Alessandro Manzoni
Il Conte di Carmagnola
Prefazione
Pubblicando un'opera
d'immaginazione che non si uniforma ai canoni di gusto ricevuti comunemente in Italia, e
sanzionati dalla consuetudine dei più, io non credo però di dover annoiare il lettore
con una lunga esposizione de' princìpi che ho seguiti in questo lavoro. Alcuni scritti
recenti contengono sulla poesia drammatica idee così nuove e vere e di così vasta
applicazione, che in essi si può trovare facilmente la ragione d'un dramma il quale,
dipartendosi dalle norme prescritte dagli antichi trattatisti, sia ciò non ostante
condotto con una qualche intenzione. Oltrediché, ogni componimento presenta a chi voglia
esaminarlo gli elementi necessari a regolarne un giudizio: e amio avviso sono questi:
quale sia l'intento dell'autore; se questo intento sia ragionevole; se l'autore l'abbia
conseguito. Prescindere da un tale esame, e volere a tutta forza giudicare ogni lavoro
secondo regole, delle quali è controversa appunto l'universalità e la certezza, è lo
stesso che es sporsi a giudicare stortamente un lavoro: il che per altro è uno de' più
piccoli mali che possano accadere in questo mondo.
Tra i vari espedienti che gli uomini
hanno trovati per imbrogliarsi reciprocamente, uno de' più ingegnosi è quello d'avere,
quasi per ogni argomento, due massime opposte, tenute ugualmente come infallibili.
Applicando quest'uso anche ai piccoli interessi della poesia, essi dicono a chi la
esercita: siate originale, e non fate nulla di cui i grandi poeti non vi abbiano lasciato
l'esempio. Questi comandi che rendono difficile l'arte più di quello che è già, levano
anche a uno scrittore la speranza di poter rendere ragione d'un lavoro poetico;
quand'anche non ne lo ritenesse il ridicolo a cui s'espone sempre l'apologista de' suoi
propri versi.
Ma poiché la quistione delle due unità di
tempo e di luogo può esser trattata tutta in astratto, e senza far parola della presente
qualsisia tragedia; e poiché queste unità, malgrado gli argomenti a mio credere
inespugnabili che furono addotti contro di esse, sono ancora da moltissimi tenute per
condizioni indispensabili dei dramma; mi giova di riprenderne brevemente l'esame. Mi
studierò per altro di fare piuttosto una picciola appendice, che una ripetizione degli
scritti che le hanno già combattute.
I. L'unità di luogo, e la così detta unità di tempo, non sono regole fondate nella ragione dell'arte, né connaturali all'indole del poema drammatico; ma sono venute da una autorità non bene intesa, e da princìpi arbitrari: ciò risulta evidente a chi osservi la genesi di esse.
- L'unità di luogo è nata dal fatto che la più parte delle tragedie greche imitano un'azione la quale si compie in un sol luogo, e dalla idea che il teatro greco sia un esemplare perpetuo ed esclusivo di perfezione drammatica.
- L'unità di tempo ebbe origine da un passo di Aristotele [nota 1], il quale, come benissimo osserva il signor Schlegel, non contiene un precetto, ma la semplice notizia di un fatto; cioè della pratica più generale dei teatro greco. Che se Aristotele avesse realmente inteso di stabilire un canone dell'arte, questa sua frase avrebbe il doppio inconveniente di non esprimere un'idea precisa, e di non essere accompagnata da alcun ragionamento.
Quando poi vennero quelli che, non badando all'autorità, domandarono la ragione di queste regole, i fautori di esse non seppero trovarne che una, ed è: che, assistendo lo spettatore realmente alla rappresentazione d'un'azione, diventa per lui inverisimile che le diverse parti di questa avvengano in diversi luoghi, e che essa duri per un lungo tempo, mentre lui sa di non essersi mosso di luogo, e d'avere impiegate solo poche ore ad osservarla. Questa ragione è evidentemente fondata su un falso supposto, cioè che lo spettatore sia lì come parte dell'azione, quando è, per così dire, una mente estrinseca che la contempla. La verosimiglianza non deve nascere in lui dalle relazioni dell'azione col suo modo attuale di essere, ma da quelle che le varie parti dell'azione hanno tra di loro. Quando si considera che lo spettatore è fuori dell'azione, l'argomento in favore delle unità svanisce.
II. Queste regole non sono in analogia con gli altri princìpi dell'arte ricevuti da quegli stessi che le credono necessarie. Infatti s'ammettono nella tragedia come verisimili molte cose che non lo sarebbero se ad esse s'applicasse il principio sul quale si stabilisce la necessità delle due unità; il principio, cioè, che nel dramma rappresentato siano verosimili que' fatti soli che s'accordano con la presenza dello spettatore, dimanieraché possano parergli fatti reali. Se uno dicesse, per esempio: que' due personaggi che parlano tra loro di cose segretissime, come se credessero d'esser soli, distruggono ogni illusione, perché io sento d'esser loro visibilmente presente, e li veggo esposti agli occhi d'una moltitudine; gli farebbe precisamente la stessa obiezione che i critici fanno alle tragedie dove sono trascurate le due unità. A quest'uomo non si può dare che una risposta: la platea non entra nel dramma: e questa risposta vale anche per le due unità. Chi cercasse il motivo per cui non si sia esteso il falso principio anche a questi casi, e non si sia imposto all'arte anche questo giogo, io credo che non ne troverebbe altro, se non che per questi casi non ci era un periodo d'Aristotele.
III. Se poi queste regole si
confrontano con l'esperienza, la gran prova che non sono necessarie alla illusione' è,
che il popolo si trova nello stato d'illusione voluta dall'arte, assistendo ogni giorno e
in tutti i paesi a rappresentazioni dove esse non sono osservate; e il popolo in questa
materia è il miglior testimonio. Poiché non conoscendo esso la distinzione dei diversi
generi d'illusione, e non avendo alcuna idea teorica dei verosimile dell'arte definito da
alcuni critici pensatori; niuna idea astratta, niun precedente giudizio potrebbe fargli
ricevere un'impressione di verosimiglianza da cose che non fossero naturalmente atte a
produrla. Se i cangiamenti di scena distruggessero l'illusione essa dovrebbe certamente
essere più presto distrutta nel popolo che nelle persone colte, le quali piegano più
facilmente la loro fantasia a secondar l'intenzioni dell'artista.
Se dai teatri popolari passiamo ad esaminare
qual caso si sia fatto di queste regole ne' teatri colti delle diverse nazioni, troviamo
che nel greco non sono mai state stabilite per principio, e che s'è fatto contro ciò che
esse prescrivono, ogni volta che l'argomento lo ha richiesto; che i poeti drammatici
inglesi e spagnoli più celebri, quelli che sono riguardati come i poeti nazionali. non le
hanno conosciute, o non se ne sono curati. che i tedeschi le rifiutano per riflessione.
Nel teatro francese vennero introdotte a stento. e l'unità di luogo in ispecie incontrò
ostacoli da parte de' comici stessi, quando vi fu messa in pratica da Mairet con la sua
Sofonisba, che si dice la prima tragedia regolare francese: quasi fosse un destino che la
regolarità tragica deva sempre cominciare da una Sofonisba noiosa. In Italia queste
regole sono state seguite come leggi, e senza discussione, che io sappia, e quindi
probabilmente senza esame.
IV. Per colmo poi di bizzarria, è accaduto che quegli stessi che le hanno ricevute non le osservano esattamente in fatto. Perché, senza parlare di qualche violazione dell'unità di luogo che si trova in alcune tragedie italiane e francesi, di quelle chiamate esclusivamente regolari, è noto che l'unità di tempo non è osservata né pretesa nel suo stretto senso, cioè nell'uguaglianza dei tempo fittizio attribuito all'azione coi tempo reale che essa occupa nella rappresentazione. Appena in tutto il teatro francese si citano tre o quattro tragedie che adempiscano questa condizione. Comme il est très-rare (dice un critico francese) de trouver des sujets qui puissent étre resserrés dans des bornes si étroites, on a élargi la règle, et on l'a élendue jusqu'à vingtquatre heures. Con una tale transazione i trattatisti non hanno fatto altro che riconoscere l'irragionevolezza della regola, e si sono messi in un campo dove non possono sostenersi in nessuna maniera. Giacché si potrà ben discutere con chi è di parere che l'azione non deva oltrepassare il tempo materiale della rappresentazione; ma chi ha abbandonato questo punto, con qual ragione pretenderà che uno si tenga in un limite fissato così arbitrariamente? Cosa si può mai dire a un critico, il quale crede che si possano allargare le regole? Accade qui, come in molte altre cose, che sia più ragionevole chiedere il molto che che il poco. Ci sono ragioni più che sufficienti per esimersi da queste regole, ma non se ne può trovare una per ottenere una facilitazione a chi le voglia seguire. Il serait donc à souhaiter (dice un altro critico) que la durée fictive de l'action pût se borner au temps du spectacle; mais c'est étre ennemi des arts, et du plaisir qu'ils causent, que de leur imposer des lois qu'ils ne peuvent suivre, sans se priver de leurs ressources les plus fécondes, et de leurs plus rares beautés. Il est des licences heureuses, dont le Public convient tacitement avec les poètes, à condition qu'ils les employent à lui plaire, et à le toucher; et de ce nombre est l'extension feinte et supposée du temps réel de l'action théátrale [nota 2]. Ma le licenze felici sono parole senza senso in letteratura*, sono di quelle molte espressioni che rappresentano un'idea chiara nel loro significato proprio e comune, e che usate qui meaforicamente rinchiudono una contradizione.. Si chiama ordinariamente licenza ciò che si fa contro le regole prescritte dagli uomini: e si danno in questo senso licenze felici, perché tali regole possono essere, e sono spesso, più generali di quello che la natura delle cose richieda. Si è trasportata questa espressione nella grammatica, e vi sta bene; perché le regole grammaticali essendo di convenzione, e per conseguenza alterabili, può uno scrittore, violando alcuna di queste, spiegarsi meglio; ma nelle regole intrinseche alle arti dei bello la cosa sta altrimenti. Esse devono essere fondate sulla natura, necessarie, immutabili, indipendenti dalla volontà de' critici, trovate, non fatte; e quindi la trasgressione di esse non può essere altro che infelice. - Ma perché queste riflessioni su due parole? Perché nelle due parole appunto sta l'errore. Quando s'abbraccia un'opinione storta, si usa per lo più spiegarla con frasi metaforiche e ambigue, vere in un senso e false in un altro; perché la frase chiara svelerebbe la contradizione. E a voler mettere in chiaro l'erroneità della opinione, bisogna indicare dove sta l'equivoco.
V. Finalmente queste regole
impediscono molte bellezze, e producono molti inconvenienti.
Non discenderò a dimostrare con esempi la
prima parte di questa proposizione: ciò è stato fatto egregiamente più d'una volta. E
la cosa resulta tanto evidentemente dalla più leggiera osservazione d'alcune tragedie
inglesi e tedesche. che i sostenitori stessi delle regole sono costretti a riconoscerla.
Confessano essi che il non astringersi ai limiti reali di tempo e di luogo lascia il campo
a una imitazione ben altrimenti varia e forte, non negano le bellezze ottenute a scapito
delle regole; ma affermano che bisogna rinunziare a quelle bellezze, giacché per
ottenerle bisogna cadere nell'inverosimile. Ora, ammettendo l'obiezione, è chiaro che
l'inverosimiglianza tanto temuta non si farebbe sentire che alla rappresentazione scenica;
e però la tragedia da recitarsi sarebbe di sua natura incapace di quel grado di
perfezione, a cui può arrivare la tragedia, quando non si consideri che come un poema in
dialogo, fatto soltanto per la lettura, del pari che il narrativo. In tal caso, chi vuol
cavare dalla poesia ciò che essa può dare, dovrebbe preferire sempre questo secondo
genere di tragedia: e nell'alternativa di sacrificare o la rappresentazione materiale, o
ciò che forma l'essenza del bello poetico, chi potrebbe mai stare in dubbio? Certo, meno
d'ogni altro quei critici i quali sono sempre di parere che le tragedie greche non siano
mai state superate dai moderni, e che producano il sommo effetto poetico, quantunque non
servano più che alla lettura. Non ho inteso con ciò di concedere che i drammi senza le
unità riescano inverosimili alla recita; ma da una conseguenza ho voluto far sentire il
valore dei principio.
Gl'inconvenienti che nascono dall'astringersi
alle due unità, e specialmente a quella di luogo, sono ugualmente confessati dai critici.
Anzi non par credibile che le inverosimiglianze esistenti nei drammi orditi secondo queste
regole. siano così tranquillamente tollerate da coloro che vogliono le regole a solo fine
d'ottenere la verosimiglianza. Cito un solo esempio di questa loro rassegnazione: Dans
Cinna il faut que la conjuration se fasse dans le cabinet d'Emilie, et qu'Auguste vienne
dans ce méme cabinet confondre Cinna, et lui pardonner; cela est peu naturel. La
sconvenienza è assai bene sentita, e sinceramente confessata. Ma la giustificazione è
singolare. Eccola: Cependant il le faut.
Forse si è qui eccessivamente ciarlato su una
questione già così bene sciolta, e che a molti può parer troppo frivola. Rammenterò a
questi ciò che disse molto sensatamente in un caso consimile un noto scrittore: Il n
'y a pas grand mal à se tromper en tout cela: mais il vaut encore mieux ne s'y point
tromper, s'il est possible. E del rimanente, credo che una tale questione abbia il suo
lato importante. L'errore solo è frivolo in ogni senso. Tutto ciò che ha relazione con
l'arti della parola, e coi diversi modi d'influire sulle idee e sugli affetti degli
uomini, è legato di sua natura con oggetti gravissimi. L'arte drammatica si trova presso
tutti i popoli civilizzati: essa è considerata da alcuni come un mezzo potente di
miglioramento, da altri come un mezzo potente di corruttela, da nessuno come una cosa
indifferente. Ed è certo che tutto ciò che tende a ravvicinarla o ad allontanarla dai
suo tipo di verità e di perfezione, deve alterare, dirigere, aumentare, o diminuire la
sua influenza.
Quest'ultime riflessioni conducono a una
questione più volte discussa, ora quasi dimenticata, ma che io credo tutt'altro che
sciolta; ed è: se la poesia drammatica sia utile o dannosa. So che ai nostri giorni
sembra pedanteria il conservare alcun dubbio sopra di ciò, dacché il Pubblico di tutte
le nazioni colte ha sentenziato col fatto in favore del teatro. Mi sembra però che ci
voglia molto coraggio per sottoscriversi senza esame a una sentenza contro la quale
sussistono le proteste di Nicole, di Bossuet, e di G.G. Rousseau, il cui nome unito a
questi viene qui ad avere una autorità singolare. Essi hanno unanimemente inteso di
stabilire due punti: uno che i drammi da loro conosciuti ed esaminati sono immorali;
l'altro che ogni dramma deva esserlo, sotto pena di riuscire freddo, e quindi vizioso
secondo l'arte; e che in conseguenza la poesia drammatica sia una di quelle cose che si
devono abbandonare, quantunque producano dei piaceri, perché essenzialmente dannose.
Convenendo interamente sui vizi del sistema drammatico giudicato dagli scrittori nominati
qui sopra, oso credere illegittima la conseguenza che ne hanno dedotta contro la poesia
drammatica in generale. Mi pare che siano stati tratti in errore dal non aver supposto
possibile altro sistema che quello seguito in Francia. Se ne può dare, e se ne dà un
altro suscettibile dei più alto grado d'interesse e immune dagi'inconvenienti di quello:
un sistema conducente allo scopo morale, ben lungi dall'essergli contrario. Al presente
saggio di componimento drammatico, m'ero proposto d'unire un discorso su tale argomento.
Ma costretto da alcune circostanze a rimettere questo lavoro ad altro tempo, mi fo lecito
d'annunziarlo; perché mi pare cosa sconveniente il manifestare una opinione contraria
all'opinione ragionata d'uomini di prim'ordine, senza addurre le proprie ragioni, o senza
prometterle almeno" [nota 3].
* Mi rimane a
render conto del Coro introdotto una volta in questa tragedia, il quale, per non essere
nominati personaggi che lo compongano, può parere un capriccio, o un enimma. Non posso
meglio spiegarne l'intenzione, che riportando in parte ciò che il signor Schlegel ha
detto dei Cori greci: Il Coro è da riguardarsi come la personificazione de' pensieri
morali che l'azione ispira, come l'organo de' sentimenti del poeta che parla in nome
dell'intera umanità. E poco sotto: Vollero i greci che in ogni dramma il Coro...
fosse prima di tutto il rappresentante del genio nazionale, e poi il difensore della causa
dell'umanità: il Coro era insomma lo spettatore ideale; esso temperava l'impressioni
violente e dolorose d'un'azione qualche volta troppo vicina al vero; e riverberando, per
così dire, allo spettatore reale le sue proprie emozioni, gliele rimandava raddolcite
dalla vaghezza d'un'espressione lirica e armonica, e lo conduceva così nel campo più
tranquillo della contemplazione. Ora m'è parso che, se i Cori dei greci non sono
combinabili col sistema tragico moderno, si possa però ottenere in parte il loro fine, e
rinnovarne lo spirito, inserendo degli squarci lirici composti sull'idea di que' Cori. Se
l'essere questi indipendenti dall'azione e non applicati a personaggi li priva d'una gran
parte dell'effetto che producevano quelli, può però, a mio credere, renderli
suscettibili d'uno slancio più lirico, più variato e più fantastico. Hanno inoltre
sugli antichi il vantaggio d'essere senza inconvenienti: non essendo legati con l'orditura
dell'azione, non saranno mai cagione che questa si alteri e si scomponga per farceli
stare. Hanno finalmente un altro vantaggio per l'arte, in quanto, riserbando al poeta un
cantuccio dov'egli possa parlare in persona propria, gli diminuiranno la tentazione
d'introdursi nell'azione, e di prestare ai personaggi i suoi propri sentimenti; difetto
dei più notati negli scrittori drammatici. Senza indagare se questi Cori potessero mai
essere in qualche modo adattati alla recita, io propongo soltanto che siano destinati alla
lettura: e prego il lettore d'esaminare questo progetto indipendentemente dal saggio che
qui se ne presenta, perché il progetto mi sembra potere essere atto a dare all'arte più
importanza e perfezionamento, somministrandole un mezzo più diretto, più certo e più
determinato d'influenza morale.
Premetto alla tragedia alcune notizie storiche
sul personaggio e sui fatti che sono l'argomento di essa, pensando che chiunque si risolve
a leggere un componimento misto d'invenzione e di verità storica,
ami di potere, senza lunghe ricerche, discernere ciò che vi è conservato di avvenimenti
reali.
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Note (Abbiamo riportato solo le tre note più significative)
[nota 1] sono differenti in questo (l'Epopea e la Tragedia) che quella ha il verso misurato semplice. ed è raccontativa, e formata di lunghezza. e questa si sforza. quanto può il piú, di stare sotto un giro del sole. o di mutarne poco; ma l'Epopea è smoderata per tempo. ed in ciò è differente dalla Tragedia. Traduzione dei Castelvetro [N.d.A.] - Ludovico Castelvetro, letterato cinquecentesco (1505-71), uno fra i protagonisti della disputa sul problema della lingua Fu inoltre traduttore e commentatore della Poetica di Aristotele (La poetica di Aristotele vulgarizzata e sposta); il signor Schlegel: Corso di Letteratura drammatica. Lezione X [N.d.A].
[nota 2] Sarebbe auspicabile che la durata fittizia dell'azione potesse limitarsi alla durata dello spettacolo; ma vuol dire essere nemico delle arti e del piacere che esse producono imporre leggi che esse non possono seguire senza privarsi delle loro più feconde risorse e delle loro più rare bellezze. Vi sono delle licenze felici sulle quali il pubblico tacitamente conviene coi poeti a condizione che questi le usino per piacergli, per commuoverlo. e in questo novero va posta l'estensione finta e supposta dei tempo reale dell'azione teatrale. [Jean François Marmontel, Eléments de littérature, art. Unité]
[nota 3] - Altre circostanze non hanno permesso allautore di mantenere questa promessa. E lo dice senza riguardo, sapendo bene che sono mancanze le quali, lungi dal far perdere a un autore il titolo di galantuomo, gli acquistano spesso quello di benemerito. Del rimanente questo punto è stato toccato in parte nella Lettre à Mr. Ch... sur l'unité de temps et de lieu dans la tragédie. E forse, per ciò che riguarda la questione generale, basta osservare che tutta largomentazione di quegli scrittori è fondata sulla supposizione, che il dramma non possa interessare se non in quanto comunichi allo spettatore o al lettore le passioni rappresentate in esso. Supposizione venuta dall'aver preso per condizione universale e naturale del dramma ciò chera un fatto speciale de' drammi esaminati da loro, e della quale la più parte dei drammi immortali di Shakespeare sono una confutazione tanto evidente quanto magnifica [N.d.A.].
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 11 gennaio 1999