Niccolò Machiavelli

Clizia


 Atto quinto

Scena prima
Doria sola

Doria: Io non risi mai più tanto, né credo mai più ridere tanto; né, in casa nostra, questa notte si è fatto altro che ridere. Sofronia, Sostrata, Cleandro, Eustachio, ognuno ride. E si è consumata la notte in misurare el tempo, e dicevàno: "Ora entra in camera Nicomaco, or si spoglia, or si corica allato alla sposa, or le dà la battaglia, ora è combattuto gagliardamente". E, mentre noi stavamo in su questi pensieri, giunsono in casa Siro e Pirro, e ci raddoppiorno le risa; e, quel che era più bel vedere, era Pirro, che rideva più di Siro: tanto che io non credo che ad alcuno sia tocco, questo anno, ad avere il più bello, né il maggiore piacere. Quelle donne mi hanno mandata fuora, sendo già giorno, per vedere quel che fa il vecchio, e come egli comporta questa sciagura. Ma ecco fuora egli e Damone. Io mi voglio tirare da parte, per vedergli, ed avere materia di ridere di nuovo.


Scena seconda
Damone, Nicomaco, Doria

Damone: Che cosa è stata questa, tutta notte. Come è ella ita? Tu stai cheto. Che rovigliamenti di vestirsi, di aprire uscia, di scender e salire in sul letto sono stati questi, che mai vi siate fermi? Ed io, che nella camera terrena vi dormivo sotto, non ho mai potuto dormire; tanto che per dispetto mi levai, e truovoti, che tu esci fuori tutto turbato. Tu non parli? Tu mi par' morto. Che diavolo hai tu?
Nicomaco: Fratel mio, io non so dove io mi fugga, dove io mi nasconda, o dove io occulti la gran vergogna, nella quale io sono incorso. Io sono vituperato in eterno, non ho più rimedio, né potrò mai più innanzi a mogliama, a' figliuoli, a' parenti, a' servi capitare. Io ho cerco il vituperio mio, e la mia donna me lo ha aiutato a trovare: tanto che io sono spacciato; e tanto più mi duole, quanto di questo carico tu anche ne participi, perché ciascuno saprà che tu ci tenevi le mani.
Damone: Che cosa è stata? Hai tu rotto nulla?
Nicomaco: Che vuoi tu ch'io abbia rotto? che rotto avess'io el collo!
Damone: Che è stato, adunque? Perché non me lo di'?
Nicomaco: Uh! uh! uh! Io ho tanto dolore ch'io non credo poterlo dire.
Damone: Deh! tu mi pari un bambino! Che domine può egli essere?
Nicomaco: Tu sai l'ordine dato, ed io, secondo quell'ordine, entrai in camera, e chetamente mi spogliai; ed in cambio di Pirro, che sopra el lettuccio s'era posto a dormire, non vi essendo lume, allato alla sposa mi coricai.
Damone: Orbè, che fu poi?
Nicomaco: Uh! uh! uh! Accosta'migli. Secondo l'usanza de' nuovi mariti, vollile porre le mani sopra il petto, ed ella, con la sua, me le prese, e non mi lascio. Vollila baciare, ed ella con l'altra mano mi spinse el viso indrieto. Io me li volli gittare tutto addosso: ella mi porse un ginocchio, di qualità che la m'ha infranto una costola. Quando io viddi che la forza non bastava, io mi volsi a' prieghi, e con dolce parole ed amorevole, pur sottovoce, che la non mi cognoscessi, la pregavo fussi contenta fare e piacer' miei, dicendoli: "Deh! anima mia dolce, perché mi strazii tu? Deh! ben mio, perché non mi concedi tu volentieri quello, che l'altre donne a' loro mariti volentieri concedano?" Uh! uh! uh!
Damone: Rasciùgati un poco gli occhi.
Nicomaco: Io ho tanto dolore, ch'io non truovo luogo, né posso tenere le lacrime. Io potetti cicalare: mai fece segno di volerme, nonché altro, parlare. Ora, veduto questo, io mi volsi alle minacce, e cominciai a dirli villania, e che le farei, e che le direi. Ben sai che, ad un tratto, ella raccolse le gambe, e tirommi una coppia di calci, che, se la coperta del letto non mi teneva, io sbalzavo nel mezzo dello spazzo.
Damone: Può egli essere?
Nicomaco: E ben che può essere! Fatto questo, ella si volse bocconi, e stiacciossi col petto in su la coltrice, che tutte le manovelle dell'Opera non l'arebbono rivolta. Io, veduto che forza, preghi e minacci non mi valevano, per disperato le volsi le stiene, e deliberai di lasciarla stare, pensando che verso el dì la fussi per mutare proposito.
Damone: Oh, come facesti bene! Tu dovevi, el primo tratto, pigliar cotesto partito, e, chi non voleva te, non voler lui!
Nicomaco: Sta' saldo, la non è finita qui: or ne viene el bello. Stando così tutto smarrito, cominciai, fra per il dolore e per lo affanno avuto, un poco a sonniferare. Ben sai che, ad un tratto, io mi sento stoccheggiare un fianco, e darmi qua, sotto el codrione, cinque o sei colpi de' maladetti. Io, così, fra il sonno, vi corsi subito con la mano, e trovai una cosa soda ed acuta, di modo che, tutto spaventato, mi gittai fuora del letto, ricordandomi di quello pugnale, che Clizia aveva il dì preso, per darmi con esso. A questo romore, Pirro, che dormiva, si risentì; al quale io dissi, cacciato più dalla paura che dalla ragione, che corressi per uno lume, che costei era armata, per ammazzarci tutti a dua. Pirro corse, e, tornato con il lume, in scambio di Clizia vedemo Siro, mio famiglio, ritto sopra il letto, tutto ignudo che per dispregio (uh! uh! uh! ) e' mi faceva bocchi (uh! uh! uh!) e manichetto dietro.
Damone: Ah! ah! ah!
Nicomaco: Ah! Damone, tu te ne ridi?
Damone: E' m'incresce assai di questo caso; nondimeno egli è impossibile non ridere.
Doria: Io voglio andare a raguagliare di quello, che io ho udito, la padrona, acciò che se le raddoppino le risa.
Nicomaco: Questo è il mal mio, che toccherà a ridersene a ciascuno, ed a me a piagnerne! E Pirro e Siro, alla mia presenzia, or si dicevano villania, or ridevano; dipoi, così vestiti a bardosso, se n'andorno, e credo che sieno iti a trovare le donne, e tutti debbono ridere. E così ognuno rida, e Nicomaco pianga!
Damone: Io credo che tu creda che m'incresca di te e di me, che sono, per tuo amore, entrato in questo lecceto.
Nicomaco: Che mi consigli ch'io faccia? Non mi abbandonare, per lo amor d'Iddio!
Damone: A me pare, che se altro di meglio non nasce, che tu ti rimetta tutto nelle mani di Sofronia tua, e dicale che, da ora innanzi, e di Clizia e di te faccia ciò che la vuole. La doverrebbe anch'ella pensare all'onore tuo, perché, sendo suo marito, tu non puoi avere vergogna, che quella non ne participi. Ecco che la vien fuora. Va', parlale, ed io n'andrò intanto in piazza ed in mercato, ad ascoltare, s'io sento cosa alcuna di questo caso, e ti verrò ricoprendo el più ch'io potrò.
Nicomaco: Io te ne priego.


Scena terza
Sofronia, Nicomaco

Sofronia: Doria, mia serva, mi ha detto che Nicomaco è fuora, e che egli è una compassione a vederlo. Io vorrei parlargli, per vedere quel ch'e' dice a me di questo nuovo caso. Eccolo di qua. O Nicomaco!
Nicomaco: Che vuoi?
Sofronia: Dove va' tu sì a buon'ora? Esci tu di casa sanza fare motto alla sposa? Hai tu saputo, come lo abbia fatto questa notte con Pirro?
Nicomaco: Non so.
Sofronia: Chi lo sa, se tu non lo sai, che hai messo sottosopra Firenze, per fare questo parentado? Ora che gli è fatto, tu te ne mostri nuovo e malcontento!
Nicomaco: Deh, lasciami stare! Non mi straziare!
Sofronia: Tu, se' quello che mi strazii, che, dove tu dovresti racconsolarmi, io ho da racconsolare te; e, quando tu gli aresti a provedere, e' tocca a me, che vedi ch'io porto loro queste uova.
Nicomaco: Io crederrei che fussi bene che tu non volessi il giuoco di me affatto. Bastiti averlo avuto tutto questo anno, e ieri e stanotte più che mai.
Sofronia: Io non lo volli mai, el giuoco di te; ma tu, sei quello che lo hai voluto di tutti noi altri, ed alla fine di te medesimo! Come non ti vergognavi tu, ad avere allevata in casa tua una fanciulla con tanta onestade, ed in quel modo che si allevano le fanciulle da bene, di volerla maritare poi ad uno famiglio cattivo e disutile, perché fussi contento che tu ti giacessi con lei? Credevi tu però avere a fare con ciechi o con gente che non sapessi interrompere le disonestà di questi tuoi disegni? Io confesso avere condotti tutti quelli inganni, che ti sono stati fatti, perché, a volerti fare ravvedere, non ci era altro modo, se non giugnerti in sul furto, con tanti testimonii, che tu te ne vergognassi, e dipoi la vergogna ti facessi fare quello, che non ti arebbe potuto fare fare niuna altra cosa. Ora, la cosa è qui: se tu vorrai ritornare al segno, ed essere quel Nicomaco che tu eri da uno anno indrieto, tutti noi vi tornereno, e la cosa non si risaprà; e, quando la si risapessi, egli è usanza errare ed emendarsi.
Nicomaco: Sofronia mia, fa' ciò che tu vuoi: io sono parato a non uscire fuora de' tua ordini, pure che la cosa non si risappia.
Sofronia: Se tu vuoi fare cotesto, ogni cosa è acconcio.
Nicomaco: Clizia, dove è?
Sofronia: Manda'la, subito che si fu cenato iersera, vestita con panni di Siro, in uno monistero.
Nicomaco: Cleandro, che dice?
Sofronia: E' allegro che queste nozze sien guaste, ma egli è ben doloroso, che non vede come e' si possa avere Clizia.
Nicomaco: Io lascio avere ora a te il pensiero delle cose di Cleandro; nondimeno, se non si sa chi costei è, non mi parrebbe da dargliene.
Sofronia: E' non pare anche a me; ma conviene differire il maritarla, tanto che si sappia di costei qualcosa, o che gli sia uscita questa fantasia; ed intanto si farà annullare il parentado di Pirro.
Nicomaco: Governala come tu vuoi. Io voglio andare in casa a riposarmi, che per la mala notte, ch'io ho avuta, io non mi reggo ritto, ed anche perché io veggo Cleandro ed Eustachio uscir fuora, con i quali io non mi voglio abboccare. Parla con loro tu, di' la conclusione fatta da noi, e che basti loro avere vinto, e di questo caso più non me ne ragionino.


Scena quarta
Cleandro, Sofronia, Eustachio

Cleandro: Tu hai udito come el vecchio n'è ito chiuso in casa; e debbe averne tocco una rimesta da Sofronia. E' par tutto umile! Accostianci a lei, per intendere la cosa. Dio vi salvi, mia madre! Che dice Nicomaco?
Sofronia: E' tutto scorbacchiato, il povero uomo! Pargli essere vituperato; hammi dato il foglio bianco, e vuole ch'io governi per lo avvenire a mio senno ogni cosa.
Eustachio: E' l'andrà bene! Io doverrò avere Clizia!
Cleandro: Adagio un poco! E' non è boccone da te.
Eustachio: Oh, questa è bella! Ora, che io credetti avere vinto, ed io arò perduto, come Pirro?
Sofronia: Né tu, né Pirro l'avete avere, né tu, Cleandro, perché io voglio che la stia così.
Cleandro: Fate almeno che la torni a casa, acciò ch'io non sia privo di vederla.
Sofronia: La vi tornerà, e non vi tornerà, come mi parrà. Andianne noi a rassettare la casa; e tu, Cleandro, guarda, se tu vedi Damone, perché gli è bene parlargli, per rimanere come s'abbia a ricoprire il caso seguito.
Cleandro: Io sono mal contento.
Sofronia: Tu ti contenterai un'altra volta.


Scena quinta
Cleandro solo

Cleandro: Quando io credo essere navigato, e la Fortuna mi ripigne nel mezzo al mare e tra più turbide e tempestose onde! Io combattevo prima con lo amore di mio padre; ora combatto con la ambizione di mia madre. A quello io ebbi per aiuto lei, a questo sono solo: tanto che io veggo meno lume in questo, che io non vedevo in quello. Duolmi della mia male sorte, poiché io nacqui, per non avere mai bene e posso dire, da che questa fanciulla ci venne in casa, non avere cognosciuti altri diletti che di pensare a lei; dove sono sì radi stati e piaceri, che i giorni di quegli si annoverrebbono facilmente. Ma chi veggo io venire verso me? E' egli Damone? Egli è esso, ed è tutto allegro. Che ci è, Damone, che novelle portate? Donde viene tanta allegrezza?


Scena sesta
Damone, Cleandro

Damone: Né migliori novelle, né più felice, né che io portassi più volentieri potevo sentire!
Cleandro: Che cosa è?
Damone: Il padre di Clizia vostra è venuto in questa terra, e chiamasi Ramondo, ed è gentiluomo napolitano, ed è ricchissimo, ed è solamente venuto, per ritrovare questa sua figliuola.
Cleandro: Che ne sai tu?
Damone: Sòllo, ch'io gli ho parlato, ed ho inteso il tutto, e non c'è dubbio alcuno.
Cleandro: Come sta la cosa? Io impazzo per la allegrezza.
Damone: Io voglio che voi la intendiate da lui. Chiama fuora Nicomaco e Sofronia, tua madre.
Cleandro: Sofronia! o Nicomaco! Venite da basso a Damone.


Scena settima
Nicomaco, Damone, Sofronia, Ramondo

Nicomaco: Eccoci! Che buone novelle?
Damone: Dico che 'l padre di Clizia, chiamato Ramondo, gentiluomo napolitano, è in Firenze, per ritrovare quella, ed hogli parlato, e già l'ho disposto di darla per moglie a Cleandro, quando tu voglia.
Nicomaco: Quando e' fia cotesto, io sono contentissimo. Ma dove è egli?
Damone: Alla Corona, e gli ho detto ch'e' venga in qua. Eccolo che viene. Egli è quello che ha dirieto quelli servidori. Faccianceli incontro.
Nicomaco: Eccoci. Dio vi salvi, uomo da bene!
Damone: Ramondo, questo è Nicomaco, e questa è la sua donna, ed hanno con tanto onore allevato la figliuola tua; e questo è il loro figliuolo, e sarà tuo genero, quando ti piaccia.
Ramondo: Voi siate tutti e ben trovati! E ringrazio Iddio, che mi ha fatto tanta grazia, che, avanti ch'io muoia, rivegga la figliuola mia, e possa ristorare questi gentiluomini, che l'hanno onorata. Quanto al parentado, a me non può essere più grato, acciò che questa amicizia, fra noi per i meriti vostri cominciata, per il parentado si mantenga.
Damone: Andiamo dentro, dove da Ramondo tutto il caso intenderete appunto, e queste felice nozze ordinerete.
Sofronia: Andiamo. E voi, spettatori, ve ne potrete andare a casa, perché, sanza uscir più fuora, si ordineranno le nuove nozze, le quali fieno femmine, e non maschie, come quelle di Nicomaco.


Canzona

Voi che sì intente e quiete
anime belle, esemplo onesto, umile,
mastro saggio e gentile
di nostra umana vita udito avete,
e per lui conoscete
qual cosa schifar dièsi, e qual seguire
per salir dritti al cielo;
e sotto rado velo,
più altre assai ch'or fora lungo a dire,
deh, vi preghiam tal frutto appo voi sia,
qual merta tanta vostra cortesia


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