Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo l’edizione di Milano, 1763)
vv. 610-895

      Tu de la Francia onor, tu in mille scritti
celebrata Ninon novella Aspasia,
Taide novella ai facili sapienti
de la gallica Atene i tuoi precetti
pur dona al mio signore: e a lui non meno
pasci la nobil mente o tu ch’a Italia,
poi che rapîrle i tuoi l’oro e le gemme,
invidiasti il fedo loto ancora
onde macchiato è il certaldese, e l’altro
per cui va sì famoso il pazzo conte.

      Questi, o signore, i tuoi studiati autori
fieno e mill’altri che guidâro in Francia
a novellar con le vezzose schiave
i bendati sultani i regi persi,
e le peregrinanti arabe dame;
o che con penna liberale ai cani
ragion donâro e ai barbari sedili,
e diêr feste e conviti e liete scene
ai polli ed a le gru d’amor maestre.

      O pascol degno d’anima sublime!
O chiara o nobil mente! A te ben dritto
è che si curvi riverente il vulgo,
e gli oracoli attenda. Or chi fia dunque
sì temerario che in suo cor ti beffi
qualor partendo da sì begli studj
del tuo paese l’ignoranza accusi,
e tenti aprir col tuo felice raggio
la gotica caligine che annosa
siede su gli occhi a le misere genti?
Così non mai ti venga estranea cura
questi a troncar sì preziosi istanti
in cui non meno de la docil chioma
coltivi ed orni il penetrante ingegno.

      Non pertanto avverrà, che tu sospenda
quindi a pochi momenti i cari studj,
e che ad altro ti volga. A te quest’ora
condurrà il merciajuol che in patria or torna
pronto inventor di lusinghiere fole,
e liberal di forestieri nomi
a merci che non mai varcâro i monti.
Tu a lui credi ogni detto: e chi vuoi, ch’osi
unqua mentire ad un tuo pari in faccia?
Ei fia che venda, se a te piace, o cambj
mille fregi e giojelli a cui la moda
di viver concedette un giorno intero
tra le folte d’inezie illustri tasche:
poi lieto sen andrà con l’una mano
pesante di molt’oro; e in cor giojendo,
spregerà le bestemmie imprecatrici,
e il gittato lavoro, e i vani passi
del calzolar diserto, e del drappiere;
e dirà lor: ben degna pena avete
o troppo ancor religiosi servi
de la necessitade, antiqua è vero
madre e donna dell’arti, or nondimeno
fatta cenciosa e vile. Al suo possente
amabil vincitor v’era assai meglio,
o miseri, ubbidire. Il lusso il lusso
oggi sol puote dal ferace corno
versar sull’arti a lui vassalle applausi
e non contesi mai premj e dovizie.

      L’ora fia questa ancor che a te conduca
il dilicato miniator di belle,
ch’è de la corte d’Amatunta e Pafo
stipendiato ministro atto a gli affari
sollecitar dell’amorosa dea.
Impaziente or tu l’affretta e sprona
perché a te porga il desiato avorio
che de le amate forme impresso ride,
o che il pennel cortese ivi dispieghi
l’alme sembianze del tuo viso ond’abbia
tacito pasco allor che te non vede
la pudica d’altrui sposa a te cara;
o che di lei medesma al vivo esprima
l’imagin vaga; o se ti piace, ancora
d’altra fiamma furtiva a te presenti
con più largo confin le amiche membra.

      Ma poi che al fine a le tue luci esposto
fia il ritratto gentil, tu cauto osserva
se bene il simulato al ver risponda,
vie più rigido assai se il tuo sembiante
esprimer denno i colorati punti
che l’arte ivi dispose. O quante mende
scorger tu vi saprai! Or brune troppo
a te parran le guance; or fia ch’ecceda
mal frenata la bocca; or qual conviensi
al camuso etiòpe il naso fia.
Ti giovi ancora d’accusar sovente
il dipintor, che non atteggi industre
l’agili membra e il dignitoso busto,
o che con poca legge a la tua imago
dia contorno o la posi o la panneggi.

      È ver, che tu del grande di Crotone
non conosci la scuola; e mai tua mano
non abbassossi a la volgar matita
che fu nell’altra età cara a’ tuoi pari
cui sconosciute ancora eran più dolci
e più nobili cure a te serbate.
Ma che non puote quel d’ogni precetto
gusto trionfator che all’ordin vostro
in vece di maestro il Ciel concesse,
et onde a voi coniò le altere menti
acciò che possan de’ volgari ingegni
oltre passar la paludosa nebbia,
e d’aere più puro abitatrici
non fallibili scerre il vero e il bello?

      Perciò qual più ti par loda, riprendi
non men fermo d’allor che a scranna siedi
Rafael giudicando, o l’altro eguale
che del gran nome suo l’Adige onora:
e a le tavole ignote i noti nomi
grave comparti di color che primi
fûr tra’ pittori. Ah s’altri è sì procace
ch’osi rider di te, costui paventi
l’augusta maestà del tuo cospetto,
si volga a la parete; e mentr’ei cerca
por freno in van col morder de le labbra
allor scrosciar de le importune risa
che scoppian da’ precordj, violenta
convulsione a lui deformi il volto,
e lo affoghi aspra tosse; e lo punisca
di sua temerità. Ma tu non pensa
ch’altri ardisca di te rider giammai;
e mai sempre imperterrito decidi.

      Or l’immagin compiuta intanto serba
perché in nobile arnese un dì si chiuda
con opposto cristallo ove tu facci
sovente paragon di tua beltade
con la beltà de la tua dama; o agli occhi
degl’invidi la tolga, e in sen l’asconda
sagace tabacchiera, o a te riluca
sul minor dito fra le gemme e l’oro;
o de le grazie del tuo viso desti
soavi rimembranze al braccio avvolta
de la pudica altrui sposa a te cara.

      Ma giunta è al fin del dotto pettin l’opra.
Già il maestro elegante intorno spande
da la man scossa un polveroso nembo
onde a te innanzi tempo il crine imbianchi.

      D’orribil piato risonar s’udìo
già la corte d’Amore. I tardi vegli
grinzuti osâr coi giovani nipoti
contendere di grado in faccia al soglio
del comune Signor. Rise la fresca
gioventude animosa, e d’agri motti
libera punse la senil baldanza.
Gran tumulto nascea, se non che Amore
ch’ogni diseguaglianza odia in sua corte
a spegner mosse i perigliosi sdegni:
e a quei che militando incanutîro
suoi servi impose d’imitar con arte
i duo bei fior che in giovenile gota
educa e nutre di sua man natura:
indi fé cenno, e in un balen fûr visti
mille alati ministri alto volando
scoter le piume, e lieve indi fiocconne
candida polve che a posar poi venne
su le giovani chiome; e in bianco volse
il biondo, il nero, e l’odiato rosso.
L’occhio così nell’amorosa reggia
più non distinse le due opposte etadi,
e solo vi restò giudice il tatto.

      Or tu adunque, o Signor, tu che se’ il primo
fregio ed onor dell’amoroso regno
i sacri usi ne serba. Ecco che sparsa
pria da provvida man la bianca polve
in piccolo stanzin con l’aere pugna,
e degli atomi suoi tutto riempie
egualmente divisa. Or ti fa cuore,
e in seno a quella vorticosa nebbia
animoso ti avventa. O bravo o forte!
Tale il grand’avo tuo tra ’l fumo e ’l foco
orribile di Marte, furiando
gittossi allor che i palpitanti Lari
de la patria difese, e ruppe e in fuga
mise l’oste feroce. Ei non pertanto
fuliginoso il volto, e d’atro sangue
asperso e di sudore, e co’ capegli
stracciati ed irti da la mischia uscìo
spettacol fero a’ cittadini istessi
per sua man salvi; ove tu assai più dolce
e leggiadro a vedersi, in bianca spoglia
uscirai quindi a poco a bear gli occhi
de la cara tua patria a cui dell’avo
il forte braccio, e il viso almo, celeste
del nipote dovean portar salute.

      Ella ti attende impaziente, e mille
anni le sembra il tuo tardar poc’ore.
È tempo omai che i tuoi valetti al dorso
con lieve man ti adattino le vesti
cui la Moda e ’l Buongusto in su la Senna
t’abbian tessute a gara, e qui cucite
abbia ricco sartor che in su lo scudo
mostri intrecciato a forbici eleganti
il titol di Monsieur. Non sol dia leggi
a la materia la stagion diverse;
ma sien qual si conviene al giorno e all’ora
sempre varj il lavoro e la ricchezza.

      Fero genio di Marte a guardar posto
de la stirpe de’ numi il caro fianco,
tu al mio giovane eroe la spada or cingi
lieve e corta non già, ma, qual richiede
la stagion bellicosa, al suol cadente,
e di triplice taglio armata e d’elsa
immane. Quanto esser può mai sublime
l’annoda pure, onde l’impugni all’uopo
la furibonda destra in un momento:
né disdegnar con le sanguigne dita
di ripulire et ordinar quel nodo
onde l’elsa è superba; industre studio
è di candida mano: al mio signore
dianzi donollo, e gliel appese al brando
la pudica d’altrui sposa a lui cara.
Tal del famoso Artù vide la corte
le infiammate d’amor donzelle ardite
ornar di piume e di purpuree fasce
i fatati guerrieri, onde più ardenti
gisser poi questi ad incontrar periglio
in selve orrende tra i giganti e i mostri.

      Figlie de la memoria inclite suore
che invocate scendeste, e i feri nomi
de le squadre diverse e degli eroi
annoveraste ai grandi che cantâro
Achille, Enea, e il non minor Buglione,
or m’è d’uopo di voi: tropp’ardua impresa,
e insuperabil senza vostr’aita
fia ricordare al mio signor di quanti
leggiadri arnesi graverà sue vesti
pria che di se medesmo esca a far pompa.

      Ma qual tra tanti e sì leggiadri arnesi
sì felice sarà che pria d'ogn'altro,
signor, venga a formar tua nobil soma?
Tutti importan del par. Veggo l’astuccio
di pelle rilucente ornato e d’oro
sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero
occupar di sua mole: esso a mill’uopi
opportuno si vanta, e in grembo a lui
atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne
vien forbita famiglia. A lui contende
i primi onori d’odorifer’onda
colmo cristal che a la tua vita in forse
rechi soccorso allor che il vulgo ardisce
troppo accosto vibrar da la vil salma
fastidiosi effluvj a le tue nari.
Né men pronto di quella all’uopo istesso
l’imitante un cuscin purpureo drappo
mostra turgido il sen d’erbe odorate
che l’aprica montagna in tuo favore
al possente meriggio educa e scalda.
Seco vien pur di cristallina rupe
prezïoso vasello onde traluce
non volgare confetto ove agli aromi
stimolanti s’unìo l’ambra o la terra,
che il Giappon manda a profumar de’ grandi
l’etereo fiato; o quel che il caramano
fa gemer latte dall’inciso capo
de’ papaveri suoi perché, qualora
non ben felice amor l’alma t’attrista,
lene serpendo per le membra, acqueti
a te gli spirti, e ne la mente induca
lieta stupidità che mille aduni
imagin dolci e al tuo desìo conformi.
A questi arnesi il cannocchiale aggiugni,
e la guernita d’oro anglica lente.
Quel notturno favor ti presti allora
che in teatro t’assidi, e t’avvicini
gli snelli piedi e le canore labbra
da la scena rimota, o con maligno
occhio ricerchi di qualch’alta loggia
le abitate tenebre, o miri altrove
gli ognor nascenti e moribondi amori
de le tenere dame onde s’appresti
per l’eloquenza tua nel dì vicino
lunga e grave materia. A te la lente
nel giorno assista, e de gli sguardi tuoi
economa presieda, e sì li parta,
che il mirato da te vada superbo,
né i malvisti accusarti osin giammai.
La lente ancora all’occhio tuo vicina
irrefragabil giudice condanni
o approvi di Palladio i muri e gli archi
o di Tizian le tele: essa a le vesti,
ai libri, ai volti feminili applauda
severa o li dispregi. E chi del senso
comun sì privo fia che opporsi unquanco
osi al sentenzïar de la tua lente?

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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998