Alessandro Manzoni
Lettera
a
Cesare Taparelli D'Azeglio
(prima parte)
AVVERTIMENTO
Questa lettera non fu scritta con l'intenzione di darla alle stampe, come appare anche da qualche luogo del contesto. Ma trovandola pubblicata da altri, l'autore, dopo averla o ritoccata o rinnovata in varie parti, ha creduto che potesse, malgrado le imperfezioni che ci sono rimaste. aver luogo in questa raccolta. come un ricordo d'un momento della letteratura italiana. momento finito oramai da un pezzo, ma che, di certo. non ha lasciate le cose come le aveva trovate. e non fu senza un qualche effetto. anche fuori d'Italia.
Le note sono state aggiunte nella presente edizione.
Brusuglio, presso a Milano, 22 settembre 1823
Pregiatissimo signore
Le debbo grazie singolari per l'onore
ch'Ella mi ha fatto di ripubblicare quel mio inno, per le copie che rne ne ha voluto
trasmettere, e singolarissime poi per la lettera con la quale si è degnata accompagnarle.
La lunghezza nella quale prevedo che trascorrerà questa risposta, Le sarà una prova,
forse troppo convincente, del conto ch'io faccio e della lettera e della occasione per
essa offertami di trattenermi con Lei.
Il componimento che me l'ha procurata,
non era da prima mia intenzione di pubblicarlo, se non quando avessi potuto dargli qualche
altri compagni; per servire al desiderio di alcuni amici, senza dar fuori al pubblico sì
poca cosa, ne feci tirare un picciolissimo numero di copie. Non ne avendo alcuna qui in
villa, mi do invece l'onore di trasmetterle quell'una che mi trovo avere di due versioni
latine che ne furon fatte; lodate entrambe dagli intendenti per un diverso genere, di
merito. Eccole tolto lo scrupolo d'essere stato il primo a pubblicarlo: ma in verità se
la cosa fosse stata così, Ella non dovrebbe sentire altro scrupolo che di aver troppo
solleticato il mio amor proprio, col farsi editore d'un mio componimento.
Le rendo pur grazie dell'avermi Ella
creduto degno di sentire il nobile ed affettuoso pensiero, col quale Ella ha cercato di
raddolcire l'afflizione del suo amico, che Dio ha visitato con severa misericordia: e se
mi verrà il caso, le protesto che mi varrò di quel pensiero come di cosa mia, poichè
Ella me ne ha così gentilmente messo a parte.
E grazie pure (è forza ch'io ripeta
questa espressione, poichè Ella me ne moltiplica le occasioni), grazie pure le debbo
ch'Ella m'abbia avvertito dello svarione topografico incorso nel viaggio del Diacono
ravennate. Al leggere il luogo della sua pregiatissima che tocca questo punto, io andava
pensando come mai potessi esser caduto in quell'equivoco, quando ho immaginate e cercate
di descrivere le posizioni quali Ella le indica, e quali sono in fatti. Mi sono poi
avveduto che l'equivoco in quelle parole: Alla destra piegai verso aquilone: ed è
nato dall'aver io, scrivendole, dimenticato affatto che in quel momento io rappresentava
il viaggiatore tornato indietro dalle Chiuse verso l'Italia. Non badai a quella sua
situazione accidentale, e lo immaginai rivolto con la persona verso il campo di
Carlornagno, dove, per dir così, guardavano i suoi disegni. Se Adelchi avrà vita per una
seconda edizione, io approfitterò del cortese suo avviso: così si fosse Ella compiaciuta
di correggervi errori di maggior momento.
Ma in quel troppo indulgente giudizio de'
miei pochi e piccoli lavori drammatici, Ella ha anche lasciato trasparire un'opinione poco
favorevole, o almeno un presagio di poca durata, al sistema di poesia, secondo il quale
quei lavori sono concepiti. Cos'ha mai fatto? Con due righe di modesta dubitazione se n'è
tirate addosso Dio sa quante, Dio sa quante pagine, di cicalamento affermativo. Nella sua
gentilissima lettera Ella ha parlato d'una causa, per la quale io tengo, d'una
parte, che seguo; e questa parte è quel sistema letterario, a cui fu dato il nome di romantico.
Ma questa parola è applicata a così vari sensi, ch'io provo un vero bisogno d'esporle, o
d'accennarle almeno quello ch'io c'intendo, perché troppo m'importa il di Lei giudizio.
Oltre la condizione comune a tutti i vocaboli destinati a rappresentare un complesso
d'idee e di giudizi, quella, cioè, d'essere intesi più o meno diversamente dalle diverse
persone, questo povero romanticismo ha anche de' significati espressamente distinti, in
Francia, in Germania, in Inghilterra. Una simile diversità, o una maggior confusione,
regna, se non m'inganno, in quelle parti d'Italia dove se n'è parlato, giacché credo
che, in alcune, il nome stesso non sia stato proferito, se non qualche volta per caso,
come un termine di magia. In Milano, dove se n'è parlato più e più a lungo che altrove,
la parola romanticismo, è stata, se anche qui non m'inganno, adoprata a rappresentare un
complesso d'idee più ragionevole, più ordinato, più generale, che in nessun altro
luogo. Potrei rimettermi a qualche scritto, dove quelle idee sono esposte e difese molto
meglio di quello ch'io sappia fare; ma, oltre lo scopo di rappresentarne un concetto
complessivo, Le confesso che l'onore ch'Ella m'ha fatto di toccarmi questo tasto, m'ha
data la tentazione di sottoporle un qualche mio modo particolare di considerar la
questione. M'ingegnerò di ridurre e una cosa e l'altra nei termini più ristretti che mi
sarà possibile, e di fare almeno un abuso moderato della sua pazienza.
Ciò che si presenta alla prima a chi si
proponga di formarsi il concetto, che ho accennato di quel sistema, è la necessità di
distinguere in esso due parti principali: la negativa e la positiva.
La prima tende principalmente a escludere
- l'uso della mitologia - l'imitazione servile dei classici - le regole fondate su fatti
speciali, e non su princìpi generali, sull'autorità de' retori, e non sul ragionamento,
e specialmente quella delle così dette unità drammatiche, di tempo e di luogo apposte ad
Aristotele.
Quanto alla mitologia, i Romantici hanno
detto, che era cosa assurda parlare del falso riconosciuto, come si parla dei vero, per la
sola ragione, che altri, altre volte, l'hanno tenuto per vero; cosa fredda l'introdurre
nella poesia ciò che non richiama alcuna memoria, alcun sentimento della vita reale; cosa
noiosa il ricantare sempre questo freddo e questo falso; cosa ridicola ricantarli con
serietà, con un'aria reverenziale, con delle invocazioni, si direbbe quasi ascetiche.
I Classicisti hanno opposto che, levando
la mitologia, si spogliava la poesia d'immagini, le si levava la vita. I Romantici
risposero che le invenzioni mitologiche traevano, al loro tempo, dalla conformità con una
credenza comune, una spontaneità, una naturalezza, che non può rivivere nelle
composizioni moderne, dove stanno a pigione. E per provare che queste possono vivere (e di
che vita!) senza quel mezzo, ne citavano le più lodate, nelle quali, la mitologia fa
bensì capolino, ora qua, ora là, ma come di contrabbando e di fuga, e ne potrebbe esser
levata, senza che ne fosse, né sconnessa la compagine, né scemata la bellezza del
lavoro. Citavano, dico, specialmente la Divina Commedia
e la Gerusalemme, nelle quali tiene una parte
importante, anzi fondamentale, un maraviglioso soprannaturale, tutt'altro che il pagano; e
le rime spirituali del Petrarca, e le politiche, e le rime stesse d'amore; e l'Orlando dell'Ariosto, dove
invece di dei e di dee, vengono in scena maghi e fate, per non parlar d'altro. E citavano
insieme varie opere straniere, che godono un'alta fama, non solo ne' paesi dove nacquero,
ma presso le persone colte di tutta l'Europa.
Un altro argomento de' Classicisti era,
che nella mitologia si trova involto un complesso di sapientissime allegorie. I Romantici
rispondevano che, se, sotto quelle fandonie, c'era realmente un senso importante e
ragionevole, bisognava esprimer questo immediatamente; che, se altri, in tempi lontani,
avevano creduto bene di dire una cosa per farne intendere un'altra, avranno forse avute
delle ragioni che non si vedono nel caso nostro, come non si vede perché questo scambio
d'idee immaginato una volta deva divenire e rimanere una dottrina, una convenzione
perpetua.
Per provar poi, con de' fatti anche loro,
che la mitologia poteva benissimo piacere, anche nella poesia moderna, i Classicisti
adducevano che l'uso non se n'era mai smesso fino allora. A questo i Romantici
rispondevano che la mitologia, diffusa perpetuamente nelle opere degli scrittori greci e
latini, compenetrata con esse, veniva naturalmente a partecipare della bellezza, della
coltura, e della novità di quelle per gl'ingegni che, al risorgimento delle lettere,
cercavano quelle opere con curiosità, con entusiasmo, e anche con una riverenza
superstiziosa, come era troppo naturale; e che, come non era punto strano che tali
attrattive avessero invogliati, fino dal principio, i poeti moderni a dare alle invenzioni
mitologiche quel po' di posto; così era non meno facile a intendersi che quella pratica,
trasmessa di generazione in generazione coi primi studi, e trasformata in dottrina, non
solo si sia potuta mantenere, ma, come accade delle pratiche abusive, sia andata
crescendo, fino a invadere quasi tutta la poesia, e diventarne il fondamento e l'anima
apparente. Ma, concludevano, certe assurdità possono bensì tirare avanti, per più o
meno tempo, ma farsi eterne non mai: il momento della caduta viene una volta; e per la
mitologia è venuto.
Infatti, quello stesso vigore
straordinario e apparente, che aveva acquistato presso di noi, ne poteva esser riguardato
come un indizio, giacché non era l'espansione d'una forza innata della poesia,
l'esercizio più vasto e più potente d'un suo mezzo naturale, ma l'applicazione sempre
più esagerata d'un'aggiunta estrinseca e accidentale. E a chi volesse riflettere, doveva
parere ugualmente difficile, e il supporre che quell'uso delle invenzioni mitologiche, sia
prese per soggetto di componimenti poetici, sia, e molto più spesso, anzi a sazietà,
introdotte in quelli, come agenti, come cause di avvenimenti, e pubblici e privati,
potesse diventare una forma permanente della poesia; e l'immaginarsi quale parte più
ristretta gliene potesse rimanere; in quale misura, con quale distinzione, un tale uso
potesse venir mantenuto; dove si potesse trovare una ragione speciale, per la parte d'un
tutto riconosciuto come irragionevole.
Tali, se mal non mi ricordo, giacché
scrivo di memoria, e senza aver sott'occhio alcun documento della discussione, erano le
principali ragioni allegate pro e contro la mitologia.
Le confesso che quelle dei Romantici mi
parevano allora, e mi paiono più che mai concludentissime. La mitologia non è morta
certamente, ma la credo ferita mortalmente; tengo per fermo che Giove, Marte e Venere
faranno la fine, che hanno fatta Arlecchino, Brighella e Pantalone, che pure avevano molti
e feroci, e taluni ingegnosi sostenitori: anche allora si disse, che con l'escludere quei
rispettabili personaggi si toglieva la vita alla commedia: che si perdeva una gloria
particolare all'Italia (dove va qualche volta a ficcarsi la gloria!); anche allora si
sentirono lamentazioni patetiche, che ora ci fanno maravigliare, non senza un po' di riso,
quando le troviamo negli scritti di quel tempo. Allo stesso modo, io tengo per fermo, che
si parlerà generalmente tra non molto della mitologia, e della sua fine.
Intendo per fine, come l'intendevano i
Romantici, e appariva da tutte le loro parole, il cessar d'essere una parte attiva della
poesia; e questo mi fa venire in mente un'altra difficoltà che si opponeva loro, e che è
un esempio curioso del vezzo tanto comune, d'allargare, cioè di trasformare delle
opinioni, per combatterle più comodamente. - Stando alle vostre proposte, si diceva loro
da alcuni, s'avrà a mutare una parte, non solo della poesia, ma del linguaggio comune.
Non si potrà più dire: una forza erculea, un aspetto marziale, degli
augùri sinceri, e una bella quantità d'altre locuzioni prettamente mitologiche. - A
questo era facile il rispondere che l'istituzioni, l'usanze, l'opinioni che hanno regnato
lungo tempo in una o più società, lasciano ordinariamente nelle lingue, delle tracce
della loro esistenza passata, e ci sopravvivono con un senso acquistato per mezzo
dell'uso, e reso indipendente dalla loro origine: la stessa risposta che si darebbe a chi
venisse a dire: o rimettete in onore l'astrologia, o bandite dal linguaggio i vocaboli: influsso,
ascendente, disastro, e altri derivati dalla stessa fonte.
Ma la ragione, per la quale io ritengo
detestabile l'uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la
direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa, che precederebbero, e
impedirebbero ogni spiegazione; ma non lascerò di sottoporla a Lei, che, se la trovasse
insussistente, saprebbe addirizzarmi, senza ridere. Tale ragione per me è, che l'uso
della favola è idolatria. Ella sa molto meglio di me, che questa non consisteva soltanto
nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali: questi non erano che la parte
storica; ma la parte morale era fondata nell'amore, nel rispetto, nel desiderio delle cose
terrene, delle passioni, de' piaceri portato fino all'adorazione, nella fede in quelle
cose come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare. L'idolatria in
questo senso può sussistere anche senza la credenza alla parte storica, senza il culto;
può sussistere purtroppo anche negli intelletti persuasi della vera Fede: dico
l'idolatria, e non temo di abusare del vocabolo, quando San Paolo l'ha applicato
espressamente all'avarizia, come ha anche chiamato Dio de' golosi il ventre.
Ora cos'è la mitologia conservata nella
poesia, se non questa idolatria? E qual prova più espressa se ne potrebbe desiderare, di
quella che ne danno gli argomenti sempre adoprati a raccomandarla? La mitologia, si è
sempre detto, serve a rappresentare al vivo, e rendere interessanti le passioni, le
qualità morali, anzi le virtù. E come fa questo la mitologia? Entrando, per quanto è
possibile, nelle idee degli uomini, che vedevano un dio in ognuna di quelle cose; usando
del loro linguaggio, tentando di fingere una credenza a ciò, che quelli credevano;
ritenendo in somma dell'idolatria tutto ciò che è compatibile con la falsità
riconosciuta di essa. Così l'effetto generale della mitologia non può essere, che di
trasportarci alle idee di que' tempi in cui il Maestro (Cristo, ndr) non era venuto, di
quegli uomini che non ne avevano né la previsione, né il desiderio; di farci parlare
anche oggi, come se Egli non avesse insegnato, di mantenere i simboli, l'espressioni. le
formule dei sentimenti chEgli ha inteso distruggere; di farci lasciar da una parte i
giudizi ch'Egli ci ha dati delle cose, il linguaggio che è la vera espressione di quei
giudizi, per ritenere le idee e i giudizi del mondo pagano. E non si può dire che il
linguaggio mitologico, adoperato com'è nella poesia, sia indifferente alle idee, e non si
trasfonda in quelle che l'intelletto tiene risolutamente e avvertitamente. E perché
dunque si farebbe uso di quel linguaggio, se non fosse per affezione a ciò che esprime?
se non fosse per produrre un assentimento, una simpatia? A che altro fine si scrive e si
parla? Sia dunque benedetta la guerra che gli si è fatta, e che gli si fa; e possa
diventare testo di prescrizione generale quel verso:
Vate, scorda gli Achei, scorda le fole
dettato in una particolare occasione da una illustre di Lei amica
(Marchesa Diodata Saluzzo di Roero, ndr), la quale fu de' pochissimi, che col fatto
antivennero le teorie, cercando e trovando spesso così splendidamente il bello poetico,
non in quelle triste apparenze, né in quelle formole convenute, che la ragione non
intende o smentisce, e delle quali la prosa si vergognerebbe; ma nell'ultimo vero Dio,
ndr), in cui l'intelletto riposa.
Insieme con la mitologia vollero i
Romantici escludere l'imitazione dei classici; non già lo studio, come volle intendere la
parte avversaria. Se ho bene intesi gli scritti, e i discorsi di alcuni di loro, nessuno
di essi non sognò mai una cosa simile. Sapevano troppo bene (e chi l'ignora?), che
l'osservare in noi l'impressione prodotta dalla parola altrui c'insegna, o per dir meglio,
ci rende più abili a produrre negli altri delle impressioni consimili; che l'osservare
l'andamento, i trovati, gli svolgimenti dell'ingegno altrui è un lume al nostro; che
questo, ancor quando non metta direttamente un tale studio nella lettura, ne resta, senza
avvedersene, nutrito e raffinato; che molte idee, molte immagini, che approva e gusta, gli
sono scala per arrivare ad altre talvolta lontanissime in apparenza; che insomma per
imparare a scrivere giova il leggere, e che questa scola è allora più utile, quando si
fa sugli scritti d'uomini di molto ingegno e di molto studio, quali appunto erano, tra
gli, scrittori che ci rimangono dell'antichità, quelli che specialmente sono denominati
classici.
Non cessarono quindi di protestare contro
il carico che si dava loro, con quella falsissima interpretazione, di vilipendere i
classici, e di riguardare gli scritti che ce ne rimangono, come anticaglie da mettersi da
parte. Anzi non trascurarono l'occasioni, non solo di lodarli in genere, ma di notare in
essi dei pregi, che non erano stati indicati dai loro più fervidi ammiratori. Taluno
perfino lodò quelle bellezze in molto bei versi; ne riprodusse alcune traducendole, e con
una tale riuscita, che, chi pretendesse d'avere pei classici un'ammirazione più sentita
della sua, mostrerebbe una grande stima non solo di questi, ma di sé medesimo.
Quello che i
Romantici combattevano, è il sistema d'imitazione, che consiste nell'adottare e nel
tentare di riprodurre il concetto generale, il punto di vista dei classici, il sistema,
che consiste nel ritenere in ciascun genere d'invenzione il modulo, ch'essi hanno
adoprato, i caratteri che ci hanno impressi, la disposizione, e la relazione delle diverse
parti; l'ordine e il progresso de' fatti, ecc. Questo sistema d'imitazione, dei quale ho
appena toccati alcuni punti; questo sistema fondato sulla supposizione a priori,
che i classici abbiano trovati tutti i generi d'invenzione, e il tipo di ciascheduno,
esiste dal risorgimento delle lettere; forse non è stato mai ridotto in teoria perfetta,
ma è stato ed è tuttavia applicato in mille casi, sottinteso in mille decisioni, e
diffuso in tutta la letteratura. Basta osservare un solo genere di scritti, le
apologie letterarie: quasi tutti coloro, che hanno perduto il tempo a difendere i loro
componimenti contro coloro, che avevano perduto il tempo a censurarli, hanno allegati gli
esempi e l'autorità dei classici, come la giustificazione più evidente, e più
definitiva. Non è stato ridotto in teoria; e questa appunto è forse la fatica più
gravosa e la meno osservata di quelli, che vogliono combattere idee false comunemente
ricevute, il dover pigliarle qua e là, comporle, ridurle come in un corpo, metterci
l'ordine, di cui hanno bisogno per combatterle ordinatamente. Non è stato questo sistema
né ragionato, né provato, né discusso seriamente; anzi, a dir vero, si sono sempre
messe in campo e ripetute proposizioni, che gli sono opposte; sempre si è gettata qualche
parola di disprezzo contro l'imitazione servile, sempre si è lodata e raccomandata
l'originalità; ma insieme si è sempre proposta l'imitazione. Si è insomma sempre
predicato il pro e il contro, come meglio tornava al momento, senza raffrontarli mai, né
stabilire un principio generale. Questo volevano i Romantici che si facesse una volta;
volevano che, da litiganti di buona fede, si definisse una volta il punto della questione,
e si cercasse un principio ragionevole in quella materia; chiedevano, che si riconoscesse
espressamente, che, quantunque i classici abbiano scritte cose bellissime, pure né essi
né verun altro non ha dato, né darà mai un tipo universale, immutabile, esclusivo di
perfezione poetica. E non solo mostrarono in astratto l'arbitrario e l'assurdo di quel
sistema d'imitazione, ma cominciarono anche a indicare in concreto molte cose
evidentemente irragionevoli introdotte nella letteratura moderna per mezzo dell'imitazione
de' classici. E per esempio, sarebbe egli mai, senza un tal mezzo, venuto in mente a de'
poeti moderni di rappresentar de' pastori, in quelle condizioni e con que' costumi che si
trovano nelle egloghe, o nei componimenti di simil genere, dal Sannazaro al Manara, se,
prima di quello, o dopo questo, non ci furono altri poeti bucolici, o ignorati o
dimenticati da me? E perché dall'imitazione cieca e, per dir così materiale, si
sdrucciola facilmente nella caricatura, avvenne, una mattina, che tutti i poeti italiani,
voglio dire quelli che avevano composti, o molti, o pochi versi italiani, si
trasformarono, loro medesimi (idealmente s'intende) in tanti pastori, abitanti in una
regione del Peloponneso, con de' nomi, né antichi, né moderni, né pastorali, né altro;
e in quasi tutti i loro componimenti, di qualunque genere, e su qualunque soggetto,
parlavano, o ficcavano qualche cenno delle loro gregge e delle loro zampogne, de' loro
pascoli e delle loro capanne. E una tale usanza poté, non solo vivere tranquillamente per
una generazione, ma tener duro contro le così frizzanti e così sensate canzonature del
Baretti, e sopravvivere anche a lui.
Profittando poi, com'era facile in ogni
cosa, delle contradizioni de' loro avversari, dicevano i Romantici: Non siete voi quelli
che, ne' classici, lodate tanto l'originalità, quell'avere ognuno di loro, un carattere
proprio, spiccato e, per dir così, personale? E non è dunque in questo, cioè nel non
essere imitatori, che, anche secondo voi altri, è ragionevole l'imitarli?
Le ragioni del sistema romantico, per
escludere la mitologia e l'imitazione, sono, com'Ella ha certamente veduto, molto
consentanee tra di loro. E consentanee ugualmente all'une, e all'altre sono le ragioni per
sbandire le regole arbitrarie, e specialmente quella delle due unità drammatiche. Di
queste non Le parlerò: forse ne ho anche troppo ciarlato in stampa; e non so s'io deva o
dolermi o rallegrarmi di non avere una copia da offrirle d'una mia lettera (a Chauvet,
ndr) pubblicata in Parigi su questo argomento; lettera, alla lunghezza della quale spero
che non arriverà questa, della quale, per dir la verità, principio a vergognarmi. Ma la
bontà ch'Ella m'ha dimostrata, mi fa animo, e tiro avanti.
Intorno alle regole generali, ecco quali
furono, se la memoria non m'inganna, le principali proposizioni romantiche. Ogni regola,
per esser ricevuta da uomini, debbe avere la sua ragione nella natura della mente umana.
Dal fatto speciale, che un tale scrittor classico, in un tal genere, abbia ottenuto
l'intento, toccata la perfezione, se si vuole, con tali mezzi, non se ne può dedurre, che
quei mezzi devano pigliarsi per norma universale, se non quando si dimostri, che siano
applicabili, anzi necessari in tutti i casi d'ugual genere; e ciò per legge
dell'intelletto umano. Ora, molti di quei mezzi, di quei ritrovati messi in opera dai
classici, furono suggeriti ad essi dalla natura particolare del loro soggetto, erano
appropriati a quello, individuali per così dire; e l'averli trovati in quella occorrenza,
è un merito dello scrittore, ma non una ragione per farne una legge; anzi è una ragione
per non farnela. Di più, anche nella scelta dei mezzi, i classici possono avere errato;
perché no? e in questi casi, invece di cercare nel fatto loro una regola da seguire,
bisogna osservare un fallo da evitarsi. A voler dunque profittare con ragione
dell'esperienza, e prendere dal fatto un lume per il da farsi, si sarebbe dovuto
distinguere nei classici ciò, che è di ragione perpetua, ciò, che è di opportunità
speciale. Se questo discernimento fosse stato tentato e eseguito da de' filosofi,
converrebbe tener molto conto delle loro fatiche, senza però ricevere ciecamente le loro
decisioni. Ma invece questa provincia è stata invasa, corsa, signoreggiata quasi sempre
da retori estranei affatto agli studi sull'intelletto umano; e questi hanno dedotte dal
fatto, inteso come essi potevano, le leggi che hanno volute, hanno ignorate, o repudiate
le poche ricerche de' filosofi in quella materia, o se ne sono impadroniti, le hanno
commentate a loro modo, traviate, o anche qualche volta hanno messo sotto il nome e
l'autorità di quelli le loro povere e strane prevenzioni. Ricevere senza esame, senza
richiami, leggi di tali, e così create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale in
fatti, aggiungevano i Romantici, è l'effetto più naturale del dominio di queste regole?
Di distrarre l'ingegno inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla ricerca dei
caratteri propri e organici di quello, per rivolgerlo e legarlo alla ricerca e
all'adempimento di alcune condizioni affatto estranee al soggetto, e quindi d'impedimento
a ben trattarlo. E un tale effetto non è forse troppo manifesto? Queste regole non sono
forse state per lo più un inciampo a quelli, che tutto il mondo chiama scrittori di
genio, e un'arme in mano di quelli, che tutto il mondo chiama pedanti? E ogni volta che i
primi vollero francarsi di quell'inciampo, ogni volta che, meditando sul loro soggetto, e
trovandosi a certi punti, dove per non istorpiarlo era forza di violare le regole, essi le
hanno violate, che n'è avvenuto? I secondi gli attendevano al varco; e senza esaminare,
né voler intendere il perché di quelle che chiamavano violazioni, senza provare, né
saper nemmeno, che ad essi incombeva di provare, che l'attenersi alla regola sarebbe stato
un mezzo per trattar meglio quel soggetto, gridarono ogni volta contro la licenza, contro
l'arbitrio, contro l'ignoranza dello scrittore. Ora, poiché ciò che ha data sempre tanta
forza ai pedanti contro gli scrittori d'ingegno, è per l'appunto questo rispetto
implicito per le regole, perché, dicevano i Romantici, lasceremo noi sussistere una tale
confusione, un tal mezzo per tormentare gli uomini d'ingegno? Non sono stati sempre
tormentati più del bisogno?
Dall'altra parte, proseguivano, non è
egli vero che, passato un certo tempo, quella stessa violazione delle regole, ch'era stata
un capo d'accusa per molti scrittori, divenne per la loro memoria un soggetto di lode? che
ciò che sera chiamata sregolatezza, ebbe poi nome d'originalità? E, come nella
questione della mitologia, allegavano anche qui la lode che noi italiani diamo a più
d'uno de' nostri poeti prediletti, e quella che altre colte nazioni danno ad alcuni de'
loro, d'avere abbandonate le norme comuni; d'essersi resi superiori a quelle: d'avere
scelta una, o un'altra strada non tracciata, non preveduta. nella quale la critica non
aveva ancora posti i suoi termini, perché non la conosceva, e il genio solo doveva
scoprirla? Se per questi, dicevano, il trasgredir le regole è stato un mezzo di far
meglio. perché s'avrà sempre a ripetere che le regole sono la condizione essenziale per
far bene?
Alla conseguenza che i Romantici cavavano
da questo fatto, mi ricordo, che si dava generalmente una risposta non nova, ma molto
singolare: cioè che molte cose sono lecite ai grandi scrittori, ma ad essi soli; e che in
ciò la loro pratica non è un esempio per gli altri. Le confesso, che non ho mai potuto
comprendere la forza dell'argomento, che pare essere incluso in questa sentenza. Cercando
la ragione per cui quei grandi scrittori hanno ottenuto l'effetto con la violazione delle
regole, m'è sempre parso che la cagione fosse questa: che essi, vedendo nel soggetto una
forma sua propria che non sarebbe potuta entrare nella stampa (stampo, ndr)"
delle regole, hanno gettata via la stampa, hanno svolta la forma naturale del soggetto, e
così ne hanno cavato il più e il meglio, che esso poteva dare al loro ingegno. Il
lecito, l'illecito, la dispensa non veggo cosa ci abbiano a fare; mi paiono metafore che,
in questo caso, non hanno un senso al mondo. Ora quella ragione non è per nulla
particolare ai grandi ingegni, è universalissima, viene dalla natura stessa della cosa,
indica il mezzo, con cui, e grandi e piccoli, ognuno secondo la sua misura, può fare il
meglio possibile.
- Oh! i mediocri non arriveranno mai a
scoprire in un argomento quella forma splendida, originale, grandiosa, che appare ai
grandi ingegni. - Sia, col nome del cielo; non ci arriveranno; ma di che aiuto saranno ad
essi le regole? O le sono ragionevoli, e in questo caso i grandi scrittori non se ne
devono dispensare, perché sarebbe privarsi d'un aiuto a trovare e a esprimere più
potentemente quella forma: o le sono irragionevoli, e se ne devono dispensare anche i
mediocri, perché esse non potranno fare altro che impicciarli di più, allontanarli di
più dalla verità del concetto, e mettere la storpiatura, dove senza di esse non sarebbe
stato, che minor perfezione. Onde, quanto più penso a questa doppia misura di regole,
obbligatorie per molti, e per alcuni no, tanto più mi pare fuor di proposito. Ed è, se
non m'inganno, stata trovata per uscire d'impiccio: quando ci si fa vedere una
contradizione tra due proposizioni, che affermiamo ugualmente; e quando non vogliamo né
confrontarle tra di loro, né abbandonarne nessuna, né sappiamo farle andar d'accordo, ne
inventiamo una terza, la quale mette la pace tra le parole, se non tra le idee, non serve
al ragionamento, ma serve a dare una risposta, che in fine è quello, che più preme. Ma
se anche una tale strana distinzione si volesse ammettere, cosa farne poi in pratica? come
applicarla nel fatto? L'uomo che, nell'atto del comporre si trova combattuto tra la
regola, e il suo sentimento, dovrà egli proporsi questo curioso problema: Son io, o non
sono un grand'uomo? E come scioglierlo poi? - Oh! si fidi al suo genio, se ne ha; e lasci
dire. - Si fidi! Veramente l'esperienza può inspirar molta fiducia; e come possono dire,
si fidi, quelli per l'appunto, che vogliono tenere in vigore tutti quei mezzi, che sono
sempre stati adoprati a levare la fiducia ai più forti ingegni, e l'hanno realmente
levata a più d'uno di loro? Lasci dire! Mi pare, che invece di consigliare que' pochi
infelici, che portano la croce del genio, a non curare le nostre parole, sarebbe tempo,
che cominciassimo noi a pesarle un po' più.
Ma io, dimenticando che parlo con un
giudice, mi son lasciato andare un momento a garrire con degli avversari. Scusi di grazia
questa scappata, e mi scusi anche del rimettermi nella strada d'infastidirla ancora
qualche tempo.
Alle altre proposizioni messe in campo
dai Romantici contro le regole arbitrarie, non mi ricordo veramente, se qualche cosa si
rispondesse, né veggo che cosa si possa rispondere. Si diceva bene da molti, che il fine
di quelle proposizioni era di sbandire ogni regola dalle cose letterarie, d'autorizzare,
di promuovere tutte le stravaganze, di riporre il bello nel disordinato. Che vuol Ella? A
questo mondo è sempre stata usanza d'intendere e di rispondere a questo modo.
Prima d'abbandonare il discorso delle
regole, mi permetta che Le sottoponga un'osservazione che non mi sovviene d'aver trovata
proposta da altri: ed è, che il soggetto d'una questione, che dura da tanto tempo, non è
stato mai definito con precisione. La parola: "regole", intorno alla quale si
aggira la disputa, non ha mai avuto un senso determinato. Un uomo, che sentisse per la
prima volta parlare di questa discussione intorno alle regole, dovrebbe certamente
supporre, che fossero determinate in formule precise, descritte in un bel codice
conosciuto e riconosciuto da tutti quelli, che le ammettono; tante né più né meno, tali
e non altrimenti: perché la prima condizione per far ricevere altrui una legge, è di
fargliela conoscere. Ora Ella sa, se la cosa sia così. E se uno di quelli che ricusano
questo dominio indefinito delle regole, dicesse a uno di quelli, che lo propugnano: sono
convinto; questa parola regole, ha un non so che, che mi soggioga l'intelletto: mi rendo;
e per darvi una prova della mia docilità, vi fo una proposizione la più larga, che in
nessuna disputa sia stata fatta mai. Pronunziate a una a una le formule di queste regole
adottate, come dite, da tutti i savi; e ad ognuna io risponderò: amen; certo, costui, con
tanta sommissione apparente, farebbe all'altro una brutta burla, lo metterebbe in uno
strano impiccio.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 gennaio 1999