Alessandro Manzoni
Del romanzo storico
DEL ROMANZO STORICO
E, IN GENERE,
DE I COMPONIMENTI
MISTI DI STORIA E D'INVENZIONE
PARTE PRIMA
Il romanzo storico va
soggetto a due critiche diverse, anzi direttamente opposte; e siccome esse riguardano, non
già qualcosa d'accessorio, ma l'essenza stessa d'un tal componimento; così l'esporle e
l'esaminarle ci pare una bona, se non la migliore maniera d'entrare, senza preamboli, nel
vivo dell'argomento.
Alcuni dunque si lamentano che, in questo
o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d'un romanzo storico, il vero
positivo non sia ben distinto dalle cose inventate, e che venga, per conseguenza, a
mancare uno degli effetti principalissimi d'un tal componimento, come è quello di dare
una rappresentazione vera della storia.
Per mettere in chiaro quanta ragione
possano avere, bisognerà dire qualcosa di più di quello che dicono; senza però dir
nulla che non sia implicito e sottinteso in quello che dicono. E noi crediamo di non far
altro che svolgere i motivi logici di quel loro lamento, facendoli parlar così al
paziente, voglio dire all'autore:
" L'intento del vostro lavoro era di
mettermi davanti agli occhi, in una forma nova e speciale, una storia più ricca, più
varia, più compita di quella che si trova nell'opere a cui si dà questo nome più
comunemente, e come per antonomasia. La storia che aspettiamo da voi non è un racconto
cronologico di soli fatti politici e militari e, per eccezione, di qualche avvenimento
straordinario d'altro genere; ma una rappresentazione più generale dello stato
dell'umanità in un tempo, in un luogo, naturalmente più circoscritto di quello in cui si
distendono ordinariamente i lavori di storia, nel senso più usuale del vocabolo. Corre
tra questi e il vostro la stessa differenza, in certo modo, che tra una carta geografica,
dove sono segnate le catene de' monti i fiumi, le città, i borghi, le strade maestre
d'una vasta regione, e una carta topografica, nella quale, e tutto questo è più
particolarizzato (dico quel tanto che ne può entrare in uno spazio molto più ristretto
di paese), e ci sono di più segnate anche le alture minori, e le disuguaglianze ancor
meno sensibili del terreno, e i borri, le gore, i villaggi, le case isolate, le viottole.
Costumi, opinioni, sia generali, sia particolari a questa o a quella classe d'uomini;
effetti privati degli avvenimenti pubblici che si chiamano più propriamente storici, e
delle leggi, o delle volontà de' potenti, in qualunque maniera siano manifestate; insomma
tutto ciò che ha avuto di più caratteristico, in tutte le condizioni della vita, e nelle
relazioni dell'une con l'altre, una data società, in un dato tempo, ecco ciò che vi
siete proposto di far conoscere, per quanto siete arrivato, con diligenti ricerche, a
conoscerlo voi medesimo. E il diletto che vi siete proposto di produrre, è quello che
nasce naturalmente dall'acquistare una tal cognizione, e dall'acquistarla per mezzo d'una
rappresentazione, dirò così, animata, e in atto.
" Posto ciò, quando mai il
confondere è stato un mezzo di far conoscere? Conoscere è credere; e per poter credere,
quando ciò che mi viene rappresentato so che non è tutto ugualmente vero, bisogna
appunto ch'io possa distinguere. E che? volete farmi conoscere delle realtà, e non mi
date il mezzo di riconoscerle per realtà? Perché mai avete voluto che queste realtà
avessero una parte estesa e principale nel vostro componimento? perché quel titolo di
storico, attaccatoci per distintivo, e insieme per allettamento? Perché sapevate
benissimo che, nel conoscere ciò che è stato davvero, e come è stato davvero, c'è un
interesse tanto vivo e potente, come speciale. E dopo aver diretta e eccitata la mia
curiosità verso un tale oggetto, credereste di poterla soddisfare col presentarmene uno
che potrà esser quello, ma potrà anche essere un parto della vostra inventiva?
" E notate che, col farvi questa
critica, intendo di farvi anche un complimento: intendo di parlar con uno scrittore che sa
e sceglier bene i suoi argomenti, e maneggiarli bene. Se si trattasse d'un romanzo noioso,
pieno di fatti ordinari, possibili in qualunque tempo, e perciò non notabili in veruno,
avrei chiuso il libro senza curarmi d'altro. Ma appunto perché il fatto, il personaggio,
la circostanza, il modo, le conseguenze che mi rappresentate, attirano e trattengono
fortemente la mia attenzione, nasce in me tanto più vivo, più inquieto e, aggiungo, più
ragionevole il desiderio di sapere se devo vederci una manifestazione reale dell'umanità,
della natura, della Provvidenza, o solamente un possibile felicemente trovato da voi.
Quando uno che abbia la riputazione di piantar carote, vi racconti una novità
interessante, dite di saperla? rimanete appagato? Ora voi (quando scrivete un romanzo,
s'intende) siete simile a lui, cioè uno che racconta ugualmente il vero e il falso; e se
non mi fate distinguere l'uno dall'altro, mi lasciate come mi lascia lui.
" Istruzione e diletto erano i
vostri due intenti; ma sono appunto così legati, che, quando non arrivate l'uno, vi
sfugge anche l'altro; e il vostro lettore non si sente dilettato, appunto perché non si
trova istruito."
Potrebbero sicuramente dir la cosa
meglio; ma, anche dicendola così, bisogna confessare che hanno ragione.
Ci sono però, come
abbiamo detto da principio, degli altri, che vorrebbero tutt'il contrario. Si lamentano in
vece che, in questo o in quel romanzo storico, in questa o in quella parte d'un romanzo
storico, l'autore distingua espressamente il vero positivo dall'invenzione: la qual cosa,
dicono, distrugge quell'unità che è la condizione Vitale di questo, come d'ogni altro
lavoro dell'arte. Cerchiamo di vedere un po' più in particolare su cosa si fondi anche
quest'altro lamento.
"Qual è, mi par che vogliano dire,
la forma essenziale del romanzo storico? li racconto; e cosa si può immaginare di più
contrario all'unità, alla continuità dell'impressione d'un racconto, al nesso, alla
cooperazione, al coniurat amice di ciascheduna parte nel produrre un effetto
totale, che l'essere alcune di queste parti presentate come vere, e altre come un prodotto
dell'invenzione? Queste, se avete saputo inventare a modo, saranno affatto simili a
quelle, meno appunto l'esser vere, meno la qualità speciale, incomunicabile, di cose
reali. Ora, col manifestare una tal qualità in quelle che l'hanno, voi levate al vostro
racconto la sua unica ragion d'essere, sostituendo a ciò che i diversi suoi materiali
hanno d'omogeneo, di comune, ciò che hanno di repugnante, d'inconciliabile. Dicendomi
espressamente, o facendomi intendere in qualunque maniera, che la tal cosa è di fatto, mi
forzate a riflettere (e cos'importa che non sia questa la vostra intenzione?) che
l'antecedenti non lo erano, che le susseguenti non lo saranno; che a quella conviene
l'assentimento che si dà al vero positivo, e che a queste non può convenire se non
quell'altro assentimento, di tutt'altro genere, che si dà al verosimile, e quindi, che la
forma narrativa, applicata ugualmente all'una e all'altre, è per quella la forma propria
e naturale, per l'altre una forma convenzionale e fattizia: che vuoi dire una forma
contradittoria per l'insieme.
" E vedete se la contradizione
potrebbe esser più strana. Quest'unità, quest'omogeneità dell'insieme, la riguardate
anche voi come una cosa importantissima, giacché, dall'altra parte, fate di tutto per
ottenerla. Quella lode che 0razio dà all'autore dell'Odissea:
E mentisce così, col falso il vero |
fate anche voi di tutto per meritarla, scegliendo e dal reale e dal
possibile le cose che possano accordarsi meglio tra di loro. E con qual fine, se non
perché la mente del lettore, soggiogata, portata via dall'arte, possa, diremo così,
accettarle per una cosa sola come le sono presentate? E venite poi a disfare voi medesimo
il vostro lavoro, separando materialmente ciò che avete formalmente riunito!
Quell'illusione che è lo sforzo e il premio dell'arte, quell'illusione così difficile a
prodursi e a mantenersi, la distruggete voi medesimo, nell'atto del produrla! Non vedete
che c'è ripugnanza tra il concetto e l'esecuzione? che con de' pezzetti di rame e de'
pezzetti di stagno, congegnati insieme, non si fa una statua di bronzo?"
E a questi cosa risponderemo? In verità,
non trovo che si possa dir altro, se non che hanno ragione.
Un mio amico, di cara e onorata memoria,
raccontava una scena curiosa, alla quale era stato presente in casa d'un giudice di pace
in Milano, val a dire molt'anni fa. L'aveva trovato tra due litiganti, uno de' quali
perorava caldamente la sua causa, e quando costui ebbe finito, il giudice gli disse: avete
ragione. Ma, signor giudice, disse subito l'altro, lei mi deve sentire anche me, prima di
decidere. È troppo giusto, rispose il giudice: dite pur su, che v'ascolto attentamente.
Allora quello si mise con tanto più impegno a far valere la sua causa; e ci riuscì così
bene, che il giudice gli disse: avete ragione anche voi. C'era lì accanto un suo bambino
di sette o ott'anni, il quale, giocando pian piano con non so qual balocco, non aveva
lasciato di stare anche attento al contradittorio, e a quel punto, alzando un visino
stupefatto, non senza un certo che d'autorevole, esclamò: ma babbo! non può essere che
abbiano ragione tutt'e due. Hai ragione anche tu, gli disse il giudice. Come poi sia
finita, o l'amico non lo raccontava, o m'è uscito di mente; ma è da credere che il
giudice avrà conciliate tutte quelle sue risposte, facendo vedere tanto a Tizio, quanto a
Sempronio, che, se aveva ragione per una parte, aveva torto per un'altra. Così faremo
anche noi. E lo faremo in parte con gli argomenti stessi de' due avversari, ma per cavarne
una conseguenza diversa e da quella degli uni, e da quella degli altri.
Quando voi, diremo ai primi, pretendete
che l'autore d'un romanzo storico vi faccia distinguere in esso ciò che è stato
realmente, da ciò che è di sua invenzione, non avete certamente pensato se ci sia la
maniera di servirvi. Gli prescrivete l'impossibile, niente meno. E per esserne convinti,
basta che badiate un momento come queste cose devono esserci mescolate, affinché possano
far parte d'un racconto medesimo. Per circostanziare, verbigrazia, gli avvenimenti
storici, coi quali l'autore abbia legata la sua azione ideale (e voi approvate dicerto,
che in un romanzo storico entrino avvenimenti storici), dovrà mettere insieme e
circostanze reali, cavate dalla storia o da documenti di qualunque genere, perché qual
cosa potrebbe servir meglio a rappresentare quegli avvenimenti nella loro forma vera, e
dirò così, individuale? e circostanze verosimili, inventate da lui, perché volete che
vi dia, non una mera e nuda storia, ma qualcosa di più ricco, di più compito; volete che
rifaccia in certo modo le polpe a quel carcame, che è, in così gran parte, la storia.
Per le stesse ragioni, ai personaggi storici (e voi siete ben contento di trovare in un
romanzo storico de' personaggi storici) farà dire e fare, e cose che hanno dette e fatte
realmente, quand'erano in carne e ossa, e cose immaginate da lui, come convenienti al loro
carattere, e insieme a quelle parti dell'azione ideale, nelle quali gli è tornato bene di
farli intervenire. E reciprocamente, ne' fatti inventati da lui, metterà naturalmente
circostanze ugualmente inventate, e anche circostanze cavate da fatti reali di quel tempo
e di quel luogo; perché qual mezzo più naturale per farne azioni che abbiano potuto
essere in quel tempo, in quel luogo? Così a' suoi personaggi ideali darà parole e azioni
ugualmente ideali, e insieme parole e azioni che trovi essere state dette e fatte da
uomini di quel luogo e di quel tempo: ben contento di poter rendere più verosimili le sue
idealità coi propri elementi del vero. E basta questo per farvi vedere che non potrebbe
fare tra queste cose la distinzione che voi gli chiedete, o piuttosto non potrebbe tentar
di farla, se non spezzando il racconto, non dico ogni tanto, ma ogni momento, più volte
in una pagina, non di rado in un solo periodo, per dire: questo è positivo, cavato da
memorie degne di fede, questo è di mia invenzione, ma dedotto da fatti positivi, queste
parole furono dette realmente dal personaggio a cui le attribuisco, ma furono dette in
tutt'altra occasione, in circostanze che non entrano nel mio romanzo, quest'altre che
metto in bocca a un personaggio immaginario, furono dette realmente da un uomo reale,
ovvero, erano discorsi che correvano per le bocche di molti; e via discorrendo. Dareste
voi a un componimento così fatto il nome di romanzo? O trovereste che meritasse un nome
qualunque? O piuttosto si può egli concepire un componimento così fatto?
Forse mi direte che non v'è mai passato
per la mente di chieder tanto. E lo credo; ma qui si tratta di vedere, non solo cosa
esprimano direttamente le vostre parole, ma anche cosa importino logicamente. Siano molti
o pochi i casi in cui vorreste che l'autore vi facesse distinguere ciò che c'è di reale
nel suo racconto; foss'anche un caso solo; perché lo vorreste? per un vostro capriccio?
No, di certo, ma per una bonissima ragione, e l'avete detta voi: perché la realtà,
quando non è rappresentata in maniera che si faccia riconoscere per tale, né istruisce,
né appaga. Ed è forse una ragione particolare a que' casi, o a quel caso? Tutt'altro:
è, di sua natura, una ragione generale, comune a tutti i casi simili. Se dunque vengono
altri a lamentarsi di provare lo stesso dispiacevole effetto in altre parti del
componimento, non vi par egli che le loro lagnanze meritino soddisfazione al pari delle
vostre? Dovete dir di sì, poiché sono fondate su quella ragione medesima: l'esigenza
della realtà. Vedete dunque che, imponendo al romanzo storico di farla distinguere o qua
o là, gi'imponete in sostanza di farla distinguer per tutto: cosa impossibile, come ho
dimostrato, o piuttosto vho fatto osservare.
Ecco ora cosa si può dire agli altri:
Il distinguere in un romanzo storico la
realtà dall'invenzione, distrugge, secondo voi, l'omogeneità dell'impressione, l'unità
del l'assentimento. Ma, di grazia, come si può distruggere ciò che non è? Non vedete
che questa distinzione si trova negli elementi necessari e, dirò così, nella materia
prima d'un tal componimento? Quando, per esempio, l'Omero del romanzo storico fa entrare
nel Wawerley il principe Odoardo, e il suo sbarco in Scozia, in un altro componimento,
Maria Stuarda, e la sua fuga dal castello di Lockleven; in un altro, Luigi XI re di
Francia, e il suo soggiorno a Plessiz-lez-Tours; in un altro, Riccardo Cor di leone, e la
sua spedizione in Terra Santa, e via discorrendo; non fa nulla dal canto suo per
avvertirvi che si tratta di persone reali e di fatti reali. Sono loro che si presentano
con questo carattere; sono loro che richiedono assolutamente, e ottengono inevitabilmente
quell'assentimento sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose
apprese come cose di fatto: assentimento che chiamerò storico, per opporlo all'altro,
ugualmente sui generis, esclusivo, incomunicabile, che si dà alle cose apprese
come meramente verosimili, e che chiamerò assentimento poetico. Anzi, il male era già
fatto prima che que' personaggi comparissero in scena. Prendendo in mano un romanzo
storico, il lettore sa benissimo che ci troverà facta atque infecta e cose
avvenute e cose inventate, cioè due oggetti diversi dei due diversi, anzi opposti
assentimenti. E voi accusate l'autore di far nascere una tale discordia, e gli prescrivete
di mantenere nel corso dell'opera un'unità ch'era già stata portata via dal titolo!
Forse mi direte, anche voi, ch'io esagero
le vostre pretensioni, che l'esserci in una cosa degi'inconvenienti inevitabili non è una
ragione di aggiungercene degli altri; che, se quell'omogeneità d'assentimento desiderata
dall'arte non si può ottenere così interamente, è però un danno gratuito il
diminuirla, che, con quell'avvertire espressamente, o col far intendere che la tale o tal
altra cosa è positivamente vera, l'autore fa nascere degli assentimenti storici, opposti
all'intento dell'arte, dove forse non nascerebbero.
Può darsi; ma cosa potrebbe nascere in
vece? Due cose sole, cioè o l'una o l'altra di due cose, opposte né più né meno
all'intento dell'arte: l'inganno, o il dubbio.
Può darsi, dico, che il lettore, se non
fosse stato avvertito che la cosa raccontata era realmente avvenuta, l'avrebbe presa, e se
la sarebbe goduta per una bella invenzione poetica. Ma è forse a questo, che l'arte
aspira? Bello sforzo, in verità, bella operazione dell'arte quella che consistesse, non
nell'ideare cose verosimili, ma nel lasciar ignorare che le cose presentate da essa sono
reali! E bell'effetto dell'arte, quello che dovesse dipendere da un'ignoranza accidentale!
giacché, se nell'atto che quel lettore si sta godendo la supposta invenzione poetica,
viene uno e gli dice: sappiate che è un fatto positivo, cavato dal tal documento, ecco il
pover'uomo trasportato di peso dagli spazi della poesia nel campo della storia. L'arte è
arte in quanto produce, non un effetto qualunque, ma un effetto definitivo. E, intesa in
questo senso, è non solo sensata, ma profonda quella sentenza, che il vero solo è bello;
giacché il verosimile (materia dell'arte) manifestato e appreso come verosimile, è un
vero, diverso bensì, anzi diversissimo dal reale, ma un vero veduto dalla mente per
sempre o, per parlar con più precisione, irrevocabilmente: è un oggetto che può bensì
esserle trafugato dalla dimenticanza, ma che non può esser distrutto dal disinganno.
Nulla può fare che una bella figura umana, ideata da uno scultore, cessi d'essere un bel
verosimile: e quando la statua materiale, in cui era attuata, venga a perire, perirà
bensì con essa la cognizione accidentale di quel verosimile, non, certamente, la sua
incorruttibile entità. Ma se uno, vedendo, da lontano e al barlume, un uomo ritto e fermo
su un edifizio, in mezzo a delle statue, lo prendesse per una statua anche lui, vi pare
che sarebbe un effetto d'arte?
L'altra cosa che potrebbe nascere è che
il lettore, non avvertito dall'autore, che una o un'altra cosa, la quale eccita
particolarmente la sua attenzione, è cosa di fatto, ma avvertito dalla natura o, per dir
meglio, dall'assunto del componimento, che può benissimo esser cosa di fatto, rimanga in
dubbio, esiti; e certo senza sua colpa, come contro sua voglia. Assentire, assentir
rapidamente, facilmente, pienamente, è il desiderio d'ogni lettore, meno chi legga per
criticare. E si assente con piacere, tanto al puro verosimile, quanto al vero positivo:
ma, l'avete detto voi, con assentimenti diversi, anzi opposti: e, aggiungo io, con una
condizione uguale in tutt'e due i casi; cioè che la mente riconosca nell'oggetto che
contempla, o l'una o l'altra essenza, per poter prestare o l'uno o l'altro assentimento.
Dissimulando la realtà della cosa raccontata, l'autore sarebbe riuscito, secondo il
vostro desiderio, a impedire un assentimento storico, ma levando insieme al lettore il
mezzo di prestarne uno qualunque. Effetto contrario anch'esso, quanto si possa dire,
all'intento dell'arte; poiché, qual cosa più contraria all'unità, all'omogeneità
dell'assentimento, che la mancanza dell'assentimento?
Ed è appunto per prevenire e l'inganno
di cui ho parlato sopra, e questa esitazione, è per non fare al lettore una miserabile
marachella, o per servire a un suo probabile desiderio, per non lasciar senza risposta una
sua tacita interrogazione, che un autore può essere, in questo o in quel caso, tentato
fortemente, e come strascinato a distinguere espressamente la realtà: è perché sente
quanto manchi alla cosa rappresentata, mancandole la manifestazione d'una qualità di
questa sorte. Non dico che faccia bene; non nego che faccia una cosa direttamente,
manifestamente contraria all'unità del componimento: dico che il lasciar lui di farla non
servirebbe ad ottenere questa unità. Fa come il povero maestro Iacopo del Molière, che
si presenta, ora con la giacchetta di cuoco, ora col camiciotto di cocchiere, perché
l'Avaro, suo padrone, vuol che faccia tutt'e due i mestieri, e lui ha accettata una tal
condizione.
Ricapitolando ora tutti questi pro e
contro, ci pare di poter concludere: che hanno ragione e gli uni nel volere che la realtà
storica sia sempre rappresentata come tale, e gli altri, nel volere che un racconto
produca assentimenti omogenei, ma che hanno torto e gli uni e gli altri nel volere e
questo e quell'effetto dal romanzo storico, mentre il primo è incompatibile con la sua
forma, che è la narrativa, il secondo co' suoi materiali, che sono eterogenei. Chiedono
cose giuste, cose indispensabili; ma le chiedono a chi non le può dare.
Ma se fosse così, ci si dirà ora,
sarebbe in ultimo il romanzo storico che avrebbe torto per ogni verso.
Questa è appunto la nostra tesi.
Volevamo dimostrare, e crediamo d'aver dimostrato, che è un componimento, nel quale
riesce impossibile ciò che è necessario; nel quale non si possono conciliare due
condizioni essenziali, e non si può nemmeno adempirne una, essendo inevitabile in esso e
una confusione repugnante alla materia, e una distinzione repugnante alla forma un
componimento, nel quale deve entrare e la storia e la favola, senza che si possa nè
stabilire, nè indicare in qual proporzione, in quali relazioni ci devano entrare; un
componimento insomma, che non c'è il verso giusto di farlo, perché il suo assunto è
intrinsecamente contradittorio. Gli chiedon troppo; ma troppo in ragion di che? Della sua
possibilità? Verissimo; ma ciò appunto dimostra il vizio radicale del suo assunto,
perché, in ragione delle cose, chiedere al vero di fatto, che sia riconoscibile, e
chiedere a un racconto, che produca assentimenti omogenei, è chiedere quello che ci vuole
per l'appunto. Sono due cose incompatibili, ma dove? Nel romanzo storico? Verissimo
ancora: ma peggio per il romanzo storico, perché, in sé, sono due cose fatte apposta per
andare insieme. E se ci fosse bisogno d'addurre le prove d'una tal verità, le troveremmo
subito in uno de' due generi di lavoro, che il romanzo storico contraffà e confonde,
voglio dire la storia. Questa infatti si propone appunto di raccontare de' fatti reali, e
di produrre per questo mezzo un assentimento omogeneo, quello che si dà al vero positivo.
Ma, potrà qui forse opporre qualcheduno,
s'ottiene egli codesto dalla storia? Produce essa una serie d'assentimenti risoluti e
ragionevoli? O non lascia spesso ingannati quelli che sono facili a credere, e dubbiosi
quelli che sono inclinati a riflettere? E indipendentemente dalla volontà d'ingannare,
quali sono le storie composte da uomini, dove si possa esser certi di non trovare altro
che la verità netta e distinta?
Certo, risponderemo, non mancano nella
storia fandonie, anzi bugie. Ma è colpa dello storico, e non condizione del componimento.
Quando d'uno storico si dice che fa la frangia alle cose, che vi fa un pasticcio di fatti
e d'invenzioni, che non si sa cosa credergli, s'intende fargli carico d'una cosa che aveva
il mezzo di schivare. E infatti il mezzo c'era, sicuro quanto facile; giacché, qual cosa
più facile che l'astenersi dall'inventare? Vedete se vi pare che l'autore del romanzo
storico possa far uso di questo mezzo, per schivar, quanto è in lui, d'ingannare il
lettore.
È certo ugualmente, che anche dallo
storico più coscienzioso, più diligente, non s'avrà, a gran pezzo, tutta la verità che
si può desiderare, né così netta come si può desiderare. Ma anche qui non è colpa
dell'arte: è difetto della materia. Perché un'arte sia buona e ragionevole, non si
richiede che sia propria ad ottenere interamente e perfettamente il suo fine: non ce ne
sono di tali. Arte buona e ragionevole è quella che, proponendosi un fine sensato, adopra
i mezzi più adattati a ottenerlo fin dove si può, i mezzi che sarebbero adattati a
ottenerlo interamente, ne' limiti delle facoltà umane, quando ci fosse la materia
corrispondente. De' fatti reali, dello stato dell'umanità in certi tempi, in certi
luoghi, è possibile acquistare e trasmettere una cognizione, non perfetta, ma effettiva:
ed è ciò che si propone la storia: intendo sempre la storia in buone mani. Non arriva
fin dove vorrebbe; ma non ne sta volontariamente indietro un passo. Non supera, a gran
pezzo, tutte le difficoltà; ma si guarda bene di crearne veruna. Vi lascia anch'essa
qualche volta nel dubbio; ma quando ci si trova essa medesima. Anzi (perché a chi è
nella strada giusta, tutto viene a proposito), anche del dubbio la storia si serve. Non
solo lo confessa apertamente, ma, all'occorrenza, lo promove, lo sostiene, cerca di
sostituirlo a delle false persuasioni. Vi fa dubitare, perché ha voluto che dubitaste;
non come il romanzo storico, per avervi eccitato ad assentire, sottraendovi insieme ciò
ch'era necessario a determinar l'assentimento. Nel dubbio provocato dalla storia, lo
spirito riposa, non come al termine del suo desiderio, ma come al limite della sua
possibilità: ci s'appaga, dirò così, come in un atto relativamente finale, nel solo
atto bono che gli sia dato di fare. Nel dubbio eccitato dal romanzo storico, lo spirito in
vece s'inquieta, perché nella materia che gli è presentata vede la possibilità d'un
atto ulteriore, del quale gli è nello stesso tempo creato il desiderio, e trafugato il
mezzo. Credo che non ci sarà alcun autore di romanzi storici, o anche d'un solo romanzo
storico, a cui non sia capitato qualche volta di sentirsi domandare se il tal personaggio,
il tal fatto, la tale circostanza fosse cosa vera, o di sua invenzione. E credo
ugualmente, che avrà detto tra sé: Ah traditore! sotto la forma d'una domanda innocente,
tu mi fai una critica velenosa: mi protesti in fondo, che il libro t'ha lasciato, anzi
t'ha dato il bisogno di tirar l'autore per il mantello. So bene che è merito d'un libro
il dar la volontà di sapere più di quello che insegna; ma costì è un'altra faccenda.
Le cose che tu desideri di sapere sono cose di cui t'ho parlato; mi chiedi, non
d'aggiungere, ma di disfare.
Non sarà fuor di proposito l'osservare
che, anche del verosimile la storia si può qualche volta servire, e senza inconveniente,
perché lo fa nella buona maniera, cioè esponendolo nella sua forma propria, e
distinguendolo così dal reale. E lo può fare senza che ne sia offesa l'unità del
racconto, per la ragione semplicissima che quel verosimile non entra a farne parte. È
proposto, motivato, discusso, non raccontato al pari del positivo, e insieme col positivo,
come nel romanzo storico. E non c'è nemmeno pericolo che ne rimanga offesa l'unità del
componimento, poiché qual legame più naturale, qual più naturale continuità, per così
dire, di quella che si trova tra la cognizione e l'induzione? Quando la mente riceve la
notizia d'un positivo che ecciti vivamente la sua attenzione, ma una notizia tronca e
mancante di parti o essenziali, o importanti, è inclinata naturalmente a rivolgersi a
cose ideali che abbiano con quel positivo, e una relazione generale di compossibilità, e
una relazione speciale o di causa, o d'effetto, o di mezzo, o di modo, o d'importante
concomitanza, che ci hanno dovuta avere le cose reali di cui non è rimasta la traccia. È
una parte della miseria dell'uomo il non poter conoscere se non qualcosa di ciò che è
stato, anche nel suo piccolo mondo; ed è una parte della sua nobiltà e della sua forza
il poter congetturare al di là di quello che può sapere. La storia, quando ricorre al
verosimile, non fa altro che secondare o eccitare una tale tendenza. Smette allora, per un
momento, di raccontare, perché il racconto non è, in quel caso, l'istrumento bono, e
adopra in vece quello dell'induzione: e in questa maniera, facendo ciò che è richiesto
dalla diversa ragione delle cose, viene anche a fare ciò che conviene al suo novo
intento. Infatti, per poter riconoscere quella relazione tra il positivo raccontato e il
verosimile proposto, è appunto una condizione necessaria, che questi compariscano
distinti. Fa, a un di presso, come chi, disegnando la pianta d'una città, ci aggiunge, in
diverso colore, strade, piazze, edifizi progettati; e col presentar distinte dalle parti
che sono, quelle che potrebbero essere, fa che si veda la ragione di pensarle riunite. La
storia, dico, abbandona allora il racconto, ma per accostarsi, nella sola maniera
possibile, a ciò che è lo scopo del racconto. Congetturando, come raccontando, mira
sempre al reale: lì è la sua unità. Dove se ne va, o piuttosto, come si forma quella
del romanzo storico, che erra tra due mire opposte?
Ci si permetta di prevenir qui un'altra
obiezione, ancor meno fondata, ma pure da temersi, perché, in tutte le occasioni simili a
questa, non manca mai. Si tratta del romanzo storico, ci si potrà dire, e voi lo
paragonate alla storia, dimenticando che sono due specie di lavori, che hanno due intenti,
in parte simili bensì, ma in parte affatto diversi.
Ci vuol poco a vedere che una tale
obiezione non si fonda che su una petizione di principio. Certo, se il romanzo storico
avesse un suo intento, più o meno diverso da quello della storia, ma ugualmente logico,
sarebbe una stravaganza l'opporgli l'intento e le leggi della storia. Ma la questione è
appunto se il romanzo storico abbia un suo intento logico, e quindi ottenibile; e se
possa, per conseguenza, avere delle sue leggi particolari, ordinate a quell'intento.
L'intento d'un'arte è condizionato alla materia, o a ciascheduna delle materie che
adopra, e aver veduto quali siano le condizioni ingenite e necessarie d'una materia, in
un'arte qualunque, è averlo veduto per tutte l'arti esistenti e possibili, che vogliano
servirsi della materia medesima. Poiché il romanzo storico prende come parte della sua
materia quella che è la propria e natural materia della storia, bisogna bene che, per
questa parte, sia messo a paragone con essa. Non è per cagione del titolo, né della
forma, né dell'assunto dell'opera, che della verità storica non si può far altro di
bono, se non rappresentarla più distintamente che si può; è per la natura della verità
storica. Anche l'alchimia aveva un suo intento, diverso in parte da quello della chimica:
non le mancava altro, che d'ottenerlo, anch'essa supponeva che ci dovessero essere i mezzi
adattati a quell'intento: non le mancava altro, che di trovarli. E nulla è stato più a
proposito che l'opporle gli esperimenti e i raziocini della chimica, in quanto lavoravano
tutt'e due sui metalli. E si veda come sarebbe parso strano se quella avesse risposto:
Codesto anderà bene per la chimica, ma io mi chiamo l'alchimia.
Non ha il romanzo storico un intento suo
proprio e insieme logico: ne contraffà due, come ho accennato. Certo, in questa
proposizione - rappresentare, per mezzo d'un'azione inventata, lo stato dell'umanità, in
un'epoca passata e storica, - c'è un'unità verbale e apparente. Ma la cosa che sarebbe
necessaria per costituirne l'unità razionale, voglio dire la corrispondenza d'un tal
mezzo con un tal fine, c'è gratuitamente e falsamente supposta. Il mezzo, e l'unico mezzo
che uno abbia di rappresentare uno stato dell'umanità, come tutto ciò che ci può essere
di rappresentabile con la parola, è di trasmetterne il concetto quale è arrivato a
formarselo, coi diversi gradi o di certezza o di probabilità che ha potuto scoprire nelle
diverse cose, con le limitazioni, con le deficienze che ha trovato in esse, o piuttosto
nella attualmente possibile cognizione di esse; è in somma, di ripetere agli altri
l'ultime e vittoriose parole che, nel momento più felice dell'osservazione, s'è trovato
contento di poter dire a sé medesimo. Ed è il mezzo di cui si serve la storia: ché, per
storia, intendo qui, non la sola narrazione cronologica d'alcune specie di fatti umani, ma
qualsiasi esposizione ordinata e sistematica di fatti umani. È questa, dico, la storia
che intendo d'opporre ai romanzo storico; e che s'avrebbe ragione d'opporgli, quand'anche
essa non fosse altro che possibile. Ma, del resto, chi non sa che ci sono molti lavori di
questo genere, e alcuni lodati con gran ragione? lavori, lo scopo de' quali è appunto di
far conoscere, non tanto il corso politico d'una parte dell'umanità, in un dato tempo,
quanto il suo modo d'essere, sotto aspetti diversi e, più o meno, moltiplici. Trovate
forse, che, in questo ramo principalmente, la storia sia rimasta indietro da ciò che un
tale intento poteva richiedere, da ciò che i materiali cercati e osservati con un
proposito più vasto e più filosofico, potessero dare? che abbia trascurato d'occuparsi
di certi fatti, o d'ordini interi di fatti, de' quali non sentiva l'importanza? che non
abbia voluto osservare certe relazioni, certe dipendenze reciproche di certi fatti, che
pure aveva raccolti, e che ha riferiti, ma come estranei gli uni agli altri, perché, a
prima vista, possono parer tali? Gridatela; ma raccomandatevi a lei, perché è la sola
che possa riparare le sue omissioni. E c'è qualcheduno che, vedendo in particolare questa
possibilità di far meglio, intorno a uno o a un altro momento del passato storico, si
metta a una nova ricerca? Bravo! macte animo! frughi ne' documenti di qualunque
genere, che ne rimangano, e che possa trovare; faccia, voglio dire, diventar documenti
anche certi scritti, gli autori de' quali erano lontani le mille miglia dall'immaginarsi
che mettevano in carta de' documenti per i posteri, scelga, scarti, accozzi, confronti,
deduca e induca; e gli si può star mallevadore, che arriverà a formarsi, di quel momento
storico, concetti molto più speciali, più decisi, più interi, più sinceri di quelli
che se ne avesse fino allora. Ma che altro vuoi dir tutto questo, se non concetti più
obbligati?
Che se, in vece di trattar col lettore
come tratta con sé, di presentare agli altri intelletti, intatta e schietta, l'immagine
che, in ricompensa delle sue ricerche e delle sue meditazioni, è apparsa al suo; la
ripone, per spezzarla di nascosto, e fare, co' rottami di essa e con una materia di
tutt'altra natura, qualcosa di più e di meglio; se, per renderla più animata, vuoi farla
vivere di due vite diverse; se prende per mezzo ciò che era il fine; allora la ragione
delle cose, la quale non sa nulla di questi progetti, ed è avvezza bensì a mantenere, e
con gran puntualità, i suoi impegni, ma non quelli degli altri, non solo non permette che
da un tale impasto resulti una rappresentazione più compita d'uno stato reale
dell'umanità, ma nemmeno quella meno particolarizzata, che poteva resultare dal ritratto
sincero delle cose reali. Ché il positivo non è, riguardo alla mente, se non in quanto
è conosciuto; e non si conosce, se non in quanto si può distinguerlo da ciò che non è
lui, e quindi l'ingrandirlo con del verosimile, non è altro, in quanto all'effetto di
rappresentarlo, che un ridurlo a meno, facendolo in parte sparire. Ho sentito parlare
(cosa vecchia e vera anche questa) d'un uomo più economo che acuto, il quale s'era
immaginato di poter raddoppiar l'olio da bruciare, aggiungendoci altrettanta acqua. Sapeva
bene che, a versarcela semplicemente sopra, l'andava a fondo, e l'olio tornava a galla; ma
pensò che, se potesse immedesimarli mescolandoli e dibattendoli bene, ne resulterebbe un
liquido solo, e si sarebbe ottenuto l'intento. Dibatti, dibatti, riuscì a farne un non so
che di brizzolato, di picchiettato, che scorreva insieme, e empiva la lucerna. Ma era più
roba, non era olio di più; anzi, riguardo all'effetto di far lume, era molto meno. E
l'amico se n'avvide, quando volle accendere lo stoppino.
Ho serbata per l'ultima l'obiezione più
tremenda e più inevitabile: il fatto. Tutte codeste, mi sento dire, saranno belle teorie;
ma il fatto le manda a monte. Mi sapreste indicare, tra l'opere moderne e antiche, molte
opere più lette, e con più piacere e ammirazione, de' romanzi storici d'un certo Walter
Scott? Voi volete dimostrare, con questo e con quell'argomento, che non devano poter
produrre un tal effetto. Ma se lo producono.
Obiezione, però, tremenda solamente in
apparenza; giacché tutta la sua forza è riposta in un equivoco, cioè nel chiamar fatto
una cosa che si sta facendo. Che quei romanzi siano piaciuti, e non senza di gran perché,
è un fatto innegabile, ma è un fatto di que' romanzi, non il fatto del romanzo storico:
che poi questa specie di componimento continui a piacere, quindi a esser coltivata, è la
questione, e non il fatto. In questa, come in tante altre cose, il fatto d'un tempo non è
certamente una malleveria del fatto avvenire; e gli esempi di giudizi d'un'età cassati da
un'altra sono troppi e troppo spesso rammentati perché ci sia bisogno d'allegarne. Che
se, rammentandoli così spesso, e con tanto compatimento, non badiamo poi abbastanza al
pericolo di darne de' novi, è perché, ne' giudizi attuali, ci par di vedere qualcosa di
più maturo, di più autorevole, di definitivo. E non c'è da maravigliarsene: sono i
nostri. Per compatire quelli del tempo passato, siamo la posterità, che non è poco; per
fidarci de' nostri, siamo il secolo, che non è meno.
Tra quegli esempi notissimi, ci si
permetta però di citarne uno che ha un'analogia importante col nostro argomento. Qual
voga maggiore di quella ch'ebbero i romanzi storico-eroico-erotici (non saprei come
chiamarli con un nome solo) di M.elle Scudéri, e d'alcuni suoi antecessori e successori
meno famosi? e non già in un paese o in un secolo rozzo, poiché era la Francia di Luigi
XIV. Basti la testimonianza di Boileau, il quale, nel discorso premesso al dialogo dove
canzona que' romanzi, confessa che, "essendo giovine quando facevano più furore, gli
aveva letti con grand'ammirazione, come li leggeva ognuno, e gli aveva riguardati come
capolavori della lingua francese " [nota
01].
Sarebbe certamente una stravaganza,
ancora più che un'ingiustizia, il mettere que' lavori del pari co' lavori di Walter
Scott. Ma, con tutta la distanza che passa, non solo tra questo e quegli autori, ma anche
tra le due specie di componimenti, c'è tra queste, come ho accennato, un'analogia, anzi
un'identità importante: l'essere ugualmente romanzi ne quali ha parte la storia. E
non si dica che, in que' primi, la storia non c'era messa che per pretesto, e quasi per
burla; che nessuno badava alla storia nel leggere quelle strane vicende d'amori furibondi
e platonici, e quelle dissertazioni e dispute sull'amore, più strane ancora delle
vicende. Si supponga un poco, che M.elle Scudéri, in quella sua Clelia
[nota 02] già
tanto letta, e ancora rammentata ogni tanto, avesse dato il nome di Virginia alla donna
oltraggiata da Sesto Tarquinio; avesse fatto di Porsena Il un re della Macedonia, o anche
della Gallia Cisalpina; avesse fatto che, per fuggire dal campo nemico, l'eroina del
titolo si buttasse a noto nell'Eufrate, o anche nel Po; e si pensi come sarebbe parso
strano a que' lettori medesimi, per altro così tolleranti. Non era in essi un'intera e
assoluta indifferenza per la veracità della storia ficcata in que' componimenti: era
bensì, e solamente, una tolleranza molto maggiore di quella che ora è possibile.
Badavano anche loro alla storia, leggendoli: e come no, poiché ce la volevano? Poiché,
dico, s'accettavano dal pubblico, e con tanto gradimento, de' componimenti, ne' quali la
storia entrava come una parte essenziale, ai quali la storia somministrava delle
condizioni fondamentali, non solo di luogo e di tempo, ma di fatti e di persone; bisogna
dire che in que' componimenti si voleva la storia. E non si poteva volerla senza badarci.
Solo ci si badava meno di quello che ci si badi al presente.
Ora, come è nata una tale differenza? Di
punto in bianco, e da un momento all'altro? Non fu così, né poteva essere. Quella
tolleranza andò gradatamente scemando: si volle sempre più storia, e in quel dipiù, una
maggior quantità di circostanze storiche. E intendo qui parlare, non solo relativamente a
quell'effimera e capricciosissima specie di componimenti, ma a qualunque specie di
componimenti misti di storia e d'invenzione, come intendo parlare, non d'un progresso
regolarmente continuo, d'una tendenza unanime, ma d'un progresso effettivo nell'insieme,
d'una tendenza prevalente, facendo astrazione da quelle fermate temporanee, e da quegli
accidentali passi indietro, che hanno luogo in qualunque corso d'idee e di fatti. La
tolleranza, dico, andò scemando nel pubblico, e, parte in conseguenza di ciò, parte
senza di ciò, ma sempre per la medesima cagione, andò scemando l'audacia negli
scrittori. Fu qualche volta il pubblico (e in questo comprendo naturalmente, e come parte
importante, i critici dì professione), fu qualche volta il pubblico, che, mostrando o col
biasimo o col disprezzo, di non poter più soffrire un tal grado, un tal modo
d'alterazione della storia, obbligò gli scrittori a metterne di più, e con un maggior
corredo di circostanze reali; furono qualche volta gli scrittori, che, o meditando in
astratto sull'arte loro, o sentendo, nell'atto pratico della composizione, più vivamente
de' foro antecessori o anche de' loro contemporanei, l'importanza e la connessione del
vero storico, trovarono qualche nova maniera di dargli un po' più di posto ne' loro
componimenti. E ognuno di questi progressi speciali, sia nella teoria, sia nella pratica,
poté (come accade d'ogni ripiego a un inconveniente che, in quel momento, dia più
nell'occhio) esser trovato bastante. Ma dopo qualche tempo, il desiderio della verità
storica, desiderio sempre crescente, per ragioni indipendenti dall'arte, e accresciuto,
relativamente all'arte, da quelle modificazioni medesime, fece sentire novi inconvenienti,
e cercar novi ripieghi. Ognuna di quelle successive contentature fu un fatto; nessuna, il
fatto: ognuna di quelle modificazioni fu un passo; nessuna fu, né poteva esser l'arrivo.
Poiché (siamo sempre lì) quale può essere il punto d'arrivo nella strada della verità
storica, se non l'intera (relativamente, s'intende) e pura verità storica? Nelle cose
formate di parti consentanee, ogni miglioramento d'una parte qualunque serve a render più
solido il tutto; in quelle composte d'elementi contrari e incompatibili, il miglioramento
conduce alla distruzione.
E con questo siamo venuti a dichiarare
espressamente (cosa, del resto, implicita in tutto il detto fin qui) che, opponendo al
romanzo storico la contradizione innata del suo assunto, e per conseguenza, la sua
incapacità di ricevere una forma appagante e stabile, non abbiamo punto inteso d'opporgli
un vizio suo particolare, e d'andar dietro a quelli che l'hanno chiamato e lo chiamano un
genere falso, un genere spurio. Questa sentenza inchiude una supposizione, al parer
nostro, affatto erronea, cioè che la maniera di congegnar bene insieme la storia e
l'invenzione, fosse trovata e praticata, e che il romanzo storico sia venuto a guastare.
Non è un genere falso, ma bensì una specie d'un genere falso, quale è quello che
comprende tutti i componimenti misti di storia e d'invenzione, qualunque sia la loro
forma. E aggiungiamo che, come è la più recente di queste specie, così ci pare la più
raffinata, il ritrovato più ingegnoso per vincere la difficoltà, se fosse vincibile.
Ognuno riconoscerà senza dubbio che, per
poter portare un giudizio compito sul romanzo storico, era necessario d'entrare in una
tale questione. Ma siamo, certo, ben lontani dall'immaginarci che l'opinione da noi
espressa su questo punto ci si passi così facilmente. Cercheremo dunque di giustificarla,
paragonando l'assunto del romanzo storico con quello dell'epopea e della tragedia, e
accennando le variazioni avvenute nella teoria e nella pratica di queste due principali e
più illustri forme del genere, per ciò che riguarda la loro relazione con la storia.
Variazioni che poterono bensì esser segnate (chi non lo sa? o chi potrebbe
dimenticarsene?) da splendidi e perenni monumenti d'ingegno, perché l'ingegno imprime una
forma durevole anche alle cose che non avrebbero per sé la ragion di durare; ma
variazioni mosse da una cagione ben potente, poiché la bellezza sempre sentita, e
l'autorità sempre viva di que' monumenti non bastarono, in nessun tempo, a troncarne il
corso. Fabbricati, non solo da mani maestre, ma in parte con istrumenti che hanno persa la
loro attitudine, par che dicano a chi più e meglio li guarda: ammirami, e fa altrimenti.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 12 gennaio 1999