Alessandro Manzoni

Adelchi

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Atto Quarto

       Longobardi Desiderio, re
Adelchi, suo figlio, re
Ermengarda, figlia di Desiderio
Ansberga, figlia di Desiderio, badessa
       Duchi Longobardi Baudo, duca di Brescia
Giselberto, duca di Verona
Ildechi
Indolfo
Farvaldo
Ervigo
Guntigi
    Longobardi - Scudieri Vermondo, scudiero di Desiderio
Anfrido, scudiero di Adelchi
Teudi, scudiero di Adelchi
Amri, scudiero di Guntigi
Svarto, soldato
      Franchi

Carlo, re

Albino, legato
      Conti Franchi Rutlando
Arvino
      Latini Pietro, legato d'Adriano Papa
Martino, diacono di Ravenna
      Duchi, scudieri, soldati longobardi;  donzelle, suore del monastero di San Salvatore;
      conti e vescovi franchi;   un araldo.

ATTO QUARTO

SCENA PRIMA

Giardino nel monastero di San Salvatore in Brescia.
Ermengarda, sostenuta da due Donzelle, Ansberga.

ERMENGARDA

Qui sotto il tiglio, qui

(s'adagia sur un sedile)

                                   Come è soave
Questo raggio d'april! come si posa
Sulle fronde nascenti! Intendo or come
Tanto ricerchi il sol colui che, d'anni
Carco, fuggir sente la vita!

(alle Donzelle)

                                          A voi
Grazie, a voi, che, reggendo il fianco infermo,
Pago feste l'amor ch'oggi, mi prese
Di circondarmi ancor di queste aperte
Aure, ch'io prime respirai, del Mella
Sotto il mio cielo di sedermi, e tutto
Vederlo ancor, fin dove il guardo arriva.
— Dolce sorella, a Dio sacrata madre
Pietosa Ansberga!

(le porge la mano: le Donzelle si ritirano: Ansberga siede)

                           — Di tue cure il fine
S'appressa, e di mie pene. Oh! con misura
Le dispensa il Signor. Sento una pace
Stanca, foriera della tomba: incontro
L'ora di Dio più non combatte questa
Mia giovinezza doma; e dolcemente,
Più che sperato io non avrei, dal laccio
L'anima, antica nel dolor, si solve.
L'ultima grazia ora ti chiedo: accogli
Le solenni parole, i voti ascolta
Della morente, in cor li serba, e puri
Rendili un giorno a quei ch'io lasciò in terra.
— Non turbarti, o diletta: oh! non guardarmi
Accorata così. Di Dio, nol vedi?
Questa è pietà. Vuoi che mi lasci in terra
Pel dì che Brescia assaliran? per quando
Un tal nemico appresserà? che a questo
Ineffabile strazio Ei qui mi tenga?

 

 

 
 
 
 

 

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ANSBERGA Cara infelice, non temer: lontane
Da noi son l'armi ancor: vontra Verona,
Contra Pavia, de' re, dei fidi asilo,
Tutte le forze sue quell'empio adopra;
E, spero in Dio, non basteranno. Il nostro
Nobil cugin, l' ardito Baudo, il santo
Vescovo Ansvaldo, a queste mura intorno
Del Benaco i guerrieri e delle valli
Han radunati; e immoti stanno, accinti
A difesa mortal. Quando Verona
Cada e Pavia (Dio, nol consenti!) un novo
Lungo conflitto...
 
 
 
 
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ERMENGARDA                            Io nol vedrò: disciolta
Già d'ogni tema e d'ogni amor terreno,
Dal rio sperar, lunge io sarò; pel padre
Io pregherò, per quell'amato Adelchi,
Per te, per quei che soffrono, per quelli
Che fan soffrir, per tutti. — Or tu raccogli
La mia mente suprema. Al padre, Ansberga,
Ed al fratel, quando li veda — oh questa
Gioia negata non vi sia! — dirai
Che, all'orlo estremo della vita, al punto
In cui tutto s'obblia, grata e soave
Serbai memoria di quel dì, dell'atto
Cortese, allor che a me tremante, incerta
Steser le braccia risolute e pie,
Né una reietta vergognar; dirai
Che al trono del Signor, caldo, incessante,
Per la vittoria lor stette il mio prego;
E s'Ei non l'ode, alto consiglio è certo
Di pietà più profonda; e ch'io morendo
Gli ho benedetti. — Indi, sorella... oh! questo
Non mi negar!... trova un Fedel che possa
Quando che sia, dovunque, a quel feroce
Di mia gente nemico approssimarsi...
 
 
 
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ANSBERGA Carlo!
ERMENGARDA              Tu l'hai nomato: e sì gli dica:
Senza rancor passa Ermengarda: oggetto
D'odio in terra non lascia, e di quel tanto
Ch'ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
Ch'Egli a nessun conto ne chieda, poi
Che dalle mani sue tutto ella prese.
Questo gli dica, e... se all'orecchio altero
Troppo acerba non giunge esta parola
Ch'io gli perdono. — Lo farai?
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ANSBERGA                                              L'estreme
Parole mie riceva il ciel, siccome
Queste tue mi son sacre.
 
 
ERMENGARDA                                        Amata! e d'una
Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
Cui, mentre un soffio l'animò, sì larga
Fosti di cure non ti sia ribrezzo
Prender l'estrema; e la componi in pace.
Questo anel che tu vedi alla mia manca,
Scenda seco nell'urna: ei mi fu dato
Presso l'altar, dinanzi a Dio. Modesta
Sia l'urna mia: — tutti siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? — ma porti
Di regina le insegne: un sacro nodo
Mi fe' regina: il don di Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai: come la vita,
Dee la morte attestarlo.
 
 
 
 
 
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ANSBERGA

                                    Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! — Adempi
Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina Iddio,
Cittadina divieni; e sia la casa
Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e d'ogni umana
Cosa l'obblio.

 
 
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ERMENGARDA                     Che mi proponi, Ansberga?
Ch'io mentisca al Signor! Pensa ch'io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,
Ma d'un mortal. — Felici voi! felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de' regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all'uom! Ma — d'altri io sono.
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ANSBERGA

                                                             Oh mai
Stata nol fossi!

 
ERMENGARDA                          Oh mai! ma quella via,
Su cui ci pose il ciel, correrla intera
Convien, qual ch'ella sia, fino all'estremo.
— E, se all'annunzio di mia morte, un novo
Pensier di pentimento e di pietade
Assalisse quel cor? Se, per ammenda
Tarda, ma dolce ancor, la fredda spoglia
Ei richiedesse come sua, dovuta
Alla tomba real? — Gli estinti, Ansberga,
Talor de' vivi son più forti assai.
 
 
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110
 
ANSBERGA Oh! Nol farà.
ERMENGARDA                       Tu pia, tu poni un freno
Ingiurioso alla bontà di Lui,
Che tocca i cor, che gode, in sua mercede,
Far che ripari, chi lo fece, il torto?
 
 
115
ANSBERGA

No, sventura, ei nol farà. — Nol puote.

ERMENGARDA Come? perché nol puote?
ANSBERGA

                                         O mia diletta
Non chieder oltre; obblia.


ERMENGARDA

                                        Parla! alla tomba
Con questo dubbio non mandarmi.
 
ANSBERGA

                                                    Oh! l'empio
Il suo delitto consumò.

120
ERMENGARDA                                      Prosegui!
ANSBERGA

Scaccialo al tutto dal tuo cor. Di nuove
Inique nozze ei si fe' reo: sugli occhi
Degli uomini e di Dio, l'inverecondo,
Come in trionfo, nel suo campo ei tragge
Quella Ildegarde sua...

(Ermengarda sviene)

                                   Tu impallidisci!
Ermengarda! non m'odi? Oh ciel! sorelle,
Accorrete! oh che feci!

(entrano le due Donzelle e varie Suore)

                                      Oh! chi soccorso
Le dà? Vedete: il suo dolor l'uccide.

 
 
 
125
 

 

 
 

 

 

PRIMA SUORA Fa core; ella respira.
SECONDA SUORA

                                  Oh sventurata!
A questa età, nata in tal loco, e tanto
Soffrir!

130

UNA DONZELLA             Dolce mia donna!
PRIMA SUORA

                                         Ecco le luci
Apre.


ANSBERGA            Oh che guardo! Ciel! che fin?
ERMENGARDA

(in delirio)

                                                          Scacciate
Quella donna, o scudieri! Oh! non vedete
Come s'avanza ardimentosa, e tenta
Prender la mano al re?

 

 
 
135

ANSBERGA                                      Svegliati: oh Dio!
Non dir così; ritorna in te; respingi
Questi fantasmi; il nome santo invoca.
 
 

ERMENGARDA

(in delirio)

Carlo! non lo soffrir: lancia a costei
Quel tuo sguardo severo. Oh! tosto in fuga
Andranne: io stessa, io sposa tua, non era
Pur d'un pensiero, intraveder nol posso
Senza tutta turbarmi. — Oh ciel! che vedo?
Tu le sorridi? Ah no! cessa il crudele
Scherzo; ei mi strazia, io nol sostengo.—  O Carlo,
Farmi morire di dolor, tu il puoi;
Ma che gloria ti fia? Tu stesso un giorno
Dolor ne avresti. — Amor tremendo è il mio.
Tu nol conosci ancora; oh! tutto ancora
Non tel mostrai: tu eri mio: secura
Nel mio gaudio io tacea; né tutta mai
Questo labbro pudico osato avria
Dirti l'ebrezza del mio cor segreto.
— Scacciala, per pietà! Vedi; io la temo,
Come una serpe: il guardo suo m'uccide.
— Sola e debol son io: non sei tu il mio
Unico amico? Se fui tua, se alcuna
Di me dolcezza avesti... oh! non forzarmi
A supplicar così dinanzi a questa
Turba che mi deride Oh cielo! ei fugge!
Nelle sue braccia! io muoio!

 

 
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ANSBERGA

                                            Oh! mi farai
Teco morir!


ERMENGARDA

(in delirio)

                       Dov'è Bertrada? io voglio
Quella soave, quella pia. Bertrada!
Dimmi, il sai tu? tu, che la prima io vidi,
Che prima amai di questa casa, il sai?
Parla a questa infelice: odio la voce
D'ogni mortal; ma al tuo pietoso aspetto,
Ma nelle braccia tue sento una vita,
Un gaudio amaro che all'amor somiglia.
—Lascia ch'io ti rimiri, e ch'io mi segga
Qui presso a te: son così stanca! Io voglio
Star presso a te; voglio occultar nel tuo
Grembo la faccia, e piangere: con teco
Piangere io posso! Ah non patir! prometti
Di non fuggir da me, fin ch'io mi levi
Inebbriata del mio pianto. Oh! molto
Da tollerarmi non ti resta: e tanto
Mi amasti! Oh quanti abbiam trascorsi insieme
Giorni ridenti! Ti sovvien? varcammo
Monti, fiumi e foreste; e ad ogni aurora
Crescea la gioia del destarsi. Oh giorni!
No, non parlarne per pietà! Sa il cielo
S'io mi credea che in cor mortal giammai
Tanta gioia capisse e tanto affanno!
Tu piangi meco! Oh! consolar mi vuoi?
Chiamami figlia: a questo nome io sento
Una pienezza di martir, che il core
M'inonda, e il getta nell' obblio.

(ricade)

 

 
 
 
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ANSBERGA

                                                  Tranquilla
Ella moria!


ERMENGARDA

(in delirio)

Se fosse un sogno! e l'alba
Lo risolvesse in nebbia! e mi destassi
Molle il pianto ed affannosa; e Carlo
La cagion ne chiedesse, e, sorridendo
Di poca fe' mi rampognasse!

(ricade in letargo)

 

 
190
 
 

 

ANSBERGA

                                              O Donna
Del ciel, soccorri a questa afflitta!


PRIMA SUORA                                                     Oh! vedi:
Torna la pace su quel volto; il core
Sotto la man più non trabalza.
 
195
ANSBERGA

                                               O suora!
Ermengarda! Ermengarda!


ERMENGARDA

(riavendosi)

                                            Oh! chi mi chiama?

 

 

ANSBERGA Guardami; io sono Ansberga: a te d'intorno
Stan le donzelle tue, le suore pie
Che per la pace tua pregano.
 
 
ERMENGARDA                                               Il cielo
Vi benedica. — Ah! sì: questi son volti
Di pace d'amistà. — Da un tristo sogno
Io mi risveglio.
200
 
 
ANSBERGA

                         Misera! travaglio
Più che ristoro ti recò sì torba
Quiete.

 
 
ERMENGARDA È ver: tutta la lena è spenta.
Reggimi, o cara; e voi, cortesi, al fido
Mio letticciol traetemi: l' estrema
Fatica è questa che vi do; ma tutte
Son contate lassù.—Moriamo in pace.
Parlatemi di Dio: sento ch'Ei giunge.
 
 
 
 
 
CORO

      Sparsa le trecce morbide
Sull'affannoso petto,
Lenta le palme, e rorida
Di morte il bianco aspetto,
Giace la pia, col tremolo
Sguardo cercando il ciel.
      Cessa il compianto: unanime
S'innalza una preghiera:
Calata in su la gelida
Fronte, una man leggiera
Sulla pupilla cerula
Stende l'estremo vel.
      Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Fuor della vita è il termine
Del lungo tuo martir.
      Tal della mesta, immobile
Era quaggiuso il fato:
Sempre un obblio di chiedere,
Che le saria negato;
E al Dio de' santi ascendere,
Santa del suo patir.
      Ahi! nelle insonni tenebre,
Pei claustri solitari,
Tra il canto delle vergini,
Ai supplicati altari,
Sempre al pensier tornavano
Gl'irrevocati dì;
      Quando ancor cara, improvida
D'un avvenir mal fido,
Ebbra spirò le vivide
Aure del Franco lido,
E tra le nuore Saliche
Invidiata uscì:
      Quando da un poggio aereo,
Il biondo crin gemmata,
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata,
E sulle sciolte redini
Chino il chiomato sir;
      E dietro a lui la furia
De' corridor fumanti;
E lo sbandarsi, e il rapido
Redir dei veltri ansanti;
E dai tentati triboli
L'irto cinghiale uscir;
      E la battuta polvere
Rigar di sangue, colto
Dal regio stral: la tenera
Alle donzelle il volto
Volgea repente, pallida
D'amabile terror.
      Oh Mosa errante! oh tepidi
Lavacri d'Aquisgrano!
Ove, deposta l'orrida
Maglia, il guerrier sovrano
Scendea del campo a tergere
Il nobile sudor!
      Come rugiada al cespite
Dell'erba inaridita,
Fresca negli arsi calami
Fa rifluir la vita,
Che verdi ancor risorgono
Nel temperato albor;
      Tale al pensier, cui l'empia
Virtù d'amor fatica,
Discende il refrigerio
D'una parola amica,
E il cor diverte ai placidi
Gaudii d'un altro amor.
      Ma come il sol che reduce
L'erta infocata ascende,
E con la vampa assidua
L'immobil aura incende,
Risorti appena i gracili
Steli riarde al suol;
      Ratto così dal tenue
Obblio torna immortale
L'amor sopito, e l'anima
Impaurita assale,
E le sviate immagini
Richiama al noto duol.
      Sgombra, o gentil, dall'ansia
Mente i terrestri ardori;
Leva all'Eterno un candido
Pensier d'offerta, e muori:
Nel suol che dee la tenera
Tua spoglia ricoprir,
      Altre infelici dormono,
Che il duol consunse; orbate
Spose dal brando, e vergini
Indarno fidanzate;
Madri che i nati videro
Trafitti impallidir.
      Te dalla rea progenie
Degli oppressor discesa,
Cui fu prodezza il numero,
Cui fu ragion l'offesa,
E dritto il sangue, e gloria
Il non aver pietà,
      Te collocò la provida
Sventura in fra gli oppressi:
Muori compianta e placida;
Scendi a dormir con essi:
Alle incolpate ceneri
Nessuno insulterà.
      Muori; e la faccia esanime
Si ricomponga in pace;
Com'era allor che improvida
D'un avvenir fallace,
Lievi pensier virginei
Solo pingea. Così
      Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E, dietro il monte, imporpora
Il trepido occidente:
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.

 
 
 
 
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SCENA SECONDA

Notte. Interno d'un battifredo sulle mura di Pavia.
Un'armatura nel mezzo.
Guntigi, Amri.

GUNTIGI Amri, sovvienti di Spoleti?
AMRI

                                         E posso
Obbliarlo, signor?


GUNTIGI                              D'allor che, morto
Il tuo signor, solo, dai nostri cinto,
Senza difesa rimanesti? Alzata
Sul tuo capo la scure, un furibondo
Già la calava; io lo ritenni: ai piedi
Tu mi cadesti, e ti gridasti mio.
Che mi giuravi?
 
 
 
215
 
 
AMRI                           Ubbidienza e fede,
Fino alla morte. — O mio signor, falsato
Ho il giuro mai?
 
 
GUNTIGI

                          No, ma l'istante è giunto
Che tu lo illustri con la prova.

220
AMRI                                                Imponi.
GUNTIGI Tocca quest'armi consacrate, e giura
Che il mio comando eseguirai; che mai,
Nè per timor né per lusinghe, fia,
Mai, dal tuo labbro rivelato.
 
  

AMRI

(ponendo le mani sull'armi)

                                            Il giuro:
E, se quandunque mentirò, mendico
Andarne io possa, non portar più scudo,
Divenir servo d'un Romano.

  

225
 
 

GUNTIGI                                             Ascolta.
A me commessa delle mura, il sai,
È la custodia; io qui comando, e a nullo
Ubbidisco che al re. Su questo spalto
Io ti pongo a vedetta, e quindi ogn'altro
Guerriero allontanai. Tendi l'orecchio,
E osserva al lume della luna, al mezzo
Quando la notte fia, cheto vedrai
Alle mura un armato avvicinarsi:
Svarto ei sarà... Perché così mi guardi
Attonito? egli è Svarto, un che tra noi
Era da men di te; che ora tra i Franchi
In alto sta, sol perché seppe accorto
E segreto servir. Ti basti intanto,
Che amico viene al tuo signor costui.
Col pomo della spada in sullo scudo
Sommessamente ei picchierà: tre volte
Gli renderai lo stesso segno. Al muro
Una scala ei porrà: quando fia posta,
Ripeti il segno; ei saliravvi: a questo
Battifredo lo scorgi, e a guardia ponti
Qui fuor: se un passo, se un respiro ascolti,
Entra ed avvisa.
 
 
230
 
 
 
 
235
 
 
 
 
240
 
 
 
 
245
 
 
 
 
AMRI                            Come imponi, io tutto
Farò.
250
GUNTIGI

           Tu servi agran disegno, e grande
Fia il premio.

(Amri parte)


 

SCENA TERZA

[Guntigi solo]

GUNTIGI                      Fedeltà? — Che il tristo amico
Di caduto signor, quei che, ostinato
Nella speranza, o irresoluto, stette
Con lui fino all'estremo, e con lui cadde,
Fedeltà! fedeltà! gridi, e con essa
Si consoli, sta ben. Ciò che consola,
Creder si vuol senza esitar. — Ma quando
Tutto perder si puote, e tutto ancora
Si può salvar; quando il felice, il sire
Per cui Dio si dichiara, il consacrato
Carlo un messo m'invia, mi vuole amico
M'invita a non perir, vuol dalla causa
Della sventura separar la mia
A che, sempre respinta, ad assalirmi
Questa parola fedeltà ritorna,
Simile all'importuno? e sempre in mezzo
De' miei pensieri si getta, e la consulta
Ne turba? — Fedeltà! Bello è con essa
Ogni destin, bello il morir. — Chi 'l dice?
Quello per cui si muor. — Ma l'universo
Seco il ripete ad una voce, e grida
Che, anco mendico e derelitto, il fido
Degno è d'onor, più che il fellon tra gli agi
E gli amici. — Davver? Ma, s'egli è degno,
Perché è mendico e derelitto? E voi
Che l'ammirate, che vi tien che in folla
Non accorriate a consolarlo, a fargli
Onor, l'ingiurie della sorte iniqua
A ristorar? Levatevi dal fianco
Di que' felici che spregiate, e dove
Sta questo onor fate vedervi: allora
Vi crederò. Certo, se a voi consiglio
Chieder dovessi, dir m'udrei: rigetta
L'offerte indegne; de' tuoi re dividi,
Qual ch'ella sia, la sorte — E perché tanto
A cor questo vi sta? Perché, s'io cado,
Io vi farò pietà; ma se, tra mezzo
Alle rovine altrui, ritto io rimango,
Se cavalcar voi mi vedrete al fianco
Del vincitor che mi sorrida, allora
Forse invidia farovvi; e più v'aggrada
Sentir pietà che invidia. Ah! non è puro
Questo vostro consiglio. — Oh! Carlo anch'egli
In cor ti spregerà. — Chi ve l'ha detto?
Spregia egli Svarto, un uom di guerra oscuro
Che ai primi gradi alzò? Quando sul volto
Quel potente m'onori, il core a voi
Chi 'l rivela? E che importa? Ah! voi volete
Sparger di fiele il nappo a cui non puote
Giungere il vostro labbro. A voi diletta
Veder grandi cadute, ombre d'estinta
Fortuna, e favellarne, e nella vostra
Oscurità racconsolarvi: è questo
Di vostre mire il segno: un più ridente
Splende alla mia; né di toccarlo il vostro
Vano clamor mi riterrà. Se basta
I vostri plausi ad ottener, lo starsi
Fermo alle prese col periglio, ebbene,
Un tremendo io ne affronto; e un dì saprete
Che a questo posto più mestier coraggio
Mi fu, che un giorno di battaglia in campo.
Perché, se il rege, come suol talvolta,
Visitando le mura, or or qui meco
Svarto trovasse a parlamento, Svarto,
Un di color, ch'ei traditori, e Carlo
Noma Fedeli... oh! di guardarsi indietro
Non è più tempo: egli è destin, che pera
Un di noi due; far deggio in modo, o Veglio,
Ch'io quel non sia.
 
 
 
255
 
 
 
 
260
 
 
 
 
265
 
 
 
 
270
 
 
 
 
275
 
 
 
 
280
 
 
 
 
285
 
 
 
 
290
 
 
 
 
295
 
 
 
 
300
 
 
 
 
305
 
 
 

310
 
 
 
 
315
 
 
 
 

SCENA QUARTA

Guntigi, Svarto, Amri.

SVARTO                                Guntigi!
GUNTIGI                                             Svarto !

(ad Amri)

                                                            Alcuno
Non incontrasti?

 

 

320

AMRI                           Alcun.
GUNTIGI

                                      Qui intorno veglia.

(Amri parte)

 

 

SCENA QUINTA

Guntigi, Svarto.

SVARTO

Guntigi, io vengo, e il capo mio commetto
Alla tua fede.

 

GUNTIGI

                      E tu n'hai pegno; entrambi
Un periglio corriamo.

 
SVARTO                                   E un premio immenso
Trarne, sta in te. Vuoi tu fermar la sorte
D'un popolo e la tua?

325
GUNTIGI Quando quel Franco
Prigion condotto entro Pavia, mi chiese
Di segreto parlar, messo di Carlo
Mi si scoverse, e in nome suo mi disse
Che l'ira di nemico a volger pronto
In real grazia egli era, e in me speranza
Molta ponea; che ogni mio danno avria
Riparato da re; che tu verresti
A trattar meco; io condiscesi: un pegno
Chiese da me; tosto de' Franchi al campo
Nascosamente il mio figliuol mandai
Messo insieme ed ostaggio: e certo ancora
Del mio voler non sei? Fermo è del pari
Carlo nel suo?
 
 
 
 
330
 
 
 
 
335
 
 
 
SVARTO                         Dubbiar ne puoi?
GUNTIGI                                                      Ch'io sappia
Ciò ch'ei desia, ciò ch'ei promette. Ei prese
La mia cittade, e ne fe' dono altrui;
Né resta a me che un titol vano.
 
340
 
SVARTO

                                                 E giova
Che dispogliato altri ti creda, e quindi
Implacabile a Carlo. Or sappi; il grado
Che già tenesti, tu non l'hai lasciato
Che per salir. Carlo a' tuoi pari dona
E non promette: Ivrea perdesti; il Conte,
Prendi,

(gli porge un diploma)

             sei di Pavia.

 
 
 
345
 
 

 

 

GUNTIGI                                    Da questo istante
Io l'ufizio ne assumo; e fiane accorto
Dall'opre il signor mio. Gli ordini suoi
Nunziami, o Svarto.
 
 
350
SVARTO                                  Ei vuol Pavia; captivo
Vuole in sua mano il re: l'impresa allora
Precipita al suo fin. Verona a stento
Chiusa ancor tiensi: tranne pochi, ognuno
Brama d'uscirne, e dirsi vinto: Adelchi
Sol li ritien; ma quando Carlo arrivi,
Vincitor di Pavia, di resistenza
Chi parlerà? L'altre città che sparse
Tengonsi, e speran nell'indugio ancora,
Cadon tutte in un dì, membra disciolte
D'avulso capo: i re caduti, è tolto
Ogni pretesto di vergogna: al duro
Ostinato ubbidir manca il comando:
Ei regna, e guerra più non v'è.
 
 
 
 
355
 
 
 
 
360
 
 
 
GUNTIGI                                               Sì, certo:
Pavia gli è d'uopo; ed ei l'avrà: domani,
Non più tardi l'avrà. Verso la porta
Occidental con qualche schiera ei venga:
Finga quivi un assalto; io questa opposta
Terrò sguernita, e vi porrò sol pochi
Miei fidi: accesa ivi la mischia, a questa
Ei corra; aperta gli sarà. — Ch'io, preso
Il re consegni al suo nemico, questo
Carlo da me non chieda: io fui vassallo
Di Desiderio, in dì felici; e il mio
Nome d'inutil macchia io coprirei.
Cinto di qua, di là, lo sventurato
Sfuggir non può.
 
365
 
 
 
 
370
 
 
 
 
375
 
SVARTO                            Felice me, che a Carlo
Tal nunzio apporterò! Te più felice,
Che puoi tanto per lui! — Ma dimmi ancora:
Che si pensa in Pavia? Quei che il crollante
Soglio reggere han fermo, o insiem seco
Precipitar, son molti ancora? o all'astro
Trionfator di Carlo i guardi alfine
Volgonsi e i voti? e agevol fia, siccome
L'altra già fu, questa vittoria estrema?
 
 
 
380
 
 
 
 
385
GUNTIGI Stanchi e sfidati i più, sotto il vessillo
Stanno sol per costume: a lor consiglia
Oggi pensier di abbandonar cui Dio
Già da gran tempo abbandonò; ma in capo
D'ogni pensier s'affaccia una parola
Che gli spaventa: tradimento. Un'altra
Più saggia a questi udir farò: salvezza
Del regno; e nostri diverran: già il sono.
Altri, inconcussi in loro amor, da Carlo
Ormai nulla sperando...
 
 
 
 
390
 
 
 
 
SVARTO

                                     Ebben, prometti
Tutti guadagna.

395
GUNTIGI                           Inutil rischio ei fia.
Lascia perir chi vuol perir: senz'essi
Tutto compir si può.
 
 
SVARTO                                  Guntigi, ascolta.
Fedel del Re de' Franchi io qui favello
A un suo Fedel, ma Longobardo pure
A un Longobardo. I patti suoi, lo credo,
Carlo terrà; ma non è forse il meglio
Esser cinti d'amici? in una folla
Di salvati da noi?
 
 
400
 
 
 
GUNTIGI                             Fiducia, o Svarto,
Per fiducia ti rendo. Il dì che Carlo
Senza sospetto regnerà, che un brando
Non resterà che non gli sia devoto
Guardiamci da quel dì! Ma se gli sfugge
Un nemico, e respira, e questo novo
Regno minaccia non temer che sia
Posto in non cal chi glielo diede in mano.
 
405
 
 
 
 
410
SVARTO Saggio tu parli e schietto. — Odi: per noi
Sola via di salute era pur quella
Su cui corriamo, ma d'inciampi è sparsa
E d'insidie: il vedrai. Tristo a chi solo
Farla vorrà. — Poi che la sorte in questa
Ora solenne qui ci unì, ci elesse
All'opera compagni ed al periglio
Di questa notte, che obbliata mai
Da noi non fia, stringiamo un patto, ad ambo
Patto di vita. Sulla tua fortuna
Io di vegliar prometto; i tuoi nemici
Saranno i miei.
 
 
 
415
 
 
 
 
420
 
 
GUNTIGI

                          La tua parola, o Svarto,
Prendo, e la mia ti fermo.


SVARTO                                        In vita e in morte.
GUNTIGI

Pegno la destra.

(gli porge la destra: Svarto la stringe)

                           Al re de' Franchi, amico,
Reca l'omaggio mio.

 

 

425

SVARTO                                 Doman!
GUNTIGI

                                               Domani.
Amri!

(entra Amri)

             È sgombro lo spalto?


 

 

AMRI

                                             È sgombro; e tutto
Tace d'intorno.


GUNTIGI

(ad Amri, accennando Svarto)

                         Il riconduci.

SVARTO                                               Addio.

FINE DELL' ATTO QUARTO

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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 29 dicembre 1998