Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo la lezione del Ms. Ambrosiano, IV, 3-4)
vv. 1-286

     Sorge il mattino in compagnìa dell’alba
innanzi al sol, che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidîr la notte;
poi sul dorso portando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
move seguendo i lenti bovi, e scote
lungo il picciol sentier da i curvi rami
fresca rugiada che di gemme al paro
la nascente del sol luce rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol gioielli e vasi
per ornamento a nova sposa o a mense.
Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capelli
al suon di mie parole? Ah, il tuo mattino,
signor, questo non è. Tu col cadente
sol non sedesti a parca cena, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a posar, qual nei tuguri suoi
entro a rigide coltri il vulgo vile.
A voi celeste prole, a voi, concilio
almo di semidei, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me guidarvi è d’uopo.

      Tu tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e stanco alfine,
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestio
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenébre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
da l’uno all’altro mar rimbombar féo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.

      Tal ritornasti a i gran palagi; e quivi
cari conforti a te porgea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di francesi colli,
o d’ispani, e di toschi, o l’ungarese
bottiglia a cui di verdi ellere Bromio
concedette corona e disse: - Or siedi
de le mense regina. - Al fine il Sonno
ti sprimacciò di propria man le coltrici
molle cedenti, ove te accolto il fido
servo calò le ombrifere cortine;
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.

      Dritto è però, che a te gli stanchi sensi
dai tenaci papaveri Morféo
prima non solva, che già grande il giorno
fra gli spiragli penetrar contenda
de le dorate imposte, e la parete
pingano a stento in alcun lato i rai
del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno; e quindi io deggio
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.

      Già i valetti gentili udîr lo squillo
dei penduli metalli, a cui da lounge
moto improvviso la tua destra impresse;
e corser pronti a spalancar gli opposti
schermi a la luce, e rigidi osservâro,
che con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarte i lumi.
Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia
alli origlier che lenti degradando
all’omero ti fan molle sostegno;
e coll’indice destro lieve lieve
sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua
quel che riman de la cimmeria nebbia;
poi de’ labbri formando un picciol arco,
dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Ahi se te in sì vezzoso atto mirasse
il duro capitan, quando tra l’arme
sgangherando le labbra un grido innalza
lacerator di ben costrutti orecchi,
s’ei te mirasse allor, certo vergogna
avria di sé più, che Minerva il giorno
che, di flauto sonando, al fonte scorse
il turpe aspetto de le guance enfiate.

      Ma il damigel ben pettinato i crini
ecco s’innoltra, e con sommessi accenti
chiede qual più de le bevande usate
sorbir ti piaccia in preziosa tazza.
Indiche merci son tazza e bevande;
scegli qual più desii. S’oggi ti giova
porger dolci allo stomaco fomenti,
onde con legge il natural calore
v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
tu il cioccolatte eleggi, onde tributo
ti diè il guatimalese, o il caribèo
che di barbare penne avvolto ha il crine:
ma se nojosa ipocondrìa t’opprime,
o troppo intorno a le divine membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
arde e fumica il grano a te d’Aleppo
giunto e da Moca che di mille navi
popolata mai sempre insuperbisce.

      Certo fu d’uopo, che da i prischi seggi
uscisse un regno, e con audaci vele
fra straniere procelle e novi mostri
e teme e rischi ed inumane fami
superasse i confin, per tanta etade
inviolati ancora: e ben fu dritto
se Pizzarro e Cortese umano sangue
più non stimâr quel ch’oltre l’Oceàno
scorrea le umane membra, e se tonando
e fulminando alfin spietatamente
balzaron giù da i grandi aviti troni
re messicani e generosi Incassi,
poi che nuove così venner delizie,
o gemma degli eroi, al tuo palato.

      Cessi ’l cielo però che, in quel momento
che le scelte bevande a sorbir prendi,
servo indiscreto a te improvviso annunci
o il villano sartor che non ben pago
d’aver teco diviso i ricchi drappi,
oso sia ancor con polizza infinita
fastidirti la mente; o di lugùbri
panni ravvolto il garrulo forense
cui de’ paterni tuoi campi e tesori
il periglio s’affida; o il tuo castaldo
che già con l’alba a la città discese,
bianco di gelo mattutin la chioma.
Così zotica pompa i tuoi maggiori
al dì nascente si vedean dintorno:
ma tu, gran prole, in cui si féo scendendo
e più mobile il senso e più gentile,
ah sul primo tornar de’ lievi spirti
all’uficio diurno, ah non ferirli
d’imagini sì sconce! Or come i detti
di costor soffrirai barbari e rudi;
come il penoso articolar di voci
smarrite, titubanti al tuo cospetto;
e, tra l’obliquo profondar d’inchini,
del calzar polveroso in su i tapeti
leimpresse orme indecenti? Ahimè, che fatto
il salutar licore agro e indigesto
tra le viscere tue, te allor faria
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar plebeiamente il giorno intero!

      Non fia che attenda già ch’altri lo annunzj
gradito ognor benché improvviso, il dolce
mastro che il tuo bel piè come a lui piace
guida e corregge. Egli all’entrar s’arresti
ritto sul limitare, indi elevando
ambe le spalle, qual testudo, il collo
contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
il mento inchini, e con l’estrema falda
del mio signor t’innoltra, o tu che addestri.

      E non men di costui facile al letto
del piumato cappello il labbro tocchi,
a modular con la flessibil voce
soavi canti, e tu che insegni altrui
come vibrar con maestrevol arco
sul cavo legno armoniose fila.

      Né la squisita a terminar corona
che segga intorno a te, manchi, o signore,
il precettor del tenero idioma
che da la Senna de le Grazie madre
pur ora a sparger di celeste ambrosia
venne all’Italia nauseata i labbri.
All’apparir di lui l’itale voci
tronche cedano il campo al lor tiranno;
e a la nova inefabil melodia
de’ sovrumani accenti, odio ti nasca
più grande in sen contro al le bocche impure
ch’osan macchiarse ancor di quel sermone
onde in Valchiusa fu lodata e pianta
già la bella francese, e i culti campi
all’orecchio de i re cantati fûro
lungo il fonte gentil de le bell’acque.

      Or te questa, o signor, leggiadra schiera
al novo dì trattenga; e di tue voglie
irresolute ancora or quegli or questi
con piacevol discorso il vano adempia,
mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
dell’ardente bevanda a qual cantore
nel vicin verno si darà la palma
sopra le scene; e s’egli è il ver che rieda
l’astuta Frine che ben cento folli
milordi rimandò nudi al Tamigi;
o se il brillante danzator Narcisso
torni pur anco ad agghiacciare i petti
de’ palpitanti italici mariti.

      Così poi gran pezzo a i novi albori
del tuo mattin teco scherzato fia
non senza aver da te rimosso in prima
l’ipocrita Pudore, e quella schifa,
che le accigliate gelide matrone
chiaman Modestia, alfine o a lor talento,
o da te congedati escan costoro.
Doman quindi potrai, o l’altro forse
giorno, a i precetti lor porgere orecchio,
se ai bei momenti tuoi cure minori
porranno assedio. A voi, divina schiatta,
più assai che a noi mortali il ciel concesse
domabile midollo entro al cerébro,
sì che breve lavoro unir vi puote
ampio tesor d’ogni scienza ed arte.

      Il vulgo intanto, a cui non lice il velo
aprir de’ venerabili misteri,
fie pago assai, poi che vedrà sovente
ire o tornar dal tuo palagio i primi
d’arte maestri, e con aperte fauci
stupefatto berà le tue sentenze.

      Ma già vegg’io, che le oziose lane
premer non sai più lungamente: e in vano
te l’ignavo tepor lusinga e molce,
però che te più gloriosi affanni
aspettan l’ore ad illustrar del giorno.

      O voi dunque del primo ordine servi
che di nobil signor ministri al fianco
siete incontaminati, or dunque voi
al mio divino Achille, al mio Rinaldo
l’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
i damigelli a’ cenni tuoi star pronti.
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
la serica zimarra, ove bei fregi
diramansi chinesi; altri, se il chiede
più la stagione, a te le membra copre
di stese infino al piè tiepide pelli;
questi al fianco ti cinge il bianco lino
che sciorinato poi cada, e difenda
i calzonetti; e quei, d’alto curvando
il cristallino rostro, in su le mani
ti versa onde odorate, in su le mani
in limpido bacin sotto le accoglie;
quale il sapon del redivivo muschio
olezzante all’intorno; e qual ti porge
il macinato di quell’arbor frutto,
che a Rodope fu già vaga donzella,
e piagne in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte;
un di soavi essenze intrisa spugna
onde tergere i denti, e l’altro appresta
ad imbiancar le guance util licore.

      Assai signore a te pensasti: or volgi
l’alta mente per poco ad altri obbietti
non men degni di te. Sai che compagna
con cui partir de la giornata illustre
i travagli e le glorie il ciel destìna
al giovane signore. Impallidisci?
Ahi, non parlo di nozze: antiquo e vieto
dottor sarei, se così folle io dessi
a te consiglio. Di tant’alte doti
già non orni così lo spirto e i membri,
perché in mezzo a la fulgida carriera
tu il tuo corso interrompa, e fuora uscendo
di cotesto a ragion detto «bel mondo»,
in tra i severi di famiglia padri
relegato ti giacci, a nodi avvinto
di giorno in giorno più noioso, e fatto
ignobil fabbro de la razza umana.

      D’altra parte il marito ahi quanto spiace,
e lo stomaco move a i dilicati
del vostr’orbe felice abitatori
qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridevole trionfo
la rimbambita Fe’, la Pudicizia
severi nomi! E qual non suole a forza
entro a’ melati petti eccitar bile
quando i computi vili del castaldo
le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
di que’ sì dolci suoi bambini altrui
gongolando ricorda; e non vergogna
di mischiar cotai fole a peregrini
subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
da volgar fren concetti, onde s’avviva
da’ begli spirti il conversar sublime.
Non però tu senza compagna andrai;
ché tra le fide altrui giovani spose
una te n’offre inviolabil rito
del bel mondo onde sei parte sì cara.


 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998