Giuseppe Parini

Il Giorno


Il Mattino
(secondo l’edizione di Milano, 1763)
vv. 313-609

      Tempo già fu, che il pargoletto Amore
dato era in guardia al suo fratello Imene;
poiché la madre lor temea, che il cieco
incauto nume perigliando gisse
misero e solo per oblique vie,
e che bersaglio agl’indiscreti colpi
di senza guida, e senza freno arciero,
troppo immaturo al fin corresse il seme
uman ch’è nato a dominar la terra.
Perciò la prole mal secura all’altra
in cura dato avea, sì lor dicendo:
«Ite o figli del par; tu più possente
il dardo scocca, e tu più cauto il guida
a certa meta». Così ognor compagna
iva la dolce coppia, e in un sol regno,
e d’un nodo comun l’alme stringea.
Allora fu che il sol mai sempre uniti
vedea un pastore, ed una pastorella
starsi al prato, a la selva, al colle, al fonte;
e la suora di lui vedeali poi
uniti ancor nel talamo beato
ch’ambo gli amici numi a piene mani
gareggiando spargean di gigli e rose.
Ma che non puote anco in divino petto,
se mai s’accende ambizion di regno?
Crebber l’ali ad Amore a poco a poco,
e la forza con esse; ed è la forza
unica e sola del regnar maestra.
Perciò a poc’aere prima, indi più ardito
a vie maggior fidossi, e fiero alfine
entrò nell’alto, e il grande arco crollando,
e il capo, risonar fece a quel moto
il duro acciar che la faretra a tergo
gli empie, e gridò: solo regnar vogl’io.
Disse, e volto a la madre «Amore adunque
il più possente in fra gli dei, il primo
di Citerea figliuol ricever leggi,
e dal minor german ricever leggi
vile alunno, anzi servo? Or dunque Amore
non oserà fuor ch’una unica volta
ferire un’alma come questo schifo
da me vorrebbe? E non potrò giammai
dappoi ch’io strinsi un laccio, anco slegarlo
a mio talento, e qualor parmi un altro
stringerne ancora? E lascerò pur ch’egli
di suoi unguenti impeci a me i miei dardi
perché men velenosi e men crudeli
scendano ai petti? Or via perché non togli
a me da le mie man quest’arco, e queste
armi da le mie spalle, e ignudo lasci
quasi rifiuto de gli dèi, Cupido?
O il bel viver che fia qualor tu solo
regni in mio loco! O il bel vederti, lasso!
Studiarti a torre da le languid’alme
la stanchezza e ’l fastidio, e spander gelo
di foco in vece! Or genitrice intendi,
vaglio, e vo’ regnar solo. A tuo piacere
tra noi parti l’impero, ond’io con teco
abbia omai pace, e in compagnìa d’Imene
me non trovin mai più le umane genti».
Qui tacque Amore, e minaccioso in atto,
parve all’idalia dea chieder risposta.
Ella tenta placarlo, e pianti e preghi
sparge ma in vano; onde a’ due figli volta
con questo dir pose al contender fine.
«Poiché nulla tra voi pace esser puote,
si dividano i regni. E perché l’uno
sia dall’altro germano ognor disgiunto,
sieno tra voi diversi, e ’l tempo, e l’opra.
Tu che di strali altero a fren non cedi
l’alme ferisci, e tutto il giorno impera:
e tu che di fior placidi hai corona
le salme accoppia, e coll’ardente face
regna la notte.» Ora di qui, signore,
venne il rito gentil che a’ freddi sposi
le tenebre concede, e de le spose
le caste membra: e a voi beata gente
di più nobile mondo il cor di queste,
e il dominio del dì, largo destìna.
Fors’anco un dì più liberal confine
vostri diritti avran, se Amor più forte
qualche provincia al suo germano usurpa:
così giova sperar. Tu volgi intanto
a’ miei versi l’orecchio, et odi or quale
cura al mattin tu debbi aver di lei
che spontanea o pregata, a te donossi
per tua dama quel dì lieto che a fida
carta, non senza testimonj furo
a vicenda commessi i patti santi,
e le condizïon del caro nodo.

      Già la dama gentil de’ cui bei lacci
godi avvinto sembrar le chiare luci
col novo giorno aperse; e suo primiero
pensier fu dove teco abbia piuttosto
a vegliar questa sera, e consultonne
contegnosa lo sposo il qual pur dianzi
fu la mano a baciarle in stanza ammesso.

      Or dunque è tempo che il più fido servo
e il più accorto tra i tuoi mandi al palagio
di lei chiedendo se tranquilli sonni
dormìo la notte, e se d’imagin liete
le fu Mòrfeo cortese. È ver che ieri
sera tu l’ammirasti in viso tinta
di freschissime rose; e più che mai
vivace e lieta uscìo teco del cocchio,
e la vigile tua mano per vezzo
ricusò sorridendo allor che l’ampie
scale salì del maritale albergo:
ma ciò non basti ad acquetarti, e mai
non obliar sì giusti ufici. Ahi quanti
Genj malvagi tra ’l notturno orrore
godono uscire ed empier di perigli
la placida quïete de’ mortali!

      Potria, tolgalo il cielo, il picciol cane
con latrati improvvisi i cari sogni
troncare a la tua dama, ond’ella, scossa
da sùbito capriccio, a rannicchiarsi
astretta fosse, di sudor gelato
e la fronte bagnando, e il guancial molle.
Anco potria colui che, sì de’ tristi
come de’ lieti sogni è genitore,
crearle in mente di diverse idee
in un congiunte orribile chimera,
onde agitata in ansioso affanno
gridar tentasse, e non però potesse
aprire ai gridi tra le fauci il varco.
Sovente ancor ne la trascorsa sera
la perduta tra ’l gioco aurea moneta
non men che al cavalier, suole a la dama
lunga vigilia cagionar: talora
nobile invidia de la bella amica
vagheggiata da molti, e talor breve
gelosìa n’è cagione. A questo aggiugni
gl’importuni mariti i quali in mente
ravvolgendosi ancor le viete usanze,
poi che cessero ad altri il giorno, quasi
abbian fatto gran cosa, aman d’Imene
con superstizion serbare i dritti,
e dell’ombre notturne esser tiranni,
non senz’affanno de le caste spose
ch’indi preveggon tra poc’anni il fiore
de la fresca beltade a sé rapirsi.

      Or dunque ammaestrato a quali e quanti
miseri casi espor soglia il notturno
orror le dame, tu non esser lento,
signore, a chieder de la tua novelle.

      Mentre che il fido messaggier si attende,
magnanimo signor, tu non starai
ozioso però. Nel dolce campo
pur in questo momento il buon cultore
suda, e incallisce al vomere la mano,
lieto, che i suoi sudor ti fruttin poi
dorati cocchi, e peregrine mense.
Ora per te l’industre artier sta fiso
allo scarpello, all’asce, al subbio, all’ago;
ed ora a tuo favor contende, o veglia
il ministro di Temi. Ecco te pure
te la toilette attende: ivi i bei pregi
de la natura accrescerai con l’arte,
ond’oggi uscendo, del beante aspetto
beneficar potrai le genti, e grato
ricompensar di sue fatiche il mondo.

      Ma già tre volte e quattro il mio signore
velocemente il gabinetto scorse
col crin disciolto e su gli omeri sparso,
quale a Cuma solea l’orribil maga
quando agitata dal possente nume
vaticinar s’udìa. Così dal capo
evaporar lasciò degli olj sparsi
il nocivo fermento, e de le polvi
che roder gli potrien la molle cute,
o d’atroce emicrania a lui le tempia
trafigger anco. Or egli avvolto in lino
candido siede. Avanti a lui lo specchio
altero sembra di raccor nel seno
l’imagin diva: e stassi agli occhi suoi
severo esplorator de la tua mano
o di bel crin volubile architetto.
Mille d’intorno a lui volano odori
che a le varie manteche ama rapire
l’auretta dolce, intorno ai vasi ugnendo
le leggerissim’ale di farfalla.
Tu chiedi in prima a lui qual più gli aggrada
sparger sul crin, se il gelsomino, o il biondo
fior d’arancio piuttosto, o la giunchiglia,
o l’ambra preziosa agli avi nostri.
Ma se la sposa altrui, cara al signore,
del talamo nuzial si duole, e scosse
pur or da lungo peso il molle lombo,
ah fuggi allor tutti gli odori, ah fuggi;
che micidial potresti a un sol momento
tre vite insidiar: semplici sieno
i tuoi balsami allor, né oprarli ardisci
pria che su lor deciso abbian le nari
del mio signore, e tuo. Pon mano poscia
al pettin liscio, e coll’ottuso dente
lieve solca i capegli; indi li turba
col pettine e scompiglia: ordin leggiadro
abbiano alfin da la tua mente industre.

      Io breve a te parlai; ma non pertanto
lunga fia l’opra tua; né al termin giunta
prima sarà, che da più strani eventi
turbisi e tronchi a la tua impresa il filo.
Fisa i lumi allo speglio, e vedrai quivi
non di rado il signor morder le labbra
impaziente, ed arrossir nel viso.
Sovente ancor se artificiosa meno
fia la tua destra, del convulso piede
udrai lo scalpitar breve e frequente,
non senza un tronco articolar di voce
che condanni, e minacci. Anco t’aspetta
veder talvolta il mio signor gentile
furiando agitarsi, e destra e manca
porsi nel crine; e scompigliar con l’ugna
lo studio di molt’ore in un momento.
Che più? Se per tuo male un dì vaghezza
d’accordar ti prendesse al suo sembiante
l’edificio del capo, ed obliassi
di prender legge da colui che giunse
pur jer di Francia, ahi quale atroce folgore,
meschino! allor ti penderìa sul capo?
che il tuo signor vedresti ergers’in piedi;
e versando per gli occhi ira e dispetto,
mille strazj imprecarti; e scender fino
ad usurpar le infami voci al vulgo
per farti onta maggiore; e di bastone
il tergo minacciarti; e violento
rovesciare ogni cosa, al suol spargendo
rotti cristalli e calamistri e vasi
e pettini ad un tempo. In cotal guisa,
se del Tonante all’ara o de la Dea,
che ricovrò dal Nilo il turpe Phallo,
Tauro spezzava i raddoppiati nodi
e libero fuggìa, vedeansi al suolo
vibrar tripodi, tazze, bende, scuri,
litui, coltelli, e d’orridi muggiti
commosse rimbombar le arcate volte,
e d’ogni lato astanti e sacerdoti
pallidi all’urto e all’impeto involarsi
del feroce animal che pria sì queto
gìa di fior cinto, e sotto la man sacra
umilïava le dorate corna.
Tu non pertanto coraggioso e forte
soffri, e ti serba a la miglior fortuna.
Quasi foco di paglia è il foco d’ira
in nobil cor. Tosto il signor vedrai
mansuefatto a te chieder perdono,
e sollevarti oltr’ogni altro mortale
con preghi e scuse a niun altro concesse;
onde securo sacerdote allora
l’immolerai qual vittima a Filauzio
sommo Nume de’ Grandi, e pria d’ognaltro
larga otterrai del tuo lavor mercede.

      Or, signore, a te riedo. Ah non sia colpa
dinanzi a te s’io travviai col verso
breve parlando ad un mortal cui degni
tu degli arcani tuoi. Sai, che a sua voglia
questi ogni dì volge, e governa i capi
de’ più felici spirti; e le matrone,
che da’ sublimi cocchi alto disdegnano
volgere il guardo a la pedestre turba,
non disdegnan sovente entrar con lui
in festevoli motti allor ch’esposti
a la sua man sono i ridenti avorj
del bel collo e del crin l’aureo volume.
Perciò accogli ti prego i versi miei
tuttor benigno: et odi or come possi
l’ore a te render graziose mentre
dal pettin creator tua chioma acquista
leggiadra o almen non più veduta forma.

      Picciol libro elegante a te dinanzi
tra gli arnesi vedrai che l’arte aduna
per disputare a la natura il vanto
del renderti sì caro agli occhi altrui.
Ei ti lusingherà forse con liscia
purpurea pelle onde fornito avrallo
o mauritano conciatore, o siro;
e d’oro fregi dilicati, e vago
mutabile color che il collo imiti
de la colomba v’avrà posto intorno
squisito legator batavo, o franco.
Ora il libro gentil con lenta mano
togli; e non senza sbadigliare un poco
aprilo a caso, o pur là dove il parta
tra una pagina e l’altra indice nastro.

      O de la Francia Proteo multiforme
Voltaire troppo biasmato e troppo a torto
lodato ancor che sai con novi modi
imbandir ne’ tuoi scritti eterno cibo
ai semplici palati; e se’ maestro
di coloro che mostran di sapere,
tu appresta al mio signor leggiadri studj
con quella tua fanciulla agli angli infesta
che il grande Enrico tuo vince d’assai,
l’Enrico tuo che non peranco abbatte
l’italian Goffredo ardito scoglio
contro a la Senna d’ogni vanto altera.

 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998