Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo l’edizione di Milano, 1763)
vv. 896-1083

      Non per questi però sdegna, o signore,
giunto a lo specchio, in gallico sermone
il vezzoso giornal; non le notate
eburnee tavolette a guardar preste
tuoi sublimi pensier fin ch’abbian luce
doman tra i begli spirti; e non isdegna
la picciola guaina ove a’ tuoi cenni
mille stan pronti ognora argentei spilli.
O quante volte a cavalier sagace
ho vedut’io le man render beate
uno apprestato a tempo unico spillo!
Ma dove, ahi dove inonorato e solo
lasci ’l coltello a cui l’oro e l’acciaro
donâr gemina lama, e a cui la madre
de la gemma più bella d’Anfitrite
diè manico elegante ove il colore
con dolce varïar l’iride imìta?
Opra sol fia di lui se ne’ superbi
convivi ogni altro avanzerai per fama
d’esimio trinciatore, e se l’invidia
de’ tuoi gran pari ecciterai qualora,
pollo o fagian con la forcina in alto
sospeso, a un colpo il priverai dell’anca
mirabilmente. Or ti ricolmi alfine
d’ambo i lati la giubba, ed oleosa
Spagna e rapè cui semplice origuela
chiuda, o a molti colori oro dipinto;
e cupide ad ornar tue bianche dita
salgan le anella in fra le quali assai
più caro a te dell’adamante istesso
cerchietto inciso d’amorosi motti
stringati alquanto, e sovvenir ti faccia
de la pudica altrui sposa a te cara.

      Compiuto è il gran lavoro. Odi, o Signore,
sonar già intorno la ferrata zampa
de’ superbi corsier che irrequieti
ne’ grand’atri sospigne arretra e volge
la disciplina dell’ardito auriga.
Sorgi, e t’appresta a render baldi e lieti
del tuo nobile incarco i bruti ancora.
Ma a possente signor scender non lice
da le stanze superne infin che al gelo,
o al meriggio non abbia il cocchier stanco
durato un pezzo, onde l’uom servo intenda
per quanto immensa via natura il parta
dal suo signore. I miei precetti intanto
io seguirò; che varie al tuo mattino
portar dee cure il varïar dei giorni.

      Tal dì ti aspetta d’eloquenti fogli
serie a vergar, che al Rodano, al Lemano
all’ Amstel, al Tirreno, all’Adria legga
il libraio che Momo, e Citerea
colmâr di beni, o il più di lui possente
appaltator di forestiere scene
con cui per opra tua facil donzella
sua virtù merchi, e non sperato ottenga
guiderdone al suo canto. O di grand’alma
primo fregio ed onor Beneficenza,
che al merto porgi, ed a virtù la mano!
Tu il ricco e il grande sopra il vulgo innalzi,
ed al concilio de gli Dei lo aggiugni.

      Tal giorno ancora, o d’ogni giorno forse
den qualch’ore serbarsi al molle ferro
che il pelo a te rigermogliante a pena
d’in su la guancia miete, e par che invidj,
ch’altri fuor che lui solo esplori o scopra
unqua il tuo sesso. Arroge a questi il giorno
che di lavacro universal convienti
bagnar le membra, per tua propria mano,
o per altrui con odorose spugne
trascorrendo la cute. È ver che allora
d’esser mortal ti sembrerà; ma innalza
tu allor la mente, e de’ grand’avi tuoi
le imprese ti rimembra e gli ozj illustri
che insino a te per secoli cotanti
misti scesero al chiaro altero sangue,
e l’ubbioso pensier vedrai fuggirsi
lunge da te per l’aere rapito
su l’ale de la Gloria alto volanti;
et indi a poco sorgerai qual prima
gran Semidèo che a sé solo somiglia.
Fama è così, che il dì quinto le Fate
loro salma immortal vedean coprirsi
già d’orribili scaglie, e in feda serpe
volta strisciar sul suolo a sé facendo
de le inarcate spire impeto e forza;
ma il primo sol le rivedea più belle
far beati gli amanti, e a un volger d’occhi
mescere a voglia lor la terra e il mare.

      Fia d’uopo ancor, che da le lunghe cure
t’allevj alquanto, e con pietosa mano
il teso per gran tempo arco rallenti.
Signore, al ciel non è più cara cosa
di tua salute: e troppo a noi mortali
è il viver de’ tuoi pari util tesoro.
Tu adunque allor che placida mattina
vestita riderà d’un bel sereno
esci pedestre, e le abbattute membra
all’aura salutar snoda e rinfranca.
Di nobil cuojo a te la gamba calzi
purpureo stivaletto, onde il tuo piede
non macchino giammai la polve e ’l limo,
che l’uom calpesta. A te s’avvolga intorno
leggiadra veste che sul dorso sciolta
vada ondeggiando, e tue formose braccia
leghi in manica angusta a cui vermiglio
o cilestro velluto orni gli estremi.
Del bel color che l’elitropio tigne
sottilissima benda indi ti fasci
la snella gola: e il crin... Ma il crin, Signore,
forma non abbia ancor da la man dotta
dell’artefice suo; che troppo fora,
ahi! troppo grave error lasciar tant’opra
de le licenziose aure in balìa.
Non senz’arte però vada negletto
su gli omeri a cader; ma, o che natura
a te il nodrisca, o che da ignota fronte
il più famoso parrucchier lo tolga,
e l’adatti al tuo capo, in sul tuo capo
ripiegato l’afferri e lo sospenda
con testugginei denti il pettin curvo.

      Poi che in tal guisa te medesmo ornato
con artificio negligente avrai,
esci pedestre a respirar talvolta
l’aere mattutino; e ad alta canna
appoggiando la man, quasi baleno
le vie trascorri, e premi ed urta il volgo
che s’oppone al tuo corso. In altra guisa
fora colpa l’uscir, però che andriéno
mal distinti dal vulgo i primi eroi.

      Ciò ti basti per or. Già l’oriolo
a girtene ti affretta. Ohimè che vago
arsenal minutissimo di cose
ciondola quindi, e ripercosso insieme
molce con soavissimo tintinno!
di costì che non pende? avvi per fino
piccioli cocchi e piccioli destrieri
finti in oro così, che sembran vivi.
Ma v’hai tu il meglio? ah sì, che i miei precetti
sagace prevenisti: ecco che splende
chiuso in picciol cristallo il dolce pegno
di fortunato amor. Lunge o profani,
che a voi tant’oltre penetrar non lice.
E voi dell’altro secolo feroci,
ed ispid’avi i vostri almi nipoti
venite oggi a mirar. Co’ sanguinosi
pugnali a lato le campestri rocche
voi godeste abitar, truci all’aspetto,
e per gran baffi rigidi la guancia
consultando gli sgherri, e sol giojendo
di trattar l’arme che d’orribil palla
givan notturne a traforar le porte
del non meno di voi rivale armato.
Ma i vostri almi nipoti oggi si stanno
ad agitar fra le tranquille dita
Dell’oriolo i ciondoli vezzosi;
ed opra è lor se all’innocenza antica
torna pur anco, e bamboleggia, il mondo.

      Or vanne, o mio signore, e il pranzo allegra
de la tua dama: a lei dolce ministro
dispensa i cibi, e detta al suo palato
e a la sua fame inviolabil legge.
Ma tu non obliar, che in nulla cosa
esser mediocre a gran Signor non lice:
abbia il popol confini; a voi natura
donò senza confini e mente, e cuore.
Dunque a la mensa, o tu schifo rifuggi
ogni vivanda, e te medesmo rendi
per inedia famoso, o nome acquista
d’illustre voratore. Intanto addio
degli uomini delizia, e di tua stirpe,
e de la patria tua gloria e sostegno.
Ecco che umìli in bipartita schiera
t’accolgono i tuoi servi: altri già pronto
via se ne corre ad annunciare al mondo,
che tu vieni a bearlo; altri a le braccia
timido ti sostien mentre il dorato
cocchio tu sali, e tacito, e severo
sur un canto ti sdrai. Apriti o vulgo,
e cedi il passo al trono ove s’asside
il mio signore: ahi te meschin s’ei perde
un sol per te de’ preziosi istanti.
Temi ’l non mai da legge, o verga, o fune
domabile cocchier, temi le rote,
che già più volte le tue membra in giro
avvolser seco, e del tuo impuro sangue
corser macchiate, e il suol di lunga striscia,
spettacol miserabile! segnâro.

 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998