Giuseppe Parini

Il Giorno

Il Mattino
(secondo l’edizione di Milano, 1763)
vv. 1-312

Alla Moda

Lungi da queste carte i cisposi occhi già da un secolo rintuzzati, lungi i fluidi nasi de’ malinconici vegliardi. Qui non si tratta di gravi ministeri nella patria esercitati, non di severe leggi, non di annoiante domestica economia, misero appannaggio della canuta età. A te, vezzosissima dea, che non sí dolci redine oggi temperi e governi la nostra brillante gioventù, a te sola questo piccolo libretto si dedica e si consagra. Chi è che te, qual sommo nume, oggimai non riverisca ed onori, poiché in sí breve tempo se’ giunta a debellar la ghiacciata Ragione, il pedante Buon Senso e l’Ordine seccagginoso, tuoi capitali nemici, ed hai sciolto dagli antichissimi lacci questo secolo avventurato? Piacciati adunque di accogliere sotto alla tua protezione (ché forse non n’è indegno) questo piccolo poemetto. Tu il reca su i pacifici altari, ove le gentili dame e gli amabili garzoni sagrificano a se medesimi le mattutine ore. Di questo solo egli è vago, e di questo solo andrà superbo e contento. Per esserti più caro egli ha scosso il giogo della servile rima, e se ne va libero in versi sciolti, sapendo che tu di questi specialmente ora godi e ti compiaci. Esso non aspira all’immortalità, come altri libri, troppo lusingati da’ loro autori, che tu, repentinamente sopravvenendo, hai seppelliti nell’oblio. Siccome egli è per te nato, e consagrato a te sola, così fie pago di vivere quel solo momento, che tu ti mostri sotto un medesimo aspetto, e pensi a cangiarti, e risorgere in più graziose forme. Se a te piacerà di riguardare con placid’occhio questo Mattino, forse gli succederanno il Mezzogiorno e la Sera; e il loro autore si studierà di comporli ed ornarli in modo, che non men di questo abbiano ad esserti cari.

(riassunto come per la Gerus. Lib.) - in preparazione

      Giovin Signore, o a te scenda per lungo
di magnanimi lombi ordine il sangue
purissimo celeste, o in te del sangue
emendino il difetto i compri onori
e le adunate in terra o in mar ricchezze
dal genitor frugale in pochi lustri,
me precettor d’amabil rito ascolta.

      Come ingannar questi nojosi e lenti
giorni di vita, cui sì lungo tedio
e fastidio insoffribile accompagna
or io t’insegnerò. Quali al mattino,
quai dopo il mezzodì, quali la sera
esser debban tue cure apprenderai,
se in mezzo agli ozj tuoi ozio ti resta
pur di tender gli orecchi a’ versi miei.

      Già l’are a Vener sacre e al giocatore
mercurio ne le Gallie e in Albïone
devotamente hai visitate, e porti
pur anco i segni del tuo zelo impressi:
ora è tempo di posa. In vano Marte
a sé t’invita; che ben folle è quegli
che a rischio de la vita onor si merca,
e tu naturalmente il sangue aborri
né i mesti de la Dea Pallade studj
ti son meno odiosi: avverso ad essi
ti feron troppo i queruli ricinti
ove l’arti migliori, e le scienze
cangiate in mostri, e in vane orride larve,
fan le capaci volte echeggiar sempre
di giovanili strida. Or primamente
odi quali il mattino a te soavi
cure debba guidar con facil mano.

      Sorge il mattino in compagnìa dell’alba
innanzi al sol che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa, e i minori
suoi figlioletti intepidìr la notte;
poi sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovâr Cerere, e Pale,
va col bue lento innanzi al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette, o se di chiave
ardua e ferrati ingegni all’inquieto
ricco l’arche assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol giojelli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.

      Ma che? tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
jeri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.

      A voi celeste prole, a voi concilio
di Semidei terreni altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.

      Tu tra le veglie, e le canore scene,
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e stanco alfine
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote, e il calpestìo
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenèbre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite.

      Così tornasti a la magion; ma quivi
a novi studj ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi cibi
e licor lieti di francesi colli,
o d’ispani, o di toschi, o l’ongarese
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona; e disse: siedi
de le mense reina. Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide coltrici
di propria mano, ove, te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine:
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo che li suole aprire altrui.

      Dritto è perciò, che a te gli stanchi sensi
non sciolga da’ papaveri tenaci
Morfeo prima, che già grande il giorno
tenti di penetrar fra gli spiragli
de le dorate imposte, e la parete
pingano a stento in alcun lato i raggi
del sol ch’eccelso a te pende sul capo.
Or qui principio le leggiadre cure
denno aver del tuo giorno; e quinci io debbo
sciorre il mio legno, e co’ precetti miei
te ad alte imprese ammaestrar cantando.

      Già i valetti gentili udîr lo squillo
del vicino metal cui da lontano
scosse tua man col propagato moto;
e accorser pronti a spalancar gli opposti
schermi a la luce, e rigidi osservâro,
che con tua pena non osasse Febo
entrar diretto a saettarti i lumi.
Ergiti or tu alcun poco, e sì ti appoggia
alli origlieri i quai lenti gradando
all’omero ti fan molle sostegno.
Poi coll’indice destro, lieve lieve
sopra gli occhi scorrendo, indi dilegua
quel che riman de la cimmeria nebbia;
e de’ labbri formando un picciol arco,
dolce a vedersi, tacito sbadiglia.
Oh! se te in sì gentile atto mirasse
il duro capitan qualor tra l’armi,
sgangherando le labbra, innalza un grido
lacerator di ben costrutti orecchi,
onde a le squadre varj moti impone;
se te mirasse allor, certo vergogna
avria di sé più che Minerva il giorno
che, di flauto sonando, al fonte scorse
il turpe aspetto de le guance enfiate.

      Ma già il ben pettinato entrar di novo
tuo damigello i’ veggo; egli a te chiede
quale oggi più de le bevande usate
sorbir ti piaccia in preziosa tazza:
indiche merci son tazze e bevande;
scegli qual più desii. S’oggi ti giova
porger dolci allo stomaco fomenti,
sì che con legge il natural calore
v’arda temprato, e al digerir ti vaglia,
scegli ’l brun cioccolatte, onde tributo
ti dà il guatimalese e il caribbèo
c’ha di barbare penne avvolto il crine:
ma se nojosa ipocondrìa t’opprime,
o troppo intorno a le vezzose membra
adipe cresce, de’ tuoi labbri onora
la nettarea bevanda ove abbronzato
fuma, ed arde il legume a te d’Aleppo
giunto, e da Moca che di mille navi
popolata mai sempre insuperbisce.

      Certo fu d’uopo, che dal prisco seggio
uscisse un regno, e con ardite vele
fra straniere procelle e novi mostri
e teme e rischi ed inumane fami
superasse i confin, per lunga etade
inviolati ancora: e ben fu dritto
se Cortes, e Pizzarro umano sangue
non istimâr quel ch’oltre l’Oceàno
scorrea le umane membra, onde tonando
e fulminando, alfin spietatamente
balzaron giù da’ loro aviti troni
re messicani e generosi Incassi,
poiché nuove così venner delizie,
o gemma degli eroi, al tuo palato.

      Cessi ’l cielo però, che in quel momento
che la scelta bevanda a sorbir prendi,
servo indiscreto a te improvviso annunzj
il villano sartor che, non ben pago
d’aver teco diviso i ricchi drappi,
oso sia ancor con pòlizza infinita
a te chieder mercede: ahimè, che fatto
quel salutar licore agro e indigesto
tra le viscere tue, te allor farebbe
e in casa e fuori e nel teatro e al corso
ruttar plebejamente il giorno intero!

      Ma non attenda già ch’altri lo annunzj
gradito ognor, benché improvviso, il dolce
mastro che i piedi tuoi come a lui pare
guida, e corregge. Egli all’entrar si fermi
ritto sul limitare, indi elevando
ambe le spalle, qual testudo il collo
contragga alquanto; e ad un medesmo tempo
inchini ’l mento, e con l’estrema falda
del piumato cappello il labbro tocchi.

      Non meno di costui facile al letto
del mio signor t’accosta, o tu che addestri
a modular con la flessibil voce
teneri canti, e tu che mostri altrui
come vibrar con maestrevol arco
sul cavo legno armoniose fila.

      Né la squisita a terminar corona
d’intorno al letto tuo manchi, o signore,
il precettor del tenero idioma
che da la Senna de le Grazie madre
or ora a sparger di celeste ambrosia
venne all’Italia nauseata i labbri.
All’apparir di lui l’itale voci
tronche cedano il campo al lor tiranno;
e a la nova ineffabile armonìa
de’ soprumani accenti, odio ti nasca
più grande in sen contro alle impure labbra
ch’osan macchiarsi ancor di quel sermone
onde in Valchiusa fu lodata e pianta
già la bella francese, et onde i campi
all’orecchio dei re cantati furo
lungo il fonte gentil de le bell’acque.
Misere labbra che temprar non sanno
con le galliche Grazie il sermon nostro,
sì che men aspro a’ dilicati spirti,
e men barbaro suon fieda gli orecchi!

      Or te questa, o signor, leggiadra schiera
trattenga al novo giorno; e di tue voglie
irresolute ancora or l’uno, or l’altro
con piacevoli detti il vano occùpi,
mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi
dell’ardente bevanda a qual cantore
nel vicin verno si darà la palma
sopra le scene; e s’egli è il ver, che rieda
l’astuta Frine che ben cento folli
milordi rimandò nudi al Tamigi;
o se il brillante danzator Narcisso
tornerà pure ad agghiacciare i petti
de’ palpitanti Italici mariti.

      Poiché così gran pezzo a’ primi albori
del tuo mattin teco scherzato fia
non senz’aver licenziato prima
l’ipocrita pudore, e quella schifa,
cui le accigliate gelide matrone
chiaman modestia, alfine o a lor talento,
o da te congedati escan costoro.
Doman si potrà poscia, o forse l’altro
giorno a’ precetti lor porgere orecchio,
se meno ch’oggi a te cure dintorno
porranno assedio. A voi divina schiatta,
vie più che a noi mortali il ciel concesse
domabile midollo entro al cerèbro,
sì che breve lavor basta a stamparvi
novelle idee. In oltre a voi fu dato
tal de’ sensi e de’ nervi e degli spirti
moto e struttura, che ad un tempo mille
penetrar puote, e concepir vostr’alma
cose diverse, e non però turbarle
o confonder giammai, ma scevre e chiare
ne’ loro alberghi ricovrarle in mente.

      Il vulgo intanto a cui non dessi il velo
aprir de’ venerabili misterj,
fie pago assai, poi che vedrà sovente
ire e tornar dal tuo palagio i primi
d’arte maestri, e con aperte fauci
stupefatto berà le tue sentenze.

      Ma già vegg’io, che le oziose lane
soffrir non puoi più lungamente, e in vano
te l’ignavo tepor lusinga e molce,
però che or te più gloriosi affanni
aspettan l’ore a trapassar del giorno.

      Su dunque o voi del primo ordine servi
che degli alti signor ministri al fianco
siete incontaminati, or dunque voi
al mio divino Achille, al mio Rinaldo
l’armi apprestate. Ed ecco in un baleno
i tuoi valetti a’ cenni tuoi star pronti.
Già ferve il gran lavoro. Altri ti veste
la serica zimarra ove disegno
diramasi chinese; altri, se il chiede
più la stagione, a te le membra copre
di stese infino al piè tiepide pelli.
Questi al fianco ti adatta il bianco lino
che sciorinato poi cada, e difenda
i calzonetti; e quei, d’alto curvando
il cristallino rostro, in su le mani
ti versa acque odorate, e da le mani
in limpido bacin sotto le accoglie.
Quale il sapon del redivivo muschio
olezzante all’intorno; e qual ti porge
il macinato di quell’arbor frutto,
che a Ròdope fu già vaga donzella,
e chiama in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte.
L’un di soavi essenze intrisa spugna
onde tergere i denti, e l’altro appresta
ad imbianchir le guance util licore.

      Assai pensasti a te medesmo; or volgi
le tue cure per poco ad altro obbietto
non indegno di te. Sai che compagna
con cui divider possa il lungo peso
di quest’inerte vita il ciel destìna
al giovane Signore. Impallidisci?
No non parlo di nozze: antiquo e vieto
dottor sarei se così folle io dessi
a te consiglio. Di tant’altre doti
tu non orni così lo spirto, e i membri,
perché in mezzo a la tua nobil carriera
sospender debbi ’l corso, e fuora uscendo
di cotesto a ragion detto bel mondo,
in tra i severi di famiglia padri
relegato ti giacci, a un nodo avvinto
di giorno in giorno più penoso, e fatto
stallone ignobil de la razza umana.

      D’altra parte, il marito ahi quanto spiace,
e lo stomaco move ai dilicati
del vostr’orbe leggiadro abitatori
qualor de’ semplicetti avoli nostri
portar osa in ridicolo trionfo
la rimbambita Fé, la Pudicizia
severi nomi! E qual non suole a forza
in que’ melati seni eccitar bile
quando i calcoli vili del castaldo
le vendemmie, i ricolti, i pedagoghi
di que’ sì dolci suoi bambini altrui,
gongolando, ricorda; e non vergogna
di mischiar cotai fole a peregrini
subbietti, a nuove del dir forme, a sciolti
da volgar fren concetti onde s’avviva
da’ begli spirti il vostro amabil globo.
Pera dunque chi a te nozze consiglia.
Ma non però senza compagna andrai
che sia giovane dama, ed altrui sposa;
poiché sì vuole inviolabil rito
del bel mondo onde tu se’ cittadino.

 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 febbraio, 1998