Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo la lezione del Ms. Ambrosiano, IV, 3-4)
vv. 287-594

     Tempo fu già, che il pargoletto Amore
dato era in guardia al suo fratello Imene;
tanto la madre lor temea che il cieco
incauto nume perigliando gisse
misero e solo per oblique vie,
e che, bersaglio a gl’indiscreti colpi
di senza guida, e senza freno arciero,
immaturo al suo fin corresse il seme
uman che nato è a dominar la terra.
Quindi la prole mal secura all’altra
in cura dato avea, sì lor dicendo:
- Ite, o figli, del par; tu più possente
il dardo scocca, e tu più cauto il reggi
a certa meta. - Così ognor congiunta
iva la dolce coppia, e in un sol regno,
e d’un nodo comun l’alme strignea.
Allora fu che il sol mai sempre uniti
vedea un pastore ed una pastorella
starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
e la suora di lui vedeali poi
uniti ancor nel talamo beato,
ch’ambo gli amici numi a piene mani
gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divini petti,
se mai s’accende ambizion d’iimpero?
Crebber l’ali ad Amor, crebbe l’ardire,
onde a poc’aere prima, indi securo
a vie maggior fidossi, e fiero alfine
entrò nell’alto, e il grande arco crollando,
e il capo, risonar fece a quel moto
il duro acciar che a tergo la faretra
gli empie, e gridò: - Solo regnar vogl’io. -
Disse, e volto a la madre: - Amore adunque,
il più possente in fra gli dèi, il primo
di Citeréa figliuol ricever leggi,
e dal minor german ricever leggi,
vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
non oserà fuor ch’una unica volta
fiedere un’alma come questo schifo
da me pur chiede? E non potrò giammai
da poi ch’io strinsi un laccio, anco disciorrlo
a mio talento, e, se m’aggrada, un altro
stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli
di suoi unguenti impece a me i miei dardi,
perché men velenosi e men crudeli
scendano a i petti? Or via, perché non togli
a me da le mie man quest’arco, e queste
armi da le mie spalle, e ignudo lasci
quasi rifiuto de gli dèi Cupido?
Oh, il bel viver che fia quando tu solo
regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso!
Studiarti a torre da le languid’alme
la stanchezza e il fastidio, e spander gelo
di foco in vece! Or, genitrice, intendi,
vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
tra noi parti l’impero, ond’io con teco
abbia omai pace, e in compagnìa d’Imene
me non trovin mai più le umane genti. -
Amor qui tacque, e minaccioso in atto,
parve all’idalia dea chieder risposta.
Ella tenta placarlo, e preghi e pianti
sparge, ma in van; tal ch’a i due figli volta
con questo dir pose al contender fine:
- Poi che nulla tra voi pace esser puote,
si dividano i regni. E perché l’uno
sia dall’altro fratelloo ognor disgiunto,
sien diversi tra voi, e il tempo, e l’opra.
Tu che, di strali altero, a fren non cedi,
l’alme ferisci, e tutto il giorno impera;
e tu che di fior placidi hai corona
le salme accoppia, e con l’ardente face
regna la notte. - Or quindi, almo signore,
venne il rito gentil, che ai freddi sposi
le tenebre concede, e de le spose
le caste membra: e a voi, beata gente
edi più nobil mondo, il cor di queste
e il dominio del dì largo destìna.

      Dunque ascolta i miei detti, e meco apprendi
quai tu deggia al mattin curea la bella
che spontanea o pregata a te si diede
in tua dama quel dì lieto che a fida
carta, né senza testimoni, fûro
a vicenda commessi i patti santi,
e le condizion del caro nodo.

      Già la dama gentile i vaghi rai
al novo giorno aperse; e suo primiero
pensier fu dove teco ir più convenga
a vegliar questa sera, e gravemente
consultò con lo sposo a lei vicino
o a baciarle la man pur dianzi ammesso.

      Ore è tempo, o signor, che il fido servo
e il più accorto tra’ tuoi voli al palagio
di lei, chiedendo se tranquilli sonni
dormio la notte, e se d’imagin liete
le fu Mòrfeo cortese. È ver che ieri
al partir l’ammirasti in viso tinta
di freschissime rose; e più che mai
viva e snella balzar teco dal cocchio,
e la vigile tua mano per vezzo
ricusar sorridendo, allor che l’ampie
scale salì del maritale albergo:
ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
non obliar sì giusti ufici. Ahi quanti
geni malvagi tra l’orror notturno
godono uscire ed empier di perigli
la placida quiete de’ viventi!

      Poria, tolgalo il cielo, il picciol cane,
con latrato improvviso i cari sogni
troncar de la tua dama, ond’ella, scossa
da sùbito capriccio, a rannicchiarsi
astretta fosse, di sudor gelato
e la fronte bagnando e il guancial molle.
Anco poria colui che sì de’ tristi
come de’ lieti sogni è genitore,
crearle in mente, di nemiche idee
in un congiunte, orribile chimera,
tal che agitata e in ansioso affanno
gridar tentasse, e non però potesse
aprire a i gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor de la passata sera
la perduta nel gioco aurea moneta,
non men che al cavalier, suole a la dama
lunga vigilia cagionar: talora
nobile invidia de la bella amica
vagheggiata da molti, e talor breve
gelosia n’è cagione. A questo aggiugni
gl’importuni mariti i quali nel capo
ravvolgendosi ancor le viete usanze,
poi che cessero ad altri il giorno, quasi
aggian fatto gran cosa, aman d’Imene
con superstizion serbare i dritti,
e dell’ombra notturna esser tiranni,
ahi con qual noia de le caste spose
ch’indi preveggon fra non molto il fiore
di lor fresca beltade a sé rapito.

      Mentre che il fido messaggier sen rieda,
magnanimo signor, già non starai
ozioso però. Nel campoamato
pur in questo momento il buon cultore
suda, e incallisce al vomere la mano,
lieto che i suoi sudor ti fruttin poi
dorati cocchi, e pellegrine mense.
Ora per te l’industre artier sta fiso
allo scarpello, all’asce, al subbio, all’ago;
ed ora a tuo favor contende, o veglia
il ministro di Temi. Ecco, te pure
la tavoletta or chiama: ivi i bei pregi
de la natura accrescerai con l’arte,
ond’oggi, uscendo, del beante aspetto
beneficar potrai le genti, e grato
ricompensar di sue fatiche il mondo.

      Ogni cosa è già pronta. All’un de’ lati
crepitar s’odon le fiammanti brage
ove si scalda industrioso e vario
di ferri arnese a moderar del fronte
gl’indocili capei. Stuolo d’Amori
invisibil sul foco agita i vanni,
e per entro vi soffia, alto gonfiando
ambe le gote. Altri di lor v’appressa
pauroso la destra, e prestamente
ne rapisce un dei ferri; altri rapito
tenta com’arda, in su l’estrema cima
sospendendol dell’ala, e cauto attende
pur se la piuma si contragga o fume;
altri un altro ne scote, e de le ceneri
filigginose il ripulisce e terge.
Tali a le vampe dell’etnea fucina,
sorridente la madre, i vaghi Amori
eran ministri all’ingegnoso fabbro:
e sotto i colpi del martel frattanto
l’elmo sorgea del fondator latino.
All’altro lato con la man rosata
Como e di fiori inghirlandato il crine
i bissi scopre ove di idali arredi
almo tesor la tavoletta espone.
Ivi e nappi eleganti e di canori
cigni morbide piume; ivi raccolti
di lucide odorate onde vapori;
ivi di polvi fuggitive al tatto
color diversi o ad imitar d’Apollo
l’aurato biondo o il biondo cenerino
che de le sacre Muse in su le spalle
casca ondeggiando tenero e gentile.
Che se a nobil eroe le fresche labbra
repentino spirar di rigid’aura
offese alquanto, v’è stemprato il seme
de la fredda cucurbita; e se mai
pallidetto ei si scorga, è pronto all’uopo
arcano a gli altri eroi vago cinabro.
Né quando a un semideo spuntar sul volto
postula temeraria osa pur fosse,
multiforme di nèi copia vi manca,
ond’ei l’asconda in sul momento, ed esca
più perigliosa a saettar co i guardi
le belle inavvedute, a guerrier pari
che, già poste le bende a la ferita,
più glorioso e furibondo insieme
sbaragliando le schiere entra nel folto.

      Ma già velocemente il mio signore
tre volte e quattro il gabinetto scorse
col crin disciolto e su gli omeri sparso,
quale a Cuma solea l’orribil maga
quando, agitata dal possente nume,
vaticinar s’udia. Così dal capo
evaporar lasciò degli oli sparsi
il nocivo fermento, e de le polvi
che roder gli porìen la molle cute,
o d’atroci emicranie a lui lo spirto
trafigger lungamente. Or ecco avvolto
tutto in candidi lini a la grand’opra
e più grave del dì s’appresta, e siede.
Nembo d’intorno a lui vola d’odori
che a le varie manteche ama rapire
l’aura vagante lungo i vasi ugnendo
le leggerissim’ale di farfalla:
e lo speglio patente a lui dinanzi
altero sembra raccô nel seno
l’imagin diva: e stassi a gli occhi suoi
severo esplorator de la tua mano,
o di bel crin volubile architetto.

     O di bel crin volubile architetto,
tu pria chiedi all’eroe qual più gli aggrade
sparger al crin, se i gelsomini o il biondo
fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
o l’ambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la sposa altrui, cara all’eroe,
del talamo nuzial si lagna, e scosse
pur or da lungo peso i casti lombi,
ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi;
ché micidial potresti a un sol momento
più vite insidiar: semplici sieno
i tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
pria che di lor deciso abbian le nari
del mio signore e tuo. Pon mano poi
al pettin liscio, e coll’ottuso dente
lieve solca le chiome; indi animoso
le turba, e le scompiglia; e alfin da quella
alta confusione traggi e dispiega,
opra di tua tua mente,ordin superbo.

      Io breve a te parlai; ma il tuo lavoro
breve non fia però; né al termin giunto
prima sarà, che da’ più strani eventi
s’involva o tronchi a all’alta impresa il filo.
Fisa i lumi al lo speglio, e là sovente
il mio signor vedrai morder le labbra
impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor, se men dell’uso esperta
parrà la tua destra, del convulso piede
udrai lo scalpitar breve e frequente,
non senza un tronco articolar di voce
che condanni, e minacci. Anco t’aspetta
veder talvolta il cavalier sublime
furiando agitarsi, e destra e manca
porsi a la chioma; e dissipar con l’ugn
lo studio di molt’ore in un momento.
Che più? Se per tuo male un dì vaghezza
d’accordar ti prendesse al suo sembiante
gli edifici del capo, e non curassi
ricever leggi da colui che venne
pur ier di Francia, ahi quale atroce folgore,
meschino! allor ti penderìa sul capo?
Tu allor l’eroe vedresti ergers’in piedi;
e per gli occhi versando ira e dispetto,
mille strazi imprecarti; e scender fino
ad usurpar le infami voci al vulgo
per farti onta maggiore; e di bastone
il tergo minacciarti; e violento
rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
rotti cristalli e calamistri e vasi
e pettini ad un tempo. In cotal guisa,
se del tonante all’ara o de la dea,
che ricovrò dal Nilo il turpe phallo,
tauro spezzava i raddoppiati nodi
e libero fuggìa, vedeansi a terra
cader tripodi, tazze, bende, scuri,
litui, coltelli, e d’orridi mugiti
commosse rimbombar le arcate volte,
e d’ogni lato astanti e sacerdoti
pallidi all’urto e all’impeto involarse
del feroce animal, che pria sì queto
gìa di fior cinto, e sotto la man sacra
umiliava le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte
dura, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d’ira
in nobil petto. Il tuo signor vedrai
mansuefatto a te chieder perdono,
e sollevarti oltr’ogni altro mortale
con preghi e scuse a niun altro concesse;
tal che securo sacerdote a lui
immolerai lui stesso, e pria d’ogn’altro
larga otterrai del tuo lavor mercede.

      Or, signore, a te riedo. Ah non sia colpa
dinanzi a te, s’io travviai col verso
breve parlando ad un mortal cui degni
tu degli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia
questi ogni dì volge, e governa i capi
de’ semideipiù più chiari; e le matrone,
che da i sublimi cocchi alto disdegnano
chinar lo sguardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con lui
in festevoli motti, allor ch’esposti
a la sua man sono i ridenti avori
del bel collo e del crin l’aureo volume.
Però m’odi benigno: or ch’io t’apprendo
l’ore a passar più graziose, intanto
che il pettin creator doni a le chiome
leggiadra o almen non più veduta forma.


 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998