Alessandro Manzoni
Del romanzo storico
PARTE SECONDA
(I)
L'assunto dell'epopea,
secondo il concetto generalmente ricevuto d'un tal componimento, è di rappresentare un
grande e illustre avvenimento, inventandone in gran parte le cagioni, i mezzi, gli
ostacoli, i modi, le circostanze; per produrre così un diletto d'una specie più viva, e
un'ammirazione d'un grado più elevato di quello che possa mai fare la semplice e sincera
narrazione storica dell'avvenimento medesimo.
Non esito a dire, che se una cosa simile
venisse proposta ora com'ora, per la prima volta, e a priori, senza che ce ne
fosse alcun esempio di fatto, e solamente come una cosa da potersi fare, la proposta
parrebbe strana ai dotti e agl'indotti ugualmente. Chi non avesse, d'un grande e illustre
avvenimento qualunque, una notizia circostanziata, e lo conoscesse solamente per quella
formola, più o meno astratta, che è, per dir così, il nome proprio degli avvenimenti,
non saprebbe intendere come uno potesse invitarlo a occuparsi di quel l'avvenimento, se
non appunto per fargliene conoscere le cagioni, i mezzi, gli ostacoli, i modi, le
circostanze, e per dar così a quella poverissima e capacissima formola ciò che le manca
nella sua mente. Chi poi n'avesse una cognizione più estesa, più circostanziata,
troverebbe forse ancora più singolare, per dir poco, il disegno di rappresentarglielo
separato da una parte qualunque, non che da una gran parte di quelle condizioni così
naturalmente legate, compenetrate con esso, e unito in vece con delle condizioni
immaginarie. Disposto a ricevere tutto ciò che potesse o estendere di più, o rettificare
il suo concetto, sarebbe ugualmente pronto a opporre a ogni cosa che venisse per
alterarlo, quell'incredulus odi, con cui la mente ributta, non solo la
specie particolare di falso a cui applicò Orazio tali parole [nota 03], ma il falso d'ogni genere e d'ogni
grado, che si presenti a richiedere un posto già occupato da un vero.
Si veda infatti come gli scrittori di
storia, gente che conosce i suoi interessi, e che, al pari di qualunque poeta epico,
desidera di produrre e diletto e ammirazione, cerchino, e i moderni particolarmente, di
secondare questa disposizione de' lettori. Si veda come si diano premura d'avvertirli che
le condizioni reali dell'avvenimento, - grande o piccolo (e tanto più, se grande), o
della serie d'avvenimenti che sono per descrivere, erano o poco o male conosciute; che la
c'è voluta tutta a nettare quella materia da ciò che ci aveva appiccicato la mala fede
degli uni, e l'immaginazione degli altri, che, sulle cagioni e principali e secondarie,
sui modi, sulle circostanze, si troveranno ne' loro lavori delle notizie tanto nove e
inaspettate, quanto genuine, che in somma le loro ricerche e le loro osservazioni gli
hanno messi in caso di sostituire un concetto più ordinato, più intero, più sincero di
quello o di quegli avvenimenti, al concetto più o meno alterato e confuso, che se ne
poteva aver prima. E a lettori e scrittori che hanno tra di loro un'intesa di questa
sorte, e prodotta da tali motivi, si verrebbe a proporre l'alterazione de' concetti de'
grandi avvenimenti, come scopo e soggetto d'una nova specie di lavori! Proposta che, a
svolgerla appena appena, verrebbe a dire, a un di presso, così:
Tra gli avvenimenti passati di cui rimane
la memoria, ce ne sono alcuni che si chiamano grandi e riguardo alle cagioni e riguardo
agli effetti; cioè, da una parte, per un concorso straordinario di voleri e d'azioni
umane, che cooperarono, anche col loro contrasto, a farli riuscire quali li conosciamo;
dall'altra, per una straordinaria mutazione che ne seguì nello stato d'una o di più
società. Ognuno di questi avvenimenti ebbe, oltre le sue cagioni principali, una
quantità di cagioni secondarie, e anche nate ne' diversi momenti del suo progresso;
ognuno ebbe i suoi ostacoli e i suoi aiuti, i suoi ritardi e le sue spinte, i suoi
accidenti e i suoi modi speciali e, per dir così, individuali. E, certo, fa un'opera
sensata e utile lo storico, a raccoglier tutte quelle notizie, a depurarle, a serbare a
ciascheduna cosa, e a ciaschedun uomo il suo proprio modo, il suo proprio grado
d'efficienza sul tutto, a studiare e a mantenere l'ordine reale de' fatti, dimanieraché
il lettore, ammirando la grandezza e la novità del resultato, lo trovi insieme
naturalissimo, anzi relativamente necessario. Ma c'è qualcos'altro da fare, e, in un
certo senso, qualcosa di meglio: rappresentare quegli avvenimenti quali avrebbero dovuto
essere, per riuscir più dilettevoli e più maravigliosi. E questa, o poeta, è la tua
parte. A te dunque a fare una nova scelta tra le parti dell'avvenimento, lasciando fuori
quelle che non servono al tuo intento speciale e più elevato, e trasformando come ti
torna meglio quelle che ti torna meglio di conservare; a te a trovare delle difficoltà
che, secondo te, avrebbero dovuto ritardare o sviare il corso dell'avvenimento, e
naturalmente a trovare anche gli sforzi coi quali si sarebbero dovute superare; a te a
immaginare accidenti, disegni, passioni e, per far più presto, uomini che avrebbero
dovuto averci una parte più o meno importante; a te a disegnar la strada che le cose
avrebbero dovuta prendere per arrivare dove sono arrivate.
Ho detto che, se un progetto di questa
sorte venisse in questi tempi proposto a priori, parrebbe strano: non temerei di
dir troppo aggiungendo che non verrebbe neppure in mente a nessuno.
Anzi, se vogliamo guardare un po' più in
là, o piuttosto rammentarci di cose note, si troverà che ciò non accadde in nessun
tempo. L'epopea letteraria (della quale l'epopea storica non fu nemmeno la prima forma)
non venne al mondo, per dir così, a caso pensato; non fu la realizzazione d'un concetto
astratto e anteriore; fu l'imitazione d'un fatto molto, ma molto, diverso. L'epopea
primitiva e, dirò così, spontanea non fu altro che storia: dico storia nell'opinione
degli uomini ai quali era raccontata o cantata; che è ciò che importa e che basta alla
questione presente. Di quella allora creduta storia rimasero due monumenti perpetuamente
singolari, l'Iliade e l'Odissea. E quando non poterono più essere accettati per vera e
genuina storia: ma nello stesso tempo, riuscivano sommamente dilettevoli, per altre
ragioni, e potevano quindi esser considerati anche da un lato puramente estetico; nacque
facilmente il pensiero di comporne altri sulla stessa idea, e (perché anche l'imitazione
non va per salti) sopra soggetti presi ugualmente dalle tradizioni dell'età favolose. E
questa fu la prima forma dell'epopea letteraria; la quale differiva dalla prima in quanto
al non avere né l'effetto, né I ' intento d'ottener fede alle cose raccontate; e ne
serbava però quella condizione importante del raccontar cose, alle quali non c'erano cose
positive e verificabili da opporre. Non era più la storia, ma non c'era una storia, con
la quale avesse a litigare. Il verosimile, cessando di parer vero, poteva manifestare e
esercitar liberamente la sua propria e magnifica virtù, poiché non veniva a incontrarsi
in un medesimo campo col vero, il quale, o volere o non volere, ha anch'esso una sua
ragione e una sua virtù propria e che opera indipendentemente da ogni convenzione in
contrario. Di questa forma c'è rimasto il monumento, senza dubbio il più splendido, l'Eneide.
Che poi i poemi omerici fossero da
principio accettati come storia, s'argomenterebbe abbastanza, quando non ce ne fossero
altri indizi, dal sapere che allora non ce n'era altra, e dal riflettere che i popoli non
stanno senza storia. De' fatti umani, e principalissimamente di quelli de' loro antenati,
vogliono essi conoscere il vero, e ne vogliono conoscer molto, ben lontani
dall'immaginarsi che, in una tal materia, si possa cavare un piacere d'altro genere dalla
contemplazione del mero verosimile. Quindi quell'ingrossarsi, e quel trasformarsi delle
tradizioni, alle quali l'invenzione sostituiva di mano in mano, e con la bona misura, i
particolari che non potevano più esser somministrati dalle rimembranze: invenzione,
facile, spontanea e, in parte, direi quasi involontaria ne' suoi autori, e che, certo, non
era presentata a delle menti desiderose di trovarla in fallo. Del rimanente, che tale
fosse e l'autorità e l'origine di que' poemi, nessuno ne dubita, e non è certamente
d'uomini tra i meno osservatori o tra i meno eruditi quella congettura, che siano, non
già lavori d'un uomo solo, messi, per dir così, in brani da quelli che li cantavano,
più o meno fedelmente, al popolo, e rimessi poi insieme; ma una raccolta, una cucitura
del lavoro successivo di molti, intorno ai medesimi temi; e che il loro vero autore sia
stato l'Omero sperduto dentro la folla de' greci popoli,
come dice il Vico, con quella sua originalità, non di rado ancor più dotta che ardita. A
ogni modo, quelle storie parlavano alla credulità, non al bon gusto, che non era ancora
nato. E si pensi un poco come sarebbero stati accolti i rapsodi se avessero detto, e
potuto dire: bona gente, i fatti che siamo per cantarvi, avremmo potuto raccontarveli, per
quello che se ne sa, come sono avvenuti, ma per divertirvi meglio, crediamo bene di
presentarveli in una forma diversa, arbitraria, levando e aggiungendo, secondo l'arte.
Un esempio più specificato di questo
amore rigoroso della verità in gente ascoltatrice avidissima di favole, si può vedere
ne' romanzi del medio evo, cantati anch'essi da quella specie di novi rapsodi, chiamati
trovatori, giullari, menestrelli: romanzi da' quali provenne la nova epopea, che ne prese
il nome di romanzesca. Ecco a questo proposito alcune parole dell'erudito La Curne S.te
Palaye:
" Pare che da
principio la storia sola fosse l'oggetto di que' poemi, se così si possono chiamare de'
racconti composti in metro e in rima, per aiuto della memoria...
" È certo che le cronache di san
Dionigi erano in gran credito ne' secoli XIII e XIV, e che gli storici non trovava no un
mezzo migliore per acquistar fede presso i lettori, che di farsi belli dell'autorità di
quelle."
Tra i passi di que' poeti storici,
allegati dal dotto accademico, ne citerò uno d'un Filippo Mouskes, che scriveva nel
principio del secolo XIII. Costui, dopo essersi accusato di non aver altre volte usata la
dovuta cautela nella scelta de' suoi autori, aggiunge:
... Quant
un me conseilla |
.... Quando qualcuno mi
consigliò che troppo oscuramente conoscevo i fatti che descrivevo, e andando a San Dionigi avrei trovato il vero delle gesta senza menzogne o frivolezze; subitamente dopo queste parole vi andai e tanto ho cercato che, visto quel che desideravo, capii ch'eran falsi quei fatti che avevo descritto finora; così li bruciai perché nessuno più vi credesse, e da allora seguii la vera storia, che d'allora in poi misi sulla carta. [trad. del redattore] |
E cosa trovavano poi
in quelle famose cronache, dato che andassero davvero a consultarle? Trovavano:
"Come cils
Kalles (Carlomagno) la conquist toute (la Spagna) entièrement en son tens,
et la fist obaïr à ses commandemens;
"Come Fernagus un Jaianz du
lignage Goulie estoit venu à la cité de Nadres des contrées de Surie: si l'avoit
envoié l'amiraus de Babilone contre Kallemaine pour deffendre la terre d'Espaigne;
" Comment (e questo era uno
de' fatti più ricantati) Rollans occist le Roi Marsile, et puis comment il fendit le
perron (il masso), quant il cuida despiecer sespée; et puis comment il sonna
derechief l'olifant (il corno), que Kalles oï de VIII miles loing.
"
[Come quel Carlo la conquistasse tutta interamente nel suo tempo, e la fece obbedire ai
suoi ordini;
Come Fernagus, un gigante della stirpe di
Golia era venuta nella città di Nadres dalle contrade della Soria: infatti l'aveva
inviato l'emiro di Babilonia contro Carlomagno per difendere la terra di Spagna
Come Rolando uccise il Re Marsilio, e poi
come fendette il sasso, quando cercò di spezzare la sua spada; e infine come suonò
nuovamente l'olifante che Carlo sentì otto miglia lontano.
trad. del
redattore]
All'osservazione del
dotto La Curne, non sarà superfluo l'aggiungerne una simile, ma fondata sopra ricerche
molto più vaste, dell'illustre e pianto mio amico Fauriel.
"Ogni autore
d'un romanzo epico del ciclo carlovingico, non tralascia mai di darsi per uno storico
davvero. Principia sempre col protestare che non dirà cosa che non sia certa e autentica;
cita sempre mallevadori, autorità, alle quali rimette coloro di cui ambisce il suffragio.
Queste autorità sono ordinariamente certe cronache preziose, conservate nel tale o nel
tal altro monastero, delle quali ha avuto la fortuna di potersi servire col mezzo di
qualche dotto monaco...
"I termini con cui qualificano le
loro novelle sono anch'essi suggeriti da quella pretensione d'averle cavate da documenti
venerabili. Le chiamano chansons de vieille histoire, de haute histoire, de bonne
geste, de grande baronie, e non è per vantar sé stessi, che usano simili
espressioni: la vanità letteraria non ha in loro forza veruna in paragone del desiderio
d'esser creduti, di passare per semplici traduttori, per semplici ripetitori di leggende o
di storie consacrate. "
Quelle proteste equivalgono
all'invocazione omerica della dea figlia della memoria; e fanno vedere come, anche in un
tempo di storia scritta, fosse il desiderio di credere, quello che attirava ai racconti
epici la parte più indotta della popolazione, cioè la parte che somigliava di più alla
popolazione intera de' tempi d'Omero, o degli Omeri, che si voglia dire.
Ma per continuare questi brevi cenni
sull'antichità classica (giacché, per fortuna, l'argomento non c'impone di parlare de'
fatti analoghi di altre antichità: fatti notabilissimi, ma che non ebbero parte nella
genesi dell'epopea di cui trattiamo) è certo che anche in Roma l'epopea
comparve [nota 04]
in apparenza e con autorità di storia. Che il racconto della fondazione di Roma fosse in
gran parte una fattura poetica, era cosa già riconosciuta al tempo di T. Livio;
l'osservazione de' moderni estese questo giudizio, dove con argomenti molto forti, dove
con più o meno probabili, ad epoche più avanzate. Ma la più antica forma nella quale
que' racconti siano pervenuti fino a noi, è la forma propria della storia, e pare
verosimile che abbiano cessato presto d'essere in arbitrio di poeti ciclici, se ci furono
mai. Era quello un serioso poema, come dice il Vico del Diritto romano antico; e
non pare che il patriziato romano, custode, conservatore e consacratore d'ogni cosa,
avrebbe lasciata in balia de' divertitori e maestri della plebe una storia nella quale
erano piantati i fondamenti d'istituzioni fatte per mantenere il suo dominio sulla plebe.
Il soggetto di quell'epopea non era un'accidentale e temporaria federazione di principi,
per la distruzione d'una Città, e per ritornar vincitori ne' loro rispettivi stati
(poveri stati!) a far baruffe tra di loro, dopo averne fatte di strane, anche nel tempo e
nel forte dell'impresa. Era la fondazione e il progresso della città (e che città!) di
que' patrizi medesimi. Importava poco, anche ai Greci, che Minerva avesse detta una cosa
più che un'altra a Pandaro, per indurlo a ferir Menelao o Iride ad Achille, per mandarlo
a salvar da' Troiani il corpo di Patroclo; ma non sarebbe stata una cosa indifferente che
la fantasia di poeti popolari avesse potuto sbizzarrire sulle conferenze di Numa con
Egeria; dalle quali era uscita l'istituzione de' sacerdozi e la norma de' riti e, non che
altro, la scienza, rimasta poi arcana per tanto tempo, de' giorni fasti e nefasti. La
novella dell'augure Azzio Navio, che opponendosi a Tarquinio Prisco il quale voleva
istituire delle nove tribù senza la prova dell'augurio, conferma la sua scienza con un
prodigio, bastava a stabilire e a perpetuare l'autorità degli augùri e degli auspìci,
senza i quali non si doveva prendere determinazione veruna", e i quali erano
attribuzione e proprietà de' patrizi". E sarebbe stata cosa, non solo superflua, ma
pericolosa, che dell'altre novelle su una tale materia fossero inventate, a capriccio o
maliziosamente, e cantate alla plebe, contro la quale gli auspici erano così spesso
adoprati, e della quale servirono a frenar gi'impeti e a interrompere le deliberazioni,
anche quando queste erano diventate legali. C'era, tanto nell'epopea greca, quanto nella
latina, una donna, cagione, in quella, d'un grande avvenimento, in questa, d'una gran
mutazione. Ma d'Elena, moglie d'uno di que' tanti re, si potevano senza inconveniente
accrescere e variar le vicende, e quand'anche a Sparta fosse convenuto di tramandarle in
una forma unica e consacrata, qual mezzo avrebbe avuto di far chetare il cicalìo poetico
del rimanente della Grecia? Lucrezia, matrona, moglie d'uno de' patrizi romani, tanti
anch'essi, ma formanti una perpetua unità dominatrice, era la vittima per cui rimaneva
santificato il passaggio dall'aristocrazia col re alla più pretta aristocrazia coi
consoli: e non era una memoria da abbandonarsi all'arbitrio fecondo delle fantasie.
Quando poi, e fu molto tardi, quella
storia poté ritornare in mano de' poeti, ma di tutt'altri poeti, cioè de' poeti
letterari, aveva già presa una forma così stabile e distinta, che difficilmente sarebbe
potuto venire in mente a nessuno, di farne qualcosa di suo. Era ancora troppo autorevole
perché potesse parer conveniente di staccarne un pezzo qualunque, per ingrossarlo con
delle favole nove, e trovate tutte in una volta, e da un uomo solo. Questo spiega, se non
m'inganno, il perché Ennio, volendo pure farla ridiventar poesia, non trovò da far altro
che metterla in versi tutta quanta. E avendo presa questa strada, non fa specie che
tirasse avanti, e continuasse quella storia fino quasi ai suoi tempi, come pare da'
frammenti che ci rimangono de' suoi annali. E basterebbe anzi questo solo titolo [Annales,
nda] per indicare che il soggetto dell'opera non era un'azione una e compita, avente
principio, mezzo e fine, che, come dice Aristotele, e come la intendono tutti, è un
costitutivo essenziale del poema epico [nota 05]. Non può quindi Ennio esser
riguardato né come un continuatore dell'epopea omerica, e neppure come il fondatore
dell'epopea storica; la quale ha comune con quella l'assunto di rappresentare un'azione
una e compita, quantunque ne differisca essenzialmente nel prendere il suo soggetto da una
materia così diversa, come è la storia dalla favola.
Che, prima d'arrivare a una così forte e
così radicale alterazione, l'epopea letteraria e artifiziale, nata (e come sarebbe potuta
nascere altrimenti?) dall'imitazione della primitiva e spontanea, cercasse di seguirla, e
tentasse d'emularla nel campo della favola; che percorresse uno stadio di mezzo, dirò
così, tra l'Iliade e la Farsalia, era una cosa molto naturale. Ma perché
un tal tentativo, con tutti gli svantaggi dell'imitare artifizialmente ciò ch'era nato
spontaneamente, ciò che ha avuta la sua ragion d'essere da uno stato di cose e di menti
che non era più, potesse produrre un'opera originale in un'altra maniera, un'opera, non
simile certamente al suo archetipo, ma non inferiore a nulla, ci volle un soggetto unico,
come l'Eneide, e un uomo unico per trattarlo, come Virgilio.
In quel soggetto e mitologico e, nello
stesso tempo, legato con la fondazione di Roma, trovava il poeta e la feconda libertà
della favola, e il vivo interesse della storia. Da una parte, in quella vasta e leggiera
nebbia de' secoli eroici, poteva suscitare apparizioni fantastiche, speciosa miracula,
inventare a piacer suo, attaccando le sue invenzioni a invenzioni anteriori, celebri
quanto la storia, o più, e insieme estensibili di loro natura. Le cognizioni storiche o
credute storiche intorno a que' tempi, erano scienza di pochi eruditi; e non voglio dire
certamente che, nel secolo d'Augusto, l'epopea potesse serbare tutto quel libero e sicuro
andamento della prima ma si pensi quanto deboli e larghe potevano esser per essa quelle
pastoie, in paragone di quelle in cui si trovò poi stretta l'epopea storica. Non aveva
Virgilio a ficcar gli dei, come fecero poi altri, che credevano d'imitarlo in avvenimenti,
il concetto de' quali era già nelle menti compito e spiegato, senza che quegli dei
c'entrassero come attori personali e presenti. Li trovava nel soggetto medesimo: non era
lui che, per magnificare il suo eroe, lo facesse figliolo d'una dea; né che facesse per
la prima volta scender questa a soccorrerlo ferito in battaglia. L'intervento dell'altre
divinità in suo favore o contro di lui, era un seguito d'una gara già avviata, d'impegni
già presi. E dall'altra parte, quel soggetto, che veniva così a essere quasi una
continuazione dell'Iliade, era, cioè poté diventare in mano di Virgilio, il più
grandiosamente e intimamente nazionale per il popolo nella cui lingua era scritto. Ché,
al di là di tutte quelle vicende poetiche, e come ultimo e vero scopo di quelle, sta
sempre Roma; Roma, il soggetto, direi quasi, ulteriore del poema. È per essa, che
l'Olimpo si commove, e il fato sta immobile. Qualunque soggetto preso direttamente dalla
storia di Roma, oltre al non poter mai diventare tutto poetico (che doveva essere un gran
motivo di repugnanza per Virgilio) non sarebbe stato che un episodio di quell'immensa
storia. Non poteva esser altro che un'impresa cagionata da imprese antecedenti, e
diventata cagione d'altre imprese avvenire; una vittoria che preparava altre guerre; un
ingrandimento dell'impero, che gli accostava altri popoli da debellare. Nell'Eneide, Roma
è veduta da lontano, ma tutta; e lasciate fare al poeta a attirar là il vostro sguardo
ogni momento, e sempre a proposito, sempre mirabilmente. Lasciate fare a lui a
rappresentarvene anche direttamente la storia futura; ora in qualche particolare, con de'
cenni rapidi e maestri, ora più distesamente, con l'artifizio di bellissime invenzioni
poetiche, come la predizione d'Anchise, o l'armi fabbricate da Vulcano. Invenzioni nove o
vecchie, poco importa, quando sono passate per le mani di Virgilio.
Poiché, quale virtù di stile poetico si
può immaginare maggior della sua? Dico quello stile che s'allontana in parte dall'uso
comune d'una lingua, per la ragione (bonissima, chi la faccia valer bene), che la poesia
vuole esprimere anche dell'idee che l'uso comune non ha bisogno d'esprimere, e che non
meritano meno per questo d'essere espresse, quando uno l'abbia trovate. Ché, oltre le
qualità più essenziali e più manifeste delle cose, e oltre le loro relazioni più
immediate e più frequenti, ci sono nelle cose, dico nelle cose di cui tutti parlano,
delle qualità e delle relazioni più recondite e meno osservate o non osservate; e queste
appunto vuole esprimere il poeta, e per esprimerle, ha bisogno di nove locuzioni. Parla
quasi un cert'altro linguaggio, perché ha cert'altre cose da dire. Ed è quando, portato
dalla concitazione dell'animo, o dall'intenta contemplazione delle cose, all'orlo, dirò
così, d'un concetto, per arrivare il quale il linguaggio comune non gli somministra una
formola, ne trova una con cui afferrarlo, e renderlo presente, in una forma propria e
distinta, alla sua mente (ché agli altri può aver pensato prima, e pensarci dopo, ma non
ci pensa, certo, in quel momento). E questo non lo fa, o la fa ben di rado, e ancor più
di rado felicemente, con l'inventar vocaboli novi, come fanno, e devono fare, i trovatori
di verità scientifiche; ma con accozzi inusitati di vocaboli usitati, appunto perché il
proprio dell'arte sua è, non tanto d'insegnar cose nove, quanto di rivelare aspetti novi
di cose note; e il mezzo più naturale a ciò è di mettere in relazioni nove i vocaboli
significanti cose note. Queste formole non passano, se non per qualche rara opportunità,
nel linguaggio comune, perché, come s'è detto dianzi, il linguaggio comune non ha per lo
più bisogno d'esprimere tali concetti; e la virtù propria della parola poetica è
d'offrire intuiti al pensiero, piuttosto che istrumenti al discorso. Ma quando sono, come
devono essere, concetti veri insieme e pellegrini, riescono doppiamente gradevoli. E, non
lascerò d'aggiungere, estendono effettivamente la cognizione; per quanto ci siano di
quelli che credono filosofia il riguardare come oggetto esclusivo della cognizione, alcune
categorie di veri [nota
06].
Avere accennato ciò che la poesia vuole,
è avere accennato ciò che Virgilio fece, in un grado eccellente. Chi più di lui trovò
in una contemplazione animata e serena, nell'intuito ora rapido, ora paziente (appunto
perché vivo) delle cose da descriversi, nel sentimento effettivo degli affetti ideati, il
bisogno e il mezzo di nove e vere e pellegrine espressioni? [nota 07] E
intendo un vero bisogno, giacché chi più alieno di lui dal posporre la locuzione
usitata, quando fosse bastante al suo concetto? Ma era frequente il caso che non bastasse,
e quindi così frequenti, ma non mai troppi, ne' suoi versi, quegli accozzi di parole
così inaspettati e non mai violenti; direi la callida junctura d'Orazio; ma, per quanto
l'espressione sia felice, l'arte di Virgilio par che richieda una qualificazione più
gentile e più elevata. E credo che non si possa trovare a ciò parole più adatte, di
quelle sue:
Nec sum animi dubius verbis ea
vincere magnum [Né mi sorge dubbio nell'animo di poter vincere con l'espressione tali argomenti e aggiungere quest'onore a piccole cose - trad. del r.] |
quantunque non riguardino che l'applicazione di quell'arte a una specie d'oggetti. E aggiunge:
Sed me Parnassi deserta per
ardua dulcis [Ma un dolce amore mi rapisce attraverso le solitarie cime del Parnaso e mi piace andare per i monti dove nessuna traccia di altri viandanti si dirige per un dolce pendio verso la fonte Castalia.- trad. del r.] |
Che vuol dire: ma io
sento d'esser Virgilio. E stavo per dire che, con quello stile, un poema sarebbe un
oggetto perpetuo d'ammirazione, qualunque ne fosse stato l'argomento, qualunque
l'invenzione delle parti. Ma m'avvedo a tempo, che la supposizione non sarebbe
ragionevole. Quello stesso giudizio squisito e sdegnoso, che guidava Virgilio nella scelta
dell'espressioni, non gli avrebbe permesso d'attaccarsi a un argomento che non avesse le
migliori condizioni, né a invenzioni che non avessero un pregio intrinseco; sia quelle
che si fossero presentate alla sua mente, sia le altrui, che trovasse capaci e degne
d'esser fatte sue.
Ma ecco che, subito dopo Virgilio,
comparisce Lucano, che si può dire il fondatore dell'epopea storica; giacché non si sa,
credo, che alcuno prima di lui prendesse per soggetto d'un lungo poema un avvenimento di
tempi storici, formato di molti e vari fatti, e avente quell'unità d'azione, che resulta
dall'esser questi e legati tra di loro, e conducenti alla conclusione di quello. E non ho
detto semplicemente: un avvenimento storico; ma di tempi storici; perché lì è la
differenza essenziale tra la Farsalia e l'epopee anteriori. L'importanza della quale non
fu, mi pare, abbastanza riconosciuta dai critici; i quali notando in quel poema altre
differenze reali, ma secondarie, non s'avvidero ch'erano dipendenti da quella prima e
capitale innovazione. Perché la guerra di Troia può essere chiamata, più o meno, un
fatto storico, come le guerre civili di Roma; perché un Enea venuto in Italia dopo quella
guerra può essere, più o meno, chiamato un personaggio storico come Cesare; poté anche
parere che tra i soggetti dell'Iliade e dell'Eneide, e il soggetto della Farsalia non ci
fosse una differenza sostanziale, e che le innovazioni di Lucano siano venute da un suo
genio particolare, da un capriccio. Ma chi appena ci badi, vedrà, se non m'inganno,
ch'erano conseguenze, non necessarie ma naturali dell'aver preso il soggetto del poema da
tempi storici, cioè da tempi, de' quali il lettore aveva, o poteva acquistare quando
volesse, un concetto indipendente e diverso da quello che all'invenzione poetica fosse
convenuto di formarci sopra. Se ci fu capriccio, fu quello.
Di queste innovazioni accennerò le due
che furono principalmente notate. Una, l'avere il poeta seguita servilmente la storia, in
vece di trasformarla liberamente. Ma fu perché la storia era nel soggetto; e il poeta
doveva scegliere tra il seguirla, o il contradirla, affrontando così e urtando un
concetto già piantato nelle menti, e con bone radici [nota 08].
L'altra, l'avere esclusi gli dei dal
poema. Ma fu perché non li trovava nel soggetto. E si può egli dire che sia la stessa
cosa il mettere in opera gli elementi d'un soggetto, e l'introdurcene degli estranei?
I critici che biasimarono Lucano d'aver
voluto re, per ciò che riguarda gli avvenimenti, una storia in versi piuttosto che un
poema (l'altre critiche a cui andò e va soggetta la Farsalia, sono estranee al nostro
argomento), non esaminarono, da quello che mi pare, se, volendo pur comporre in quel tempo
un poema epico, c'era da far qualcosa di meglio. Introdurre le divinità mitologiche in un
soggetto di tempi storici, e, per poterlo fare con maggior libertà, prendere il soggetto
da tempi più remoti? O prendere il soggetto dai tempi favolosi? L'una e l'altra cosa fu
fatta con esito poco felice, e non da uomini così sforniti di doti poetiche, che se ne
possa dar loro la colpa principale. E sarebbero, certo, più lodati, anzi credo, ammirati,
se l'opere di Virgilio fossero perite; perché ammaestrati da lui di ciò che poteva la
lingua latina, e imitandolo in quella lingua medesima, poterono, in quanto allo stile,
esser forse più continuamente e più arditamente poeti, di quello che le lingue moderne
permettano anche ai più felici ingegni.
Silio Italico fece, come Virgilio,
intervenire gli dei nel suo poema. Ma il soggetto era la seconda guerra cartaginese; e
Annibale e Scipione non avevano parenti nell'Olimpo, come Enea e Turno. Non erano eroi
misti con gli dei, ma generali e uomini di stato di due repubbliche. E si pensi che
effetto potesse fare, anche a lettori gentili, ma che avevano Livio e Polibio, il dio
Marte che, entrato in persona nella battaglia del Ticino, copre col suo scudo il giovine
Scipione; e gli parla dal suo cocchio in aria; e Giunone che, per sottrarre Annibale vivo
dal campo di Zama, gli manda incontro una fantasima in figura di Scipione, la quale
fuggendogli poi davanti, lo tira fuori della battaglia. Perché Virgilio aveva potuto, con
convenienza poetica, far durare l'odio di quella dea contro i profughi da Troia, contro
Enea, cugino di Paride, credette Silio Italico di poter resuscitare quell'odio contro i
Romani del sesto secolo. E non badò che la pace era fatta da un pezzo; non intese bene
quel luogo dell'Eneide, dove Giove le dice: Quae jam finis erit, conjux?... Desine jam
tandem... Ulterius tentare velo. E barattata qualche altra parola, Annuit
his Juno, et mentem laetata retorsit, Che voleva dire: la novella è finita; vengono
tempi e fatti, ne' quali gli dei non si potranno far entrare, che per forza.
Del resto, anche Silio Italico fu
tacciato d'essere stato troppo ligio alla storia. Quel solito giudizio, nato dal non
riflettere che, quando si cambia la materia, non è così facile conservar la forma; dal
supporre che della storia si possa far lo stesso che della favola.
La Tebaide di Stazio e l'Argonautica
di Valerio Flacco erano soggetti presi, come l'Eneide, da' secoli eroici; solo ci
mancava quel magnifico e perpetuo legame con l'origine, col progresso, con le tradizioni,
coi destini d'una società viva e vera, e d'una società come Roma. Che è poco? I
racconti fondati sulla mitologia, dopo esser piaciuti come cose credute vere, poterono
piacere come una forma speciale di verosimile; ma era un pezzo che la cosa durava. E
perché, per noi che abbiamo la sorte di non esser politeisti, " quel maraviglioso
(se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi e gli Apolli, e gli altri numi de'
Gentili, è non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo ed insipido e di nessuna virtù
", non bisogna credere che per i politeisti dovesse essere una fonte inesausta di
curiosità e di piacere. E d'uno di loro quel lamento:
Expectes eadem a summo minimoque poeta. |
Dove potevano
dunque i poeti latini trovare oramai degli argomenti per l'epopea, quando la storia non
poteva dirsela con la mitologia, e la mitologia senza la storia non era più altro che una
novella vecchia? La pianta era morta, dopo aver portato il suo fiore immortale.
Venendo alla letteratura moderna,
troviamo subito un altro poema immortale, ma di tutt'altro genere, e per la materia e per
la forma. Certo, non si può dire lo stesso affatto del Furioso, il soggetto del
quale è di questo mondo, e di tempi storici. Ma, come ognuno sa, un concetto favoloso di
que' tempi era diffuso e accettato da un pezzo, e diventato materia usuale di poemi.
Quindi l'Ariosto non ebbe ad affrontar la storia: non faceva altro che continuare una
favola. La quale non poteva regnare ancora per molto tempo, ma regnava ancora abbastanza
per potere aver da lui il suo primo e ultimo capolavoro [nota 09].
Il primo poema che comparve con intento e
in forma d'epopea classica insieme e storica, fu l'Italia Liberata del Trissino.
E in verità, non si saprebbe intendere
come mai un tal lavoro abbia potuto acquistar fama presso i contemporanei, e conservarla
presso i posteri, se non si conoscesse la cagione speciale d'un tal fenomeno. Per quanto,
al tempo del Trissino, la poesia italiana avesse presa, e già percorsa a gran passi una
strada diversa da quella segnata dai classici dell'antichità greca e latina, c'era,
insieme con l'ammirazione per i gran poeti volgari, come li chiamavano, una persuasione
che la vera e unica perfezione dell'arte non si trovasse se non nell'opere di
quell'antichità. Pareva di vedere nella nova poesia tanti vacui, quante erano le specie
di composizioni poetiche, di cui quell'antichità aveva tramandati degli esemplari. Lo
studio crescente della letteratura latina, gli avanzi sepolti che se ne andavano scoprendo
di mano in mano, la piena dell'opere greche, entrata dopo la presa di Costantinopoli,
avevano accresciuto a dismisura il desiderio di veder riempiti que' vacui. Il Trissino
venne avanti coraggiosamente, e ne riempì due, e non de' più piccoli certamente. Diede
alla letteratura moderna la prima tragedia regolare: la Sofonisba, e il primo poema
regolare: l'Italia Liberata. E se l'Ariosto non gli rubava le mosse, le
avrebbe data anche, coi Simillimi, la prima commedia regolare in versi: tanto era
lesto! Se, con quella vena d'invenzione, di stile e di verso, avesse scritto un poema
cavalleresco, è da credere che non solo questo non avrebbe ottenuta la celebrità
popolare di cui godettero, per qualche tempo, l'Amadigi di Bernardo Tasso, e il Giron
Cortese di Luigi Alamanni, e qualche altro; ma che si sarebbe perso, sul nascere, tra
i meno osservati. Ma l'Italia Liberata faceva le viste di soddisfare un
desiderio, di compir quasi un dovere della nova poesia; e ottenne perciò il titolo di
poema epico: titolo che gli è rimasto, senza che ne venga obbligo di lettura, a un di
presso come vari principi hanno conservati de' titoli di reami o persi o pretesi, senza
che ne venga obbligo d'ubbidienza. Quel poema, giacché non si saprebbe che altro nome
dargli, non fece fare all'epopea storica, riprincipiata con lui dopo un così lungo
intervallo, né un passo avanti, né un passo indietro: e il solo fatto d'esser venuto il
primo gli ha mantenuta e gli mantiene una sterile celebrità. Non c'è quindi bisogno di
parlarne più in particolare.
Nel piccol numero de' celebri poemi epici
è rimasta ugualmente, ma per tutt'altro titolo, e con tutt'altro onore, la Lusiade
del Camoëns, venuta alla luce circa mezzo secolo dopo. Questo poema è, per dir così,
doppiamente storico, perché, oltre il luogo che ci occupa la storia che è la materia
prima del soggetto, il poeta ne ha dato altrettanto o più alla storia d'altri tempi.
L'azione principale è la spedizione di Vasco de Gama; ma il soggetto, dirò anche qui,
ulteriore del poema è il Portogallo; come Roma lo era dell'Eneide. Ma né la storia
portoghese, né alcun'altra di popoli moderni, è tale che un poeta possa, con de' cenni,
richiamarla tutta al pensiero, o trascorrerne le diverse parti, toccando sempre cose e
grandi e note, come fece Virgilio con la romana. E quindi, per essere, come lui, per
quanto era possibile, poeta continuamente e grandiosamente nazionale, non trovò il
Camoëns miglior mezzo, che di trasportare per disteso nel poema la storia del suo paese:
quella anteriore al momento dell'azione, in un racconto di Vasco de Gama a un re
affricano; la posteriore, in una predizione. Novo e singolare ripiego della prepotente
storia, per cacciarsi nell'epopea, anche dove non era chiamata dall'azione principale.
Però, che dico prepotente? che dico cacciarsi? Non fa altro che ritornar sul suo.
Ma alla fine, mi sento dire, alla fine
bisognerà pure che arriviate a un altr'uomo e a un altro poema. Quest'epopea, che non è
più l'epopea spontanea d'Omero, e neppure la favolosa di Virgilio; quest'epopea storica,
fondata secondo voi, da Lucano, riformata da Silio Italico, e resuscitata dal Trissino,
quest'epopea, l'assunto della quale, sempre secondo voi, repugna apertamente alla scienza
e allo spirito del tempo presente, ha prodotta la Gerusalemme Liberata, cioè un lavoro
che è, da quasi tre secoli, ammirato e gustato dai dotti e dalle persone colte non solo
d'Italia, ma del mondo, meno poche eccezioni, qualcheduna insigne bensì, come sarebbe il
Galileo ma sempre eccezione.
E così? Dicendo dianzi, che l'epopea
cavalleresca era morta, abbiamo noi negato che il Furioso le sopravviva? Il Tasso
medesimo, prescrivendo che "il soggetto del poema eroico si prenda da storia di
secolo non molto remoto" [nota 10], intese forse di levar dal numero
de' poemi vivi l'Eneide, il soggetto della quale è preso da tempi favolosi, cioè
molto remoti anche per Virgilio? No, davvero: non parlava di ciò che si fosse potuto fare
in passato, ma di ciò che si potesse far di novo. Così, dall'avere il pubblico europeo
mantenuta in grand'onore la Gerusalemme, non mi par che si possa concludere che
abbia voluto mantenere in attività l'epopea. Anzi mi par di vedere che, dopo la
Gerusalemme, abbia proibito severamente di far più poemi epici.
Mi si domanderà dove ho trovata questa
proibizione.
Rispondo che ci sono due maniere di
proibire: una diretta e una indiretta; per esempio que' dazi enormi che fanno passar la
voglia (a parte il contrabbando) di comprar le merci sulle quali sono imposti. E qualcosa
di simile mi pare che avvenga nel caso di cui parliamo. S'è fatto del poema epico
un'opera sovrumana, una cosa che, a tutto rigore, assolutamente, non è impossibile, ma
che non bisogna mai aspettarsi di veder realizzata di novo. Che molti e molti scrivessero
componimenti poetici di qualunque altra specie, nessuno se n'è mai maravigliato; che
anche uno tenti di fare un componimento d'una specie nova, e sia pure del genere
narrativo, non pare strano. Ma che uno si proponga di scrivere un poema epico, proprio un
poema epico, nella stretta significazione del termine, è una cosa che non si crede
subito. Pare quasi la promessa d'un miracolo, una mira spinta al di là del possibile. Gli
amici stessi del poeta se ne sgomentano, e quasi l'abbracciano con le lacrime agli occhi,
come se andasse alla scoperta di terre incognite a traverso di mari indiavolati, a
un'impresa più ardua e più pericolosa di quelle che si propone di descrivere, che so io?
a un combattimento con degli esseri soprannaturali.
E, certo, i lavori poetici segnalati sono
una cosa rara e difficile, come tutti i lavori segnalati, ma se non s'intende (e, certo,
non s'intende) che la difficoltà nasca dalla lunghezza materiale del componimento, non
vedo bene il perché questo deva essere così unico per la difficoltà, anche tra i
segnalati. " Non c'è quasi una novelletta, in cui gli avvenimenti non siano meglio
distribuiti, preparati con più artifizio, congegnati con un'industria mille volte
maggiore, che ne' poemi d'Omero", disse il Voltaire. E l'espressione può parere
esagerata; ma credo che la sentenza parrà vera in fondo, soprattutto se si applichi ai
romanzi de' quali è venuta una così gran piena dopo che furono scritte quelle parole, e
specialmente a que' pochi che sono rimasti celebri. Ora, quel congegno degli avvenimenti,
quel subordinarne molti al principale, legandoli insieme tra di loro, è appunto ciò che
nel poema epico si riguarda come la cosa più difficile e quasi miracolosa. Il rimanente
dipende da altre facoltà, le quali, a chi mancano, bona notte; chi le ha avute in dono
dal cielo, non si vede il perché non le possa adoprar così felicemente nel poema epico
come in altri componimenti. Inclinerei dunque a credere che quest'opinione d'una
difficoltà specialissima della cosa nasca da un sentimento che si ha in confuso del
difetto intrinseco della cosa medesima. Si chiama il poema epico un problema di soluzione
inescogitabilmente difficile, perché si sente che è la quadratura del circolo. Si dice:
come farà la natura a produrre un uomo capace di rappresentare epicamente un
grand'avvenimento? Quello che si pensa in nube è: come farà un uomo a rappresentar bene
un grand'avvenimento, travisandolo?
Il Voltaire citato dianzi farebbe
rammentare, se ce ne fosse bisogno, al lettore e a me una trasgressione fortunata di quel
divieto, l'Enriade; la quale e ottenne, al suo apparire, un applauso quasi
universale, e conserva ancora un'universale celebrità. Ma questo poema è appunto ciò
che si potrebbe desiderar di meglio per conoscere quanto la difficoltà fosse cresciuta a
quel tempo, e a quali espedienti abbia dovuto ricorrere il poeta, per darsi a intendere di
superarla. Apro dunque l'Enriade, e trovo, prima dell'Enriade, un'Idea
dell'Enriade, e una Storia compendiosa degli avvenimenti sui quali è fondata la
favola del poema; e dopo il poema, una lunga filza di note storiche, e per di più un Saggio
sulle guerre civili di Francia. Il Tasso biasima in qualche poeta del suo tempo
qualcosa di molto meno, e per un'ottima ragione. " Perfettissima d'ogni parte è
quella favola, " dic'egli, parlando dell'Iliade, " e nel seno della sua
testura porta intiera e perfetta cognizione di sé stessa, né conviene accattare
estrinseche cose, che la sua intelligenza ci facilitino. Il qual difetto si può per
avventura riprendere in alcun moderno, ov'è necessario ricorrere a quella prosa, che
dinanzi per sua dichiarazione porta scritta; perocché questa tal chiarezza, che si ha
dagli argomenti, e da altri sì fatti aiuti non è né artificiosa, né propria del poeta,
ma estrinseca e mendicata. "
Egregiamente; ma il punto sta nel non
aver bisogno di simili aiuti. Certo, non aveva bisogno Omero d'accattare né schiarimenti
né attestati dalla storia, poiché la faceva lui. La Memoria era il suo
mallevadore; e quella, bastava invocarla sul principio e, per un di più, ogni tanto. Non
n'aveva neppure bisogno Virgilio, quantunque il caso fosse molto diverso. Le cose che
raccontava non gli potevano, è vero, esser credute; non faceva lui la storia; ma non
c'era, di quelle cose, una storia ch'egli potesse citare, né che dovesse temere. E senza
dubbio, anche al tempo del Tasso, c'era molto ma molto meno bisogno di tali aiuti, di
quello che ce ne fosse al tempo del Voltaire. Il desiderio della verità positiva non
poteva essere severo e fastidioso co' Poeti, quando era di così facile contentatura con
gli storici, quando la poesia conservava ancora tanta parte di dominio nella storia
medesima. Infatti l'origini, in tanta parte poetiche, delle nazioni e degli stati erano
ancora raccontate con sicurezza, e accettate con docilità. E anche per i fatti meno
remoti, il trovarli verosimili bastava per lo più e agli scrittori e ai lettori di
storie, per non andar a cercare se fossero poi anche sufficientemente attestati. E,
malgrado alcune proteste già antiche, non parevano fuor di luogo le parlate messe dagli
storici in bocca ai loro personaggi: ché, in quel momento, li facevano proprio diventare
loro personaggi alla maniera de' poeti.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 12 gennaio 1999