama è così, che il dì quinto le fate
loro salma immortal vedean coprirsi
già d’orribili scaglie, e in feda serpe
volta strisciar sul suolo, a sé facendo
de le inarcate spire impeto e forza;
ma il primo sol le rivedea più belle
far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
mescere a voglia lor la terra e il mare.

      Assai l’auriga bestemmiò finora
i tuoi nobili indugi; assai la terra
calpestâro i cavalli. Or via veloce
reca, o servo gentil, reca il cappello
ch’ornan fulgidi nodi; e tu frattanto,
fero genio di Marte, a guardar posto
de la stirpe de’ numi il caro fianco,
al mio giovan eroe cigni la spada;
corta e lieve non già, ma, qual richiede
la stagion bellicosa, al suol cadente,
e di triplice taglio armata e d’else
immane. Quanto esser può mai sublime
l’annoda pure, onde la impugni all’uopo
la destra furibonda in un momento.
Né disdegnar con le sanguigne dita
di ripulire ed ordinar quel nastro
onde l’else è superbo. Industre studio
è di candida mano. Al mio signore
dianzi donollo e gliel appese al brando
l’altrui fida consorte a lui sì cara.
Tal del famoso Artù vide la corte
le infiammate d’amor donzelle ardite
ornar di piume e di purpuree fasce
i fatati guerrier; sì che poi lieti
correan mortale ad incontrar periglio
in selve orrende fra i giganti e i mostri.

      Volgi, o invitto campion, volgi tu pure
il generoso piè dove la bella
e de gli eguali tuoi scelto drappello
sbadigliando t’aspetta all’alte mense.
Vieni, e godendo, nell’uscire, il lungo
ordin superbo di tue stanze ammira.
Or già siamo all’estreme: alza i bei lumi
a le pendenti tavole vetuste
che a te degli avi tuoi serbano ancora
gli atti e le forme. Quei due in duro dante
strigne le membra, a cui sì grande ingombra
traforato collar le grandi spalle,
fu di macchine autor; cinse d’invitte
mura i penati; e da le nere torri
signoreggiando il mar, verso le aduste
spiagge la predatrice Africa spinse.
Vedi quel magro a cui canuto e raro
pende il crin da la nuca, e l’altro a cui
su la guancia pienotta e sopra il mento
serpe triplice pelo? Ambo s’adornano
di toga magistral cadente a i piedi:
l’uno a Temi fu sacro: entro a’ licei
la gioventù pellegrinando ei trasse
a gli oracoli suoi; indi sedette
nel senato de’ padri; e le disperse
leggi raccolte, ne fe’ parte al mondo:
l’altro sacro ad Igeia. Non odi ancora,
presso a un secol di vita, il buon vegliardo
di lui narrar quel che da’ padri suoi
nonagenari udì, com’ei spargesse
su la plebe infelice oro e salute,
pari a Febo suo nume? Ecco quel grande
a cui sì fosco parruccon s’innalza
sopra la fronte spaziosa; e scende
di minuti botton serie infinita
lungo la veste. Ridi? Ei novi aperse
studi a la patria; ei di perenne aita
i miseri dotò; portici e vie
stese per la cittade; e da gli ombrosi
lor lontani recessi a lei dedusse
le pure onde salubri, e ne’ quadrivi
e in mezzo a gli ampli fôri alto le fece
salir scherzando a rinfrescar la state,
madre di morbi popolari. Oh come
ardi a tal vista di beato orgoglio,
magnanimo garzon! Folle! A cui parlo?
Ei gia più non m’ascolta: odiò que’ ceffi
il suo sguardo gentil: noia lui prese
di sì vieti racconti: e già s’affretta
giù per le scale impaziente. Addio
degli uomini delizia, e di tua stirpe
e de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umìli in bipartita schiera
t’accolgono i tuoi servi: altri già pronto
via se ne corre ad annunciare al mondo,
che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
timido ti sostien, mentre il dorato
cocchio tu sali, e tacito, e severo
sur un canto ti sdrai. Apriti o vulgo,
e cedi il passo al trono ove s’asside
il mio signore. Ahi, te meschin, s’ei perde
un sol per te de’ preziosi istanti.
Temi il non mai da legge o verga o fune
domabile cocchier; temi le rote,
che già più volte le tue membra in giro
avvolser seco, e del tuo impuro sangue
corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
spettacol miserabile! segnâro.

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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998