Alessandro Manzoni
Del romanzo storico
Parte seconda - II
Credo che tutto questo non abbia bisogno
di prove; ma mi si permetta di citarne un esempio notabile, d'un tempo alquanto anteriore,
ma non tanto che, per questa parte principalmente, si possa considerare come un tempo
diverso. Il Machiavelli, osservatore così vigilante e così profondo (quando però non
prende per regola suprema de' suoi giudizi e de' suoi consigli l'utilità: regola iniqua e
assurda, che è tutt'uno; e con la quale, per conseguenza, non c'è ingegno che possa
andar al fondo di nulla), il Machiavelli, ne' suoi Discorsi sopra T. Livio, tra
tante e così varie osservazioni, non ne fa, se non m'inganno, una sola di critica
storica. Eppure, volendo dedurre i suoi ammaestramenti da' fatti, pare che la verità de'
fatti dovess'essere per lui una condizione preliminare, non solo importante, ma
indispensabile. Di più, prende per testo, ogni volta che gli venga in taglio, de' luoghi
delle parlate di Livio, né più né meno che i luoghi dove Livio racconta. Anzi arriva a
prenderne per testo uno dove lo storico, più poeta che mai, descrive de' movimenti
interni dell'animo. Nel celebre capitolo sulle congiure, parlando de' " pericoli che si corrono in su la esecuzione ", dice: " E che gli uomini invasino e si confondino, non lo può meglio dimostrare
T. Livio quando descrive d'Alessameno Etolo (quando ei volle ammazzare Nabide Spartano)
che venuto il tempo della esecuzione, scoperto ch'egli ebbe a' suoi quello che s'aveva a
fare, dice T. Livio queste parole: Collegit et ipse animum, confusum tantae cogitatione
rei."
Nessuno s'immagina sicuramente che noi vogliamo dire che il
Machiavelli prendesse per fatti positivi tutto ciò che trovava nel suo autore. E, del
resto, dicendo: non lo può meglio dimostrare T. Livio, usa il linguaggio che avrebbe
potuto usare ugualmente, se avesse citato un apologo; come, citando le parlate, ora dice,
per esempio: "Annio loro pretore disse queste parole",
ovvero: "io voglio addurre le parole di Papirio Cursore";
ora: "il nostro istorico gli mette in bocca queste parole",
ovvero: "si può notare per le parole che Livio gli fa dire".
Ma è appunto questa indifferenza per la realtà positiva de' fatti storici, questo
correre con la mente a ciò che possano aver di notabile come meramente verosimili, e
fermarsi lì; è questo che abbiamo voluto notare in un uomo tale, come un saggio insigne
d'una disposizione comune. Disposizione che, non essendo ragionevole, non poteva esser
perpetua, e che, al tempo del Voltaire, era tanto diminuita, da costringerlo a mettere,
per meno male, tutti que' puntelli storici al suo edifizio poetico.
Volevo aggiungere che, a un certo tempo, il Tasso medesimo,
diede segno, in un'altra maniera, di sentire più di prima quelle incomode esigenze della
storia, poiché nella Conquistata ne fece entrare molto più di quella che ne avesse messa
nella Liberata. Ma, riflettendo che la proposizione parrebbe scandalosa, e che mi si
direbbe, non senza sdegno, che è un levare il rispetto a un grand'uomo il prender sul
serio una sua aberrazione; che è quasi un farsi complice delle critiche sciocche e
insolenti, alle quali quell'uomo, tormentato, portato fuori di sé, sacrificò
l'ispirazioni del suo ingegno, lascio la mia osservazione nella penna, e seguo tacitamente
a dire tra me:
Non furono sicuramente le critiche altrui, che mossero il
Tasso a dare un maggior posto alla storia nel suo secondo poema; poiché la critica che
gli facevano su questo punto (spropositata davvero, ma qui non importa) era in vece:
"Che la Gerusalemme Liberata è mera istoria senza
favola", e Bastiano de' Rossi, suo principale avversario in quella guerra,
degna purtroppo dell'Italia di quel tempo, gli oppone che: "Il
poeta non è poeta senza l'invenzione; però scrivendo istoria, o sopra storia scritta da
altri, perde l'essere interamente". Dunque la cosa è nata da tutt'altra
cagione. E posso ingannarmi, ma deve esser nata da questo, che, avendo il Tasso presa
quell'infelicissima determinazione di rifare il suo poema; e dando una ripassata alle
cronache della crociata, per vedere a buon conto se qualcosa ci fosse da ritoccare anche
riguardo alla storia, la storia abbia prodotto il suo effetto naturale, che è di parer
più a proposito dell'invenzione, quando la materia è sua, e non dell'invenzione. E non
gli si poteva dire: vattene in pace, ché la tua parte l'hai avuta; perché la parte che
la storia deve avere in un Poema, o piuttosto la parte che si possa dare all'invenzione in
un avvenimento storico, non era stata determinata al tempo del Tasso, come non lo fu dopo.
Ne' Discorsi dell'arte poetica, scritti un pezzo
prima, il Tasso aveva detto: "Lasci il nostro epico il fine e
l'origine della impresa, e alcune cose più illustri nella loro verità, o nulla o poco
alterata, muti poi, se così gli pare, i mezzi e le circostanze, confonda i tempi e gli
ordini dell'altre cose, e si dimostri in somma più artificioso poeta, che verace storico."
E che più tardi gli sia parso che "alcuna parte dell'azione più illustre era
tralasciata nella prima" favola della Gerusalemme,
formata con una tal norma, non trovo che ci sia punto da maravigliarsene. Chi mai,
prendendo per misura d'un giudizio oggetti così indeterminati e nebbiosi, come: alcune
cose, e o poco o nulla, e motivi così arbitrari e arrendevoli, come: se
così gli pare, e l'esser più poeta che storico; chi mai, dico, potrebbe esser sicuro
di portar due volte lo stesso giudizio su una stessa cosa? Perciò, quando il Tasso,
diventato (per sua disgrazia) autore della Conquistata,
dice: " Io, in quel che appartiene alla mistione del vero col
falso, estimo che il vero debba aver la maggior parte, sì perché vero dee esser il
principio, il quale è il mezzo del tutto; sì per la verità del fine, al quale tutte le
cose sono dirizzate ", non trovo certamente in queste parole una norma più
applicabile della prima, giacché il dire: la maggior parte non dà un'idea più distinta
che il dire: alcune cose; ma ci vedo l'imbroglio dell'assunto, e non l'aberrazione d'un
uomo.
Dunque si parlava dell'Enriade
e della prosa che ci attaccò l'autore, dimanieraché questa volta la storia, non solo
occupò un maggior posto nell'epopea, ma s'accampò anche di fuori. E cosa contiene questa
prosa? Relazioni di cose antecedenti o concomitanti, che non potevano entrar nel poema, ma
ch'erano necessarie per intenderlo bene; citazioni di storie, di memorie, di lettere, per
avvertire il lettore, che il tale e il tal altro fatto cantato nel poema, è un fatto
davvero, discussioni in forma, quando i fatti sono controversi, vite compendiose di questo
e di quel personaggio, per dimostrare che ciò che gli si fa dire o fare nel poema,
s'accorda col suo carattere, e con le sue azioni reali; e cose simili.
Certo, quest'autore aveva qui, come quasi in tutti i suoi
scritti e in verso e in prosa, anche degli altri fini; o piuttosto quel suo perpetuo e
deplorabile fine di combattere il cristianesimo. E non è da dire come ci lavorasse, in un
argomento dove gli orrori commessi col pretesto del cristianesimo gli davano un pretesto
più specioso per accusarlo, e un mezzo più facile (per disgrazia sua e altrui) di
renderlo odioso. Ma, indipendentemente da quest'uso speciale che il Voltaire poté fare di
quegli aiuti storici, fu egli un suo capriccio il ricorrere ad essi? Non fu altro che la
conseguenza dell'aver fatta entrare molta storia nel poema: come questo era una
conseguenza della mutata condizione de' tempi, del non poter più i lettori veder nella
storia un semplice mezzo per farne qualcos'altro. Fu perché l'autore non trovava un
miglior espediente (e n'avreste voi trovato un altro da suggerirgli?) per far conoscere la
verosimiglianza speciale delle sue invenzioni col soggetto a cui le attaccava.
Certo, era più semplice, più facile e soprattutto più
conveniente all'arte quello che Orazio suggeriva al poeta del suo tempo (poeta epico o
tragico, qui non fa differenza): " Attienti
alla fama " [nota 11].
Ma glielo poteva suggerire perché nello stesso tempo gli proponeva de' soggetti come
Achille, Medea, Ino, Issione, Io, Oreste: soggetti mitologici, che vuol dire e notissimi,
e intorno ai quali non c'era, al di là di quella notizia comune, né molto né poco di
positivo, di verificabile, da potersi conoscere. C'erano bensì alcuni che ne sapevano di
più; ma cos'era questo di più? Una maggior quantità d'invenzioni arbitrarie, e, per una
conseguenza naturalissima, varie e discordi. L'erudizione, in quella materia, non era, né
poteva essere altro che un accumulamento di cose la più parte diverse e opposte. Mancava
la ragione dello scegliere tra tante attestazioni contradittorie, cioè la prevalenza
dell'autorità: non solo una prevalenza reale, ma una apparente a segno di poter essere
accettata generalmente dai dotti, e di poter conseguentemente indurre nel pubblico
l'opinione, che, oltre quello che ne sapeva il pubblico, ci fosse qualcosa da saper
veramente. Ciò che c'era di più omogeneo e, dirò così, di più uno in quella materia,
era appunto la notizia comune, la fama; val a dire poco sopra ogni soggetto; e un poco
altrettanto capace d'aggiunte arbitrarie, quanto incapace di positive. E quindi, per
giudicare, e per giudicar francamente e speditamente della verosimiglianza relativa delle
nove invenzioni col soggetto, il lettore, o lo spettatore, aveva già nella mente bell'e
preparato l'altro termine del confronto [nota 12]. Quindi nulla di più adatto a
quelle circostanze, del precetto, o piuttosto, del suggerimento d'Orazio; giacché, in
fatto d'arte, un precetto non può esser altro che l'indicazione d'un mezzo. Ma avrebbe il
Voltaire potuto servirsi e contentarsi d'un tal mezzo? Cosa gli somministrava la fama, per
comporre un'Enriade che non paresse una novella
indegna del soggetto e del secolo? Senza dubbio, il pubblico sapeva qualcosa d'Enrico IV,
di Caterina de' Medici, della Lega, dell'assedio di Parigi; ma sapeva che se ne poteva
sapere molto di più; e a questo si rivolgeva, o volere o non volere, la sua aspettativa,
ogni volta che quel soggetto gli fosse messo davanti, in qualunque forma. Chi avesse
voluto tessere una tela poetica di verosimili su quel solo e magro ordito della cognizione
comune di quel complesso d'avvenimenti, avrebbe delusa miserabilmente una tale
aspettativa. Sarebbe, parsa, e sarebbe stata (in questa parte, ben inteso) una
continuazione dell'epopea di Chapelain, del P. Lemoine, di Desmarets e di
Scudéri. [nota 13]
Ecco dunque il poeta ridotto a somministrar lui medesimo al lettore la materia di
confronto necessaria per giudicare della verosimiglianza speciale delle sue invenzioni. E
perché questo non si poteva fare nel contesto stesso del poema, eccolo ridotto a uscirne
fuori, per asserir formalmente e provare e discutere, co mezzo di quella ch'egli chiamò
più d'una volta la vile prosa.
Prendo dall'Enriade
l'occasione d'osservare un altro grand'impiccio dell'epopea storica, voglio dire il
maraviglioso soprannaturale.
Ci deve o non ci dev'essere questo maraviglioso in un poema
epico? Questione stata sciolta più volte, ma ne' due sensi opposti.
E non so se alcuno o de' poeti o de' critici che nella Poetica d'Aristotele credevano doversi trovare, se non
tutte, almeno le più importanti norme dell'arte, abbia notato il silenzio assoluto del
maestro su questo punto così importante per loro. Silenzio che ad essi doveva parere
strano, e che parrà naturalissimo a chi pensi che, quando Aristotele scriveva, la
questione non era ancora nata, né forse si poteva prevedere. Aristotele parla dell'epopea
omerica, dell'epopea praticata e conosciuta al suo tempo, di quella che prendeva i
soggetti dai secoli eroici: soggetti nei quali il maraviglioso era innato. Era quindi per
Aristotele una cosa sottintesa. Fu dall'aver l'epopea presi per soggetto avvenimenti di
tempi storici, ch'ebbe origine questa questione, la quale non pare che voglia aver fine.
Da una parte, si dice che, senza il maraviglioso, il poema non può essere che o una
storia versificata, o una storia alterata senza ragione, perché dov'è la ragione di
mutar le cause e le circostanze naturali e vere d'un avvenimento, per metterne in vece
dell'altre, ugualmente naturali, ma false? Si dice dall'altra, che, in mezzo a fatti noti
o conoscibili, de' falsi prodigi paiono inevitabilmente eterogenei, come sono. Bone
ragioni l'una e l'altra, diremo anche qui; ma bone a impedire e non a aiutare;
dimanieraché l'epopea storica può dire al maraviglioso, come Marziale a quell'uomo
d'umore variabile: "Non posso vivere né con te, né senza di
te". Dopo diciotto secoli, si trova ancora ai bivio che incontrò ne' suoi
primi passi: o privarsi del maraviglioso, con Lucano; o riceverlo per forza, con Silio
Italico. Senonché (ed è una cosa che giova ripetere) chi era poeta poté, seguendo o
l'una o l'altra strada, dare delle prove accidentali del suo valore. Così doveva essere
del Voltaire; il quale nel suo poema introdusse il maraviglioso, o piuttosto due specie di
maraviglioso, il cristiano e l'allegorico. Ma non credo d'esprimere una mia opinione
particolare dicendo che, quantunque abbelliti da immagini e vive e appropriate, e da
sentenze e gravi e pellegrine (quando sono giuste), e il tutto in versi quasi sempre
belli, e non di rado singolarmente belli, l'effetto che fanno, come parte dell'azione, è
languido e stentato, e quasi di gente estranea e indifferente, che bisogna chiamar di novo
ogni volta che si vuol farcela entrare.
Il Voltaire che, come poeta, si servì del maraviglioso,
opinò, come critico, che si potesse farne di meno, e, da quel che mi pare, non senza
contradirsi. Cosa non punto strana, perché dove, in vece d'una massima certa, ci sono due
opinioni probabili, può facilmente accadere che all'uomo medesimo piaccia di più ora
l'una, ora l'altra. " Virgilio e Omero, dic'egli, fecero
benissimo a mettere in scena le divinità. Lucano fece ugualmente bene a farne di meno.
Giove, Giunone, Marte, Venere, erano ornamenti necessari all'azione d'Enea e d'Agamennone.
Poco si sapeva di quegli eroi favolosi... Ma Cesare, Pompeo, Catone, Labieno, vivevano in
tempi ben diversi da quelli d'Enea."
E Enrico IV, Mayenne, Potier e Mornay?
"Le guerre civili di Roma",
aggiunge, "erano una cosa troppo seria per tali giochi
d'immaginazione. "
E le guerre civili di Francia?
Si dirà egli, che queste parole, applicate dal Voltaire
alle divinità mitologiche, non possono convenire al soprannaturale cristiano? Rispondo
che al soprannaturale non rivelato, ma inventato da un poeta, convengono né più né
meno.
Più notabile, per un altro riguardo, è ciò che dice poco
dopo:
"Quelli che prendono i
cominciamenti d'un'arte per i princìpi dell'arte medesima, sono persuasi che un poema non
potrebbe stare senza divinità, perché l'Iliade
n'è piena. Ma queste divinità sono così poco essenziali al poema,
che il passo più bello che si trovi nella Farsalia, e forse in qualunque poema, è il discorso col quale Catone, quello
stoico odiatore delle favole, rifiuta sdegnosamente di visitare il tempio di Giove Ammone."
Ognuno vede qual sia la forza di questo ragionamento: si
potevano dire delle bellissime cose in disprezzo del politeismo, dunque il poema può
stare senza il maraviglioso. Ma ciò che volevamo notare particolarmente, è quel
riguardare l'epopea storica, non solo come una continuazione (era l'opinione comune), ma
come un progresso dell'epopea primitiva, essenzialmente mitica. Come se quella che voleva
esser la storia, e ch'era infatti presa per storia, e quella che, senza ottenere né
chieder fede, contraffà una storia, fossero la stessa arte, perché la seconda ha imitate
delle forme estrinseche della prima. Sarebbe un'arte di novo genere quella che, cominciata
senza princìpi, li trovasse poi col cambiar l'intento e l'effetto, conservando delle
forme estrinseche. E non sempre ciò che vien dopo è progresso.
C'è un'altra specie d'epopee, nelle quali può parere a
prima vista, che il soprannaturale sia a suo luogo; cioè quelle i di cui soggetti sono
presi dalla Storia sacra. Ma basta questo per far riflettere che soggiacciono anch'esse,
quantunque in un'altra maniera, allo stesso inconveniente dell'altre. Sono rifacimenti
d'una storia; e storia nel senso più stretto, e più sdegnoso. Non è il soprannaturale
intruso nel soggetto; ma è l'invenzione intrusa nel soprannaturale. Un, direi quasi,
istinto rispettoso e sommamente ragionevole ci avverte che, nelle manifestazioni
straordinarie della volontà e della potenza divina, la mente umana non arriva a trovare
una regola del verosimile, come la trova nel corso naturale delle cose, e nelle
determinazioni della volontà umana. Gli squarci mirabili che si trovano nel Paradiso Perduto, e la virtù poetica che ci si fa sentire
quasi per tutto, non possono fare che non produca l'effetto d'un'interpolazione perpetua.
E anche la Messiade ha de' pregi non volgari, e singolarmente quell'unione non infrequente
del tenero e del sublime, che produce una commozione indistinta, e tanto più gradevole.
Ma è un soggetto, quanto inesauribilmente fecondo d'applicazioni, altrettanto
inaccessibile alle aggiunte.
Termino qui questi cenni sull'epopea, per passare alla
tragedia; intorno alla quale avrò ancora meno a trattenermi. E s'intende che non si
tratterà se non della tragedia storica, e in quanto storica.
Gl'inconvenienti che nascono in essa da ciò, differiscono
e nel modo e nel grado, da quelli dell'epopea, per cagione d'una differenza essenziale
nella forma de' due componimenti. La tragedia non adopra, come l'epopea, un istrumento
medesimo e per la storia e per l'invenzione, quale è il racconto. La parola della
tragedia non ha altra materia, dirò così, immediata, che il verosimile. I discorsi che
lo Shakespeare, il Corneille, il Voltaire, l'Alfieri, mettono in bocca a Cesare, è tutta
fattura poetica, l'azioni che Lucano racconta di Cesare, possono essere o inventate o
positive. Quindi, nel poema la parola può produrre, ora un effetto poetico, ora un
effetto storico; o, non riuscendo a produrre né l'uno né l'altro, rimanere ambigua.
Nella tragedia è sempre la poesia che parla; la storia se ne sta materialmente di fuori.
Ha una relazione col componimento, ma non ne è una parte [nota 14].
La rappresentazione scenica poi accresce non poco
l'efficacia della parola, aggiungendoci l'uomo e l'azione. E qui fa al nostro proposito
l'osservare (cosa, del resto, degna d'osservazione anche per sé) come questi oggetti
presenti al senso, non solo non disturbino, con l'impressione della loro realtà,
l'effetto della verosimiglianza pura voluto dall'arte, ma lo secondino e lo rinforzino. La
ragione è che tali realtà non operano che come meri istrumenti dell'azione verosimile, e
come tali le prende lo spettatore. Infatti, se un attore, nell'atto della
rappresentazione, fa o dice qualche cosa che si riferisca alla sua persona reale o alle
circostanze di essa, offende lo spettatore, trasportandolo alla considerazione di quella
realtà. E cosa vuol dire questo avvedersene ed esserne offesi, se non che prima se ne
faceva astrazione? E di qui viene che quanto più un attore par che faccia naturalmente, e
quanto più commove, tanto più concentra la mente dello spettatore nel mero verosimile;
quanto più gli rende presente l'uomo della favola, l'uomo o colpito dalla sventura, o
accecato dalla passione, o minacciato da un pericolo ignoto a lui, tanto più gli sottrae,
per dir così, e gli fa scomparir davanti la sua propria e reale personalità. Ed è la
massima lode che si dia a un attore: era ciò che si voleva dire quando si diceva, per
esempio, che Garrick era Hamlet, che Lekain era Orosmane. Non è la realtà presente, ma
ordinata e subordinata al verosimile, quella che ne possa disturbar l'effetto; è la
realtà storica, indipendente dal verosimile, e dalla quale il verosimile deve dipendere;
la realtà storica, conosciuta o anche semplicemente conoscibile, e assente bensì dal
senso, ma compenetrata col soggetto.
Il vantaggio essenziale della forma, quest'altro vantaggio
secondario, ma considerabile, e altri ancora più secondari, che non importa qui di
rammentare, fanno che la tragedia possa, meglio del poema epico, schermirsi dalla storia.
Ma ho detto schermirsi, e aggiungo: cedendo sempre
qualcosa, perché, anche da fuori, la storia riesce a farsi sentire, e a far valere le sue
pretensioni. La relazione estrinseca, ma essenziale, che la tragedia storica ha con essa;
e l'obbligo che ne nasce di trovare de' verosimili che siano tali relativamente al
soggetto preso dalla storia, doveva produrre, e ha prodotti nella tragedia i medesimi
inconvenienti, che nell'epopea: meno frequenti e meno sensibili, è vero; ma ugualmente
crescenti con l'andar del tempo. E a metterli in chiaro, nulla potrebbe servir meglio
degli argomenti ai quali è dovuto ricorrere un gran tragico, per veder di levarli.
" La questione "
dice Pietro Corneille, " se sia lecito far de' cambiamenti ai
soggetti presi o dalla storia o dalla favola, pare decisa in termini abbastanza formali`
da Aristotele, quando dice che non si devono cambiare i soggetti ricevuti, e che
Clitennestra dev'essere uccisa da Oreste, e Erifile da Alcmeone. Questa sentenza però
può ammettere qualche distinzione e qualche temperamento. È certo che le circostanze, o,
se par meglio, i mezzi d'arrivare ai fatto rimangono in nostro arbitrio: la storia spesso
non ce li dà, o ne dà così poco, che è necessario di supplir con dell'altro, per
render compito il poema, e si può anche presumere con qualche apparenza, che la memoria
dello spettatore, il quale abbia lette altra volta queste circostanze, non l'avrà
ritenute così fortemente, da farlo avvedere del cambiamento, abbastanza per accusarci di
menzogna, come farebbe senza dubbio, se ci vedesse cambiare l'azione principale.
"
Così, mentre la tragedia antica si fondava sulla
cognizione che lo spettatore doveva aver de' soggetti, la moderna è costretta a fare
assegnamento sulla dimenticanza.
Aiuto infelice; giacché non pare che deva esser bon segno
in un'arte l'aver paura della cognizione. E aiuto, non solo incerto, ma precario; giacché
se lo spettatore che aveva dimenticate le circostanze storiche del soggetto, e poté
quindi, alla prima recita, godersi senza disturbo l'invenzioni poetiche; se, dico, uscendo
dal teatro con un novo interessamento per quel soggetto, va a rinfrescarsi la memoria nel
libro dove aveva lette quelle circostanze, non sarà più, alla seconda rappresentazione,
lo smemorato che conveniva al poeta. Aiuto, finalmente, ricorrendo al quale, il Corneille
contradice sé stesso; giacché, se le circostanze rimangono nell'arbitrio del poeta,
cos'importa che lo spettatore si rammenti o non si rammenti quelle della storia? Ma che?
il Corneille medesimo, nell'Esame che aggiunse a' suoi
componimenti, tocca più d'una volta l'alterazioni da lui fatte alla storia, e, per
giustificarle, o anche per accusarsene candidamente, le manifesta; e leva così di sotto
alla tragedia storica quella povera gruccia della dimenticanza altrui, che le aveva data.
Darne di tali a un'arte, è un confessare che è diventata zoppa, e dargliele un Pietro
Corneille, è un terribile indizio che non ci sia più il verso di rimetterla su' suoi
piedi.
Ma perché ebbe egli bisogno di cercar delle distinzioni in
un precetto così semplice, de' temperamenti per un precetto così discreto? Perché il
precetto riguardava una cosa, e il Corneille, seguendo una consuetudine già invalsa,
l'applicava anche a un'altra cosa, e diversissima. Aristotele parla delle
favole ricevute [nota 15],
e di queste dice che non si devono alterare; il Corneille paria di soggetti presi o dalla
storia, o dalla favola, come se fosse tutt'uno. Ora, applicato alle favole ricevute, il
precetto non ha bisogno né di temperamenti, né di distinzioni, poiché quelle non
davano, né imponevano altro al poeta, che appunto l'azione principale: Clitennestra
uccisa da Oreste, Erifile da Alcmeone. I mezzi e le circostanze rimanevano davvero
nell'arbitrio de' poeti. La storia in vece dà, insieme co' soggetti, anche de' mezzi e
delle circostanze, che possono non accomodarsi con l'intento dell'arte. Quindi il bisogno
di cambiarle, val a dire d'alterare i soggetti coi quali sono, per dir così,
immedesimate. Che se la storia non le dà, le lascia desiderare; ma ciò non vuoi dire che
un tal desiderio possa essere appagato col mezzo dell'invenzione poetica.
" L'esempio della morte di
Clitennestra ", aggiunge il Corneille, " può
servir di prova alla mia proposizione. Sofocle e Euripide l'hanno trattata tutt'e due, ma
con un intreccio e con uno scioglimento differente; e questa differenza fa che il dramma
non è lo stesso, quantunque sia uno solo il soggetto, del quale i due poeti hanno
conservata l'azione principale. "
E per far questo, ebbero forse bisogno di temperare il
precetto? Neppur per idea: l'eseguirono a un puntino, facendo l'uno e l'altro morir
Clitennestra per mano d'Oreste; giacché il precetto non richiede nulla di più. O
piuttosto prevennero un precetto indicato alla pratica dalle convenienze dell'arte, prima
che Aristotele lo promulgasse. E questo potere ognuno inventare, senza inconvenienti, un
intreccio e uno scioglimento a modo suo, veniva dal non avere ognuno contro di sé, se non
altri intrecci, e altre maniere di scioglimenti. Erano poeti contro poeti, verosimili
contro verosimili, non legati ad altro che a fatti e a caratteri, tanto più fecondi per
l'invenzione, quanto più digiuni di circostanze obbligate. L'inventarne di nove non era
una licenza che i poeti dovessero prendersi; era l'operazione propria della poesia. E a un
bisogno l'attesterebbe Aristotele stesso, il quale aggiunge subito: "Tocca poi al
poeta a inventare, e a far buon uso delle (favole) ricevute". Dà come una
conseguenza naturale del precetto ciò che il Corneille chiede come un temperamento. E
quel precetto era in sostanza il medesimo che fu poi espresso da Orazio
con le parole: famam sequere [nota
16].
Del resto, né i temperamenti forzati del Corneille, né i
suoi sempre ammirabili capolavori poterono sottrarre la tragedia alle sue perpetue
variazioni, e costituirla, per ciò che riguarda le sue relazioni con la storia, in una
forma stabile e definitiva.
Per nostra fortuna, o paziente lettore, non c'è bisogno di
ripassare tutte quelle variazioni, nemmeno di corsa, come s'è fatto con l'epopea. Qui
basterà accennare il fatto attuale, e le sue cagioni prossime. Del tempo intermedio non
voglio rammentare altro che una variazione estrinseca, e che non toccava l'essenza stessa
della tragedia; ma molto significante. Poco dopo la metà del secolo scorso, non so se un
attore o un'attrice francese introdusse una riforma generale nel vestiario, rendendolo
conforme all'uso del tempo in cui era finta l'azione. Prima dipendeva, in parte dalla moda
corrente, in parte dal capriccio dell'attore, in parte da consuetudini che avevano quelle
stesse origini; e ci poteva essere, per un di più, un qualche segno caratteristico,
desunto dalla storia. Il Voltaire, non mi rammento in qual luogo, descrive l'attore che,
nel secolo di Luigi XIV, rappresentava Augusto nel Cinna, con una gran parrucca, e
sopra di questa un gran cappello a gran penne, e le penne lardellate di foglie d'alloro:
il rimanente su quel gusto. Ma cosa voleva dir questo? Che gli spettatori erano più
disposti di quello che furono poi, a veder nell'attore l'Augusto del poeta, l'Augusto
verosimile, senza darsi tanto pensiero dell'Augusto reale della storia. L'introdursi
questa fino nelle quinte a sindacare gli attori, ministri nati della poesia, e
costringerli a prender le sue divise, era un segno del possesso ch'era andata sempre
prendendo sulla tragedia, e un indizio del maggior possesso, che ci voleva prendere.
Infatti, non tardò molto a principiare la rivoluzione
drammatica, che vediamo ora vittoriosa. Era allora sentimento quasi unanime de' dotti e
delle colte persone d'Europa, che la vera, la bona tragedia, quella che potesse soddisfare
il bon gusto, e essere ammessa dal bon senso, era la tragedia nella quale fossero
mantenute le così dette unità di tempo e di luogo. Unità, si diceva, proclamate da
Aristotele, osservate fedelmente nelle tragedie greche, e soprattutto volute dalla
ragione. Se poi Aristotele avesse proposte davvero queste unità; se nelle tragedie greche
fossero davvero state osservate; se la ragione non avesse nulla a dire in contrario, non
si cercava quasi da nessuno; e a chi ne cercasse, si dava sulla voce [nota 17]. È
inutile aggiungere che alla storia quelle regole non convenivano punto. E i tentativi che
aveva fatti fino allora, e che andava facendo, per prendere un maggior posto nella
tragedia, ottenevano bensì qualcosa: la tragedia, a costo anche di storpiarsi, faceva il
possibile, per contentar la storia, ma salve le regole. Si parlava bensì d'un tal
Shakespeare, che, o non curandole, o non sapendo neppure che ci fossero, era riuscito a
far qualcosa da non esser buttato via. Ma se ne parlava come d'un genio selvaggio, d'un
capo strano, con de' lucidi intervalli stupendi: una specie di montagna arida e scoscesa,
dove un botanico, arrampicandosi per de' massi ignudi, poteva trovare un qualche fiore non
comune. E, del resto, le cose che si citavano di quel grande e quasi unico poeta, erano
cavate da que' suoi drammi ne' quali la storia ha meno parte, o non ce n'ha nessuna. Ecco
però, che in Germania salta fuori un altro tale, chiamato Goethe, il quale, entrando
nella strada del dramma storico, segnata dal genio selvaggio e entrandoci, come accade ai
grandi ingegni, senza intenzione e senza paura d'imitare, fa, da' suoi primi passi,
prevalere presso la sua nazione la ragione della storia a quella delle due unità. Ma
nella Francia, superba, da un pezzo, di poeti che avevano tenuta l'altra strada;
nell'Italia, superba d'uno recente era un'altra faccenda. Come! si diceva: le regole alle
quali si sono assoggettati un Corneille, un Racine, un Voltaire, un Alfieri, senza parlare
degli autori della Merope e dell'Aristodemo, parranno ora un freno incomodo all'ingegno,
un ostacolo alla perfezione! Il campo dov'essi hanno fatte le loro gran prove, sarà
diventato angusto! Proporre l'abolizione di quelle regole pareva, non so se più una
temerità da non tollerarsi, o una sciocchezza da compatirsi. Ma che? la storia, per fare
nella tragedia quella grande irruzione che s'era fissata di fare, aveva proprio bisogno
d'abbattere quel baluardo e l'abbattè. In Francia, non ne parliamo, e anche in Italia, da
quello che sento, lo spettatore non ci patisce, e non si chiama offeso se, nel corso d'una
tragedia, vede alzarsi una scena e venir giù un'altra, e se, in quelle tre o quattr'ore
di seduta, il poeta pretende di fargli passare davanti alla mente più di quel benedetto
giro di sole, nominato così innocentemente da Aristotele.
E si veda come una cosa tenuta indietro per forza, si
ricatti, quando gli riesce finalmente di venire avanti. Fino allora i soggetti che nella
storia fossero meno particolarizzati, erano parsi i più opportuni alla tragedia, come
quelli che lasciavano più campo all'invenzione. Se la storia tace, diceva il poeta, tanto
meglio: parlerò io. Ora in vece sono i poeti che, quando i particolari mancano nelle
storie propriamente dette, vanno a cercarne in altri documenti, di qualunque genere,
affine d'arricchire il soggetto, anzi di formarlo. Ben contenti se riescono a dare del
fatto storico da essi rappresentato, un concetto più compito, più contenti ancora, se
riescono a darne un concetto novo, e diverso dall'opinione comune. È appunto il contrario
del famam sequere; ma come poteva essere altrimenti? È una pretensione troppo
contradittoria, il volere che la poesia, per essere efficace, non stia indietro delle
cognizioni del tempo, ne secondi, anzi ne prevenga le tendenze ragionevoli, e che non se
ne faccia carico, per rimaner più libera.
Accennato il fatto, non mi resta che a fare alcune domande:
C'è egli qualcheduno il quale creda che la tragedia possa
tornare a mettersi negli antichi confini, e far di novo a confidenza con la storia, come
ha fatto per tanto tempo? O crede qualchedun altro, che, con l'allargare i confini, si sia
trovata finalmente la giusta misura della parte che la storia deva avere nella tragedia, e
la vera maniera di comporla con l'invenzione? E se ciò non si crede, c'è qualche ragione
di credere che questa misura e questa maniera si possano trovare in avvenire?
Risponda e concluda il lettore.
Venendo finalmente al paragone tra l'assunto comune
all'epopea e alla tragedia, e l'assunto del romanzo storico, è facile vedere che la
differenza essenziale sta in questo, che il romanzo storico non prende il soggetto
principale dalla storia, per trasformarlo con un intento poetico, ma l'inventa, come il
componimento dal quale ha preso il nome, e del quale è una nova forma. Voglio dire il
romanzo nel quale si fingono azioni contemporanee: opera affatto poetica, poiché, in
essa, e fatti e discorsi tutto è meramente verosimile. Poetica però, intendiamoci, di
quella povera poesia che può uscire dal verosimile di fatti e di costumi privati e
moderni, e collocarsi nella prosa. Con che non intendo certamente d'unirmi a quelli che
piangono, o che piangevano (giacché la dovrebb'esser finita) quelle età così poetiche
del gentilesimo, quelle belle illusioni perdute per sempre. Ciò che ci fa differenti in
questo dagli uomini di quelle età, è l'aver noi una critica storica che, ne' fatti
passati, cerca la verità di fatto, e, ciò che importa troppo più, l'avere una religione
che, essendo verità, non può convenientemente adattarsi a variazioni arbitrarie, e ad
aggiunte fantastiche. È di questo che ci dovremo lamentare?
Ho detto: differenza essenziale; infatti, non è, come
nell'epopea e nella tragedia (il rispetto dovuto agli uomini celebri, che hanno dato del
loro alla cosa, non deve impedire di qualificar la cosa medesima), non è quella finzione
grossolana, che consiste nell'infarcir di favole un avvenimento vero, e di più un
avvenimento illustre, e perciò necessariamente importante. Nel romanzo storico, il
soggetto principale è tutto dell'autore, tutto poetico, perché meramente verosimile. E
l'intento e lo studio dell'autore è di rendere, per quanto può, e il soggetto, e tutta
l'azione, tanto verosimile relativamente al tempo in cui è finta, che fosse potuta parer
tale agli uomini di quel tempo, se il romanzo fosse stato scritto per loro.
Ma (e qui è l'inconveniente comune al romanzo storico con
tutte le specie di poesia che inventano sopra un tempo passato) è scritto per degli
altri. Mettiamo pure, che all'autore sia riuscito di comporre un racconto che agli uomini
di quel tempo sarebbe parso verosimile. Un tale effetto sarebbe allora venuto dai
confronto spontaneo e immediato, tra il generale ideato dall'autore, e il reale ch'essi
conoscevano per esperienza; mentre, per produrlo in uomini d'un altro tempo, l'autore è
ridotto a cercar di supplire all'esperienza con l'informazione, e di mettere, dirò così,
in una sola composizione, l'originale e il ritratto. Non c'è il contrasto diretto tra il
vero e il verosimile; e è senza dubbio un gran vantaggio; ma c'è ugualmente o la
confusione dell'uno con l'altro, o la distinzione tra di essi. Anzi c'è, in proporzioni
variabilissime, ma inevitabilmente, e confusione e distinzione, come s'è dimostrato,
forse più del bisogno, nella prima parte di questo scritto.
Non c'è però da maravigliarsi che, durando la persuasione
che la storia e l'invenzione potessero star bene insieme, sia venuto a un uomo di
bellissimo ingegno il pensiero di comporli in una forma nova e più speciosa, e che dava
luogo a una molto maggiore abbondanza e varietà di materiali storici. E c'è ancora meno
da maravigliarsi che, messa in atto da quell'ingegno così immaginoso, e così
osservatore, così fecondo e così penetrante, la cosa abbia prodotto nel pubblico di
tutti i paesi colti quell'effetto straordinario che ognuno sa.
Ma basterà quel vantaggio per assicurare al romanzo
storico almeno una lunga vita?
È una domanda poco allegra per chi gli vuoi bene. Nelle
cose abusive, le correzioni vivono alle volte meno dell'abuso; e non c'è per l'errore
nessun posto più incomodo, e dove possa meno fermarsi, che vicino alla verità. Non si
può dissimulare che ciò che acquistò nel primo momento più favore a un tal
componimento, fu appunto quell'apparenza di storia, cioè un'apparenza che non può durar
molto. Quante volte è stato detto, e anche scritto, che i romanzi di Walter Scott erano
più veri della storia! Ma sono di quelle parole che scappano a un primo entusiasmo, e non
si ripetono più dopo una prima riflessione. Infatti, se per storia s'intendevano
materialmente i libri che ne portano il titolo, quel detto non concludeva nulla; se per
storia s'intendeva la cognizione possibile di fatti e di costumi, era apertamente falso.
Per convincersene subito, sarebbe bastato (ma non sono cose a cui si pensi subito)
domandare a se stessi, se il concetto de' diversi romanzi di Walter Scott era più vero
del concetto sul quale gli aveva ideati. Era bensì un concetto più vasto, ma a
condizione d'essere meno storico. C'era aggiunto un altro vero, ma di diversa natura; e
perciò appunto il concetto complessivo non era più vero. Un gran poeta e un gran storico
possono trovarsi, senza far confusione, nell'uomo medesimo, ma non nel medesimo
componimento. Anzi, quelle due critiche opposte, che ci hanno dato il filo per fare il
processo al romanzo storico, erano già spuntate ne' primi momenti, e in mezzo alla voga,
come germi di malattie mortali avvenire in un bambino di floridissimo aspetto. E la voga,
si mantiene poi sempre uguale? C'è la stessa voglia di far romanzi storici, e la stessa
voglia di leggere quelli che sono già fatti? Non so; ma non posso lasciar d'immaginarmi
che, se questo scritto fosse venuto fuori un trent'anni fa, quando il mondo aspettava
ansiosamente, e divorava avidamente i romanzi di Walter Scott, sarebbe parso stravagante e
temerario, anche riguardo al romanzo storico; e che ora, se qualcheduno avrà la bontà
d'occuparsene abbastanza per dargli questi titoli, sarà per tutt'altro. E trent'anni
dovrebbero essere un niente per una forma dell'arte, che fosse destinata a vivere.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 12 gennaio 1999