Lorenzo il Magnifico
La Nencia da Barberino
- Edizione Elettronica: Settembre 1996 a cura di Giuseppe Bonghi
- Revisione, Impaginazione, Edizione HTML: Giuseppe Bonghi, settembre 1996
- Tratto da: La Nencia da Barberino, A cura di Rossella Bessi, Salerno Editrice,
Roma
TESTO V
- Trascrizione esemplata sulla stampa conservata alla Universitätsbibliothek di Erlangen: La Nenciozza da Barberino, senza data, luogo e nome dello stampatore. L'unica copia conosciuta si trova presso la Biblioteca dell'Università di Erlangen. Probabilmente del XV secolo.
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Ardo
damore et conviemmi cantare per una dama che mi strugge il core, cognotta chi la sento ricordare el cor mi brilla et par che gli esca fore. Ella non truova de bellezze pare, cogli occhi gitta fiaccole damore; io sono stato in ciptà et castella et mai non vidi gnuna tanto bella. I sono stato a Empoli al mercato, a Prato, a Monticelli, a San Casciano, a Colle, a Poggibonzi, a San Donato, et quindamonte insino a Decomano; Feghine e Castelfranco &grave ricercato, San Piero, e l Borgo e Mangone e Gagliano: più bel mercato che nel mondo sia è Barberino, dovè la Nencia mia. Non vidi mai fanciulla tanto honesta, né tanto saviamente rilevata; non vidi mai la più leggiadra testa, né sì lucente, né sì ben quadrata; et ha du occhi che pare una festa, quandella gli alza ched ella ti guata; et in quel mezzo ha el naso tanto bello, che par proprio bucato col succhiello. Le labbra rosse paion de corallo, e havi drento duo filar de denti che son più bianchi che que del cavallo: et dogni·llato ve nà più di venti; le gote bianche paion di cristallo, senzaltri lisci, o <i>scorticamenti, et in quel mezzo, ellè comuna rosa, nel mondo non fu mai sí bella cosa. Ben si potrà tenere aventurato, chi fia marito de sí bella moglie; ben si potrà tenere im buon dí nato, chi arà quel fioraliso sanza foglie; ben se potrà tener sancto et beato, et fien contente tutte <le> sue voglie, dhaver la Nencia, et tenersela im braccio, morbida et bianca, che pare un sugnaccio. I tò aguagliata alla fata Morgana, che mena seco tanta baronia; i tasomiglio alla stella dïana, quando apparisce alla capanna mia; più chiara se che acqua di fontana, et se più dolce che la malvagí; quando ti sguardo da sera o mattina più bianca se che l fior della farina. Ellà du occhi tanto rubacuori, che·lla trafiggire con essi un muro; chiunche la vede convien che nnamori, e·llà il cor<e> più cun ciottol duro, et sempre à seco un migliaio damadori, che da quegli occhi tutti presi furo; ma ella guarda sempre questo et quello: per modo tal che mi strugge il cervello. La Nencia mia, che pare um perlino, ella ne va la mattina alla chiesa: e·llà la cotta pur di dommaschino et la gamurra di colore accesa, et lo scheggiale ha tutto doro fino; et poi si pone in terra, alla distesa, per esser lei veduta, et, bene adorna, quando ha udito messa, a casa torna. La Nencia a·ffar cavelle non ha pari: dandare al campo per durar fatica, guadagna a filatoio di buon danari, di tesser panni lini, Dio te l dica! Ciò che·lla vede convien che·lla impari, et di brigare in casa ella è amica; ed è più tenerella che un ghiaccio, morbida et bianca, che pare un migliaccio. La mà sí concio et in modo governato, che più non posso maneggiar marrone; et hammi drento sí aviluppato, chi non posso inghio<t>tir già più bo<c>cone; et son comun grat[r]iccio diventato, tanta pena mi dà, et passïone; et ho fatica un mondo, e pur soportole, ché mà legato con cento ritortole. I son sí pazzo della tua persona, che tutta nocte i vo traendo guai; pel parentado molto si ragiona, ognun dice: - Vallera, tu l'harai! -; pel vicinato molto si stanzona chi vo la nocte intorno a tuo pagliai et, si mi caccio a cantar a ricisa, tu se nel lecto, et scoppi dalle risa. [I] non ho potuto stanocte dormire, millanni mi parea che fussi giorno, sol per poter colle bestie venire, con esso teco, et col tuo viso adorno; et pur del lecto mi convien uscire, posami sotto il portico del forno, et livi stetti più duna hora et mezzo, finché·lla luna se ripose, al rezzo. La Nencia mia non ha gnun mancamento, è lunga et grossa et di bella misura, e·llà un buco ento nell mezzo del mento che rimbellisce tutta suo figura; e·llè ripiena dogni sentimento, credo che la formasse la natura, morbida et bianca, et tanto appariscente, che·lla trafigge il cuor a molta gente. I tò arecato u·mazzo di spruneggi con co<c>cole chi colsi avale avale i te gli donerei, ma tu grandeggi, et non rispondi mai né ben né male; stato mà detto che tu mi dileggi, et io ne vo pur oltra alla reale; quando ci paso, che sempre ti veggio, ognun mi dice come io ti vagheggio. Tutto dí, hieri taspettai al mulino sol per veder se passavi indiritta; le bestie son passate el poggiolino, vientene su, che tu mi par confitta! Noi ci staremo un pezzo a un caldino, hor chi mi sento la ventura ritta; noi ce nand[e]remo suso a le Poggiuole, e nsieme toccheremo le bestiuole. Quando ti vidi uscir della capanna, col cane in mano et colle pecorelle, el cor mi cre[b]be più duna spanna, le lagrime vennon pelle pelle; i maviai <in> giù con una canna, toccando e mie giovenchi e·lle vitelle; i me nandai in un burron quindentro i taspectavo, et tu tornasti dentro. Quando tu vai per lacqua collorcetto, un tracto venistu al pozzo mio! Noi ci daremo un pezzo di diletto, ché so che noi farem buon lavorío, et cento volte i sare benedetto, quando fussimo insieme al pozzo mio; et se tu de venir, ché non ti spacci, aval che ne viene il mosto e castagnacci? E fu dapril quando minnamorasti, quando ti vidi coglier la nsalata; io te ne chiesi, e tu mi rimbro<t>tasti, tanto che se nadette la brigata; i dissi bene allhora: - Ove nandasti? -, chio ti perdetti a manco dunocchiata; dallora inanzi i non fu ma più desso, per modo tale che mài messo nel cesso Nenciozza mia, chio me ne voglio andare, hor che·lle pecorelle voglion bere, a quella pozza, chio ti vo aspectare; et livi in terra mi porrò a·ssedere, tanto che te vi veggia valicare; voltolerommi um pezzo per piacere, aspecterotti tanto che tu venga, ma fa che a disagio non mi tenga. Nenciozza mia, chi vo sabato andare fine a Firenze, a vender duo somelle di schegge, chi mi puosi hieri a tagliare <in> mentre che pascevon le vitelle; procura ben si ti posso arecare, o se tu vuoi chi tarrechi covelle: o liscio o biacca dentro un cartoccino, o di spilletti o dàgora un quattrino. Ellè dirittamente ballerina, che·lla si lancia comuna capretta, et gira più che ruota di mulina, et dassi della man nella iscarpetta; quandella compie il ballo, ella sinchina, poi torna indrieto, e duo tratti scambie<t>ta, e·lla fa le più belle riverenze che gnuna ciptadina da F[a]irenze. Ché non mi chiedi qualche zaccherella, che so nadopri di cento ragioni? O uno intaglio per la tuo gonnella, o uncinegli, o magliette, o bottoni, o pel camici<o>tto una scarsella, o cintolin, per legar gli scuffoni, o vuoi, per amagliar la gamurrina, una cordella a seta celestrina. Se tu volessi per portare al collo un collarin di que bottoncin rossi, con un dondol nel mezzo, arecherollo: ma dimi se gli vuoi piccoli o grossi; et sio dovessi trargli del midollo del fusol della gamba o degli altrossi, et sio dovessi impegnar la gonnella, i te gli arrecherò, Nencia mia bella. Se mi dicessi, quando Sieve è grossa: - Gèttati dentro! -, i mi vi gitteria; et sio dovessi morir di percossa, el capo al muro per te batteria; comandami, se vuoi, cosa chi possa, et non ti peritar de facti mia; io so che molta gente timpromette: fanne la pruova dun paio di scarpette. Non ci passa nessun per la contrada che non dican: - Va giù, che·lla taspecta -; allor mi caccio giù per questa strada, mettendo e bisantin nella berretta, perchio so che·llè vaga chi vi vada; sempre la truovo che·lla si rasetta e dove ellè, che pure ella mi senta, duo fanfaluche da balcon maventa. Io mi sono aveduto, Nencia bella, chun altro ti vagheggia a mie dispe<t>to, et si dovessi trargli le budella, et poi gittarle tutte in sun uno tetto, tu sai chi porto allato la coltella, che taglia e pugne che pare un dile<c>to, che sio il trovassi nella mia capanna, io gliele caccerei più duna spanna. Più bella roba che·lla Nencia mia, né più dolciata non si troverrebbe: ellè grossecchia, tarchiata et giulía, frescozza, grassa, che·ssi fenderebbe, se non che·llà in un occhio ricadía (chi non la mira ben, non se lad[a]rebbe): ma col suo canto rifà ogni festa, et di menar la danza ell'è maestra. Ogni cosa so fare, o Nencia bella, pur che me l cacci nel buco del cuore: io mi so mettere et trarre la gonnella, et di porci [ne] son buon comperatore; sommi cignere allato la scarsella, et sopra tutto buon lavoratore; so maneggiar<e> la marra e l marrone, et suono la staffetta et lo sveglione. Tu se più bella che non è um papa, et se più bianca chuna madia vecchia; [et] piacimi più calle mosche la sapa, et più che fichi fiori alla forfecchia; tu se più bella che l fior della rapa, et se più dolce che l mel della pecchia; vorreti dare in una gota um bacio, che·è più saporita che un cacio. Io mi posi a·sseder lungo la gora, baciando in su quella herba voltoloni, et ivi stetti più duna mezzora, tanto che valicorono e castroni. Che·ffa tu, Nencia, che non vien fora? Vientene su per questi saliconi, chi metta le mie bestie fra le tua, che parremo uno, et pur saremo dua. Nenciozza mia, chi me ne voglio andare et rimenar le mie vitelle a casa; fatti con Dio, chio non posso più stare, chio mi sento chiamare a monna Masa; lascioti il cor, dé, no·mme lo tribbiare, fa pur buona misura et non sia rasa; fatti con Dio et con la buona sera, sieti raccomandato il tuo Vallera. - Nenciozza mia, vuo tu un poco fare meco alla neve per quel salicale? - - Sí, volentieri, ma non me la sodare troppo, che tu non mi facessi male - - Nenciozza mia, dé, non ti dubitare, ché lamor chio ti porto sí è tale, che quando avessi mal, Nenciozza mia, colla mia lingua te lo leveria -. - Andiam più qua, ché qui nè molta poca, dove non tocca il sol nel valloncello; rispondi tu, ché i ò la voce fioca, se fussimo chiamati dal castello - - Lievati il vel di capo, et meco gioca, chi vegga il tuo bel viso, tanto bello, al qual rispondon tutti li tui membri, sí che a unangiolecta tu massembri -. Cara Nenciozza mia, i aggio inteso un caprettin che bela molto forte; vientene giù, che·lupo sí là preso, et cogli denti gli darà la morte; fa che tu sia giù nel vallone sceso, dagli dun fuso nel cuor per tal sorte che tu luccida, che si dica scorto: «la Nencia el lupo col <suo> fuso ha morto» - I tò trovato al bosco una nidiata, in un certo cispuglio, duccellini; i te gli serbo, e sono una brigata, et mai vedesti e più be guascherini; doman tarecherò una schiacciata, ma per che non sadíen questi vicini, i farò vista, per pigliare scusa, venir sonando la mie cornamusa. Nenciozza mia, i non ti parre sgherro, se di seta io havessi un farsettino, et colle calze chiuse, si non erro, i ti parrei un grosso ciptadino; et non mi fo far sazzera col ferro, perchal barbier non do più dun soldino, ma se ne viene questaltra ricolta, io me la farò far più duna volta. A Dio, gigliozzo mio del viso adorno, io ve<g>go e buoi candre<b>bono a far danno, arecherotti un mazzo, quando torno, di fragole, sal bosco ne saranno; quando tu sentirai sonare el corno, vientene dove suoi venir questanno, appiè dellorto, in quella macchierella: arrecherocti un po di frassinella. I tho facta richiedere a tuo padre, Beco nà strascicato le parole, et è rimaso sol dalla tua madre, che mi par dica pur che·lla non vuole; ma io vi vo venir con tante squadre, che meco ti merrò, sia che <si> vuole; io lho più volte decto a·llei et Beco: diliberato ho acompagnarmi teco. Quando ti veggio fra una brigata, sempre convien che ntorno mi tagiri; <et> comio veggio chun altro ti guata, par proprio che del pecto il cor mi spiri; tu mi se sí nel cuore intraversata, chi rovescio ogni dí mille sospiri, et con sospiri, tutti lucciolando, et tutti ritti a te, Nencia, gli mando. Nenciozza mia, dé, vien meco a merenda, chi vo che·nnoi facciamo una nsalata, ma fa che·lla promessa tu mattenda, et che non se navvegga la brigata; non ò tolto arme con che ti difenda da quella trista Be[c]a sciagurata, et so che·llè cagion di questo male, che l diavol sí la possa scorticare; La Nencia mia, quandella va alla festa, ella sadorna che pare una perla, e·lla si liscia, imbiacca et rasetta, et porta bene in dito sette anella; e·llà dimolte gioie in una cassetta, sempre le porta sua persona bella; di perle di valuta porta assai, più belle, Nencia, non vidi già mai. Se tu sapessi, Nencia, il grande amore chi porto a tuo begli occhi stralucenti, le lagrime chi sento, e l gran dolore che par<e> che mi si svèglin tutti e denti, se tu il sapessi, e ti crepere il cuore, et lasceresti gli altri tuo serventi, et ameresti solo il tuo Vallera, che se colei che l mio cuor sí dispera. I ti vidi tornar, Nencia, dal sancto: eri sí> bella che tu mabagliasti; tu volesti saltare entro quel campo, et un tal micolino sdrucciolasti; io mi nascosi di presso, a un canto, e tu cosí pian pian ne soghimasti, et poi venni oltre, et non parve mie fa<t>to, et poi mi guatasti, et volgesti<ti> a un tracto. Nenciozza <mia>, tu mi fai strabigliare, quando ti veggio cosí colorita; stare un anno sanza manicare, sol per vederti sempre sí pulita; sio ti potessi allotta favellare, sarei contento sempre alle mie vita; se io ti toccassi un miccino la mano, mi parre<b>be esser papa a mano a mano. Ché non ti svegli et vienne allo balcone, Nencia? che non ti postu mai levare! Tu senti ben chi suono lo sveglione, tu te ne ridi et fami trabiliare; tu non se usa a star tanto in prigione, tu suo pur esser pazza del cantare; e n tutto dí non tò dato di cozzo, chi ti vorrei donare un berlingozzo! Or chi sarebbe quella sí crudele, che havendo un damerino sí d'assai non diventassi dolce come un mèle? Et tu mi mandi pur trahendo guai! Tu sai chio ti son suto sí fedele, meriterei portar corona et mai; dé, èssi um poco piacevole almeno, chi sono a·tte come la forca al fieno! Non è miglior maestra in questo mondo, che è la Nencia mia di far cappegli; e·lla gli fa con que bricioli intorno, chio non vidi già mai e più begli; et le vicine le stanno dintorno, et dí di feste vengon per vedegli; e·lla fa molti graticci et canestre, la Nencia mia è el fior delle maestre. I son di te più, Nencia, innamorato, che non è il farfallin della lucerna; et più ti vo cercando in ogni lato, più che non fa il moscione [al]la taverna; più tosto ti vorrei havere allato, che mai di nocte una accesa lucerna; hor, se tu mi vuo ben, horsù, fa tosto, hor che ne viene e castagnacci e l mosto. O povero Vallera sventurato, ben tài perduto il tempo et la fatica! Solevo dalla Nen[c]cia essere amato, et hor mè diventata gran nimica; et vo urlando come un disperato, et lo mio gran dolor convien chi dica: la Nencia mà condotto a ·ttale stremo, quando la ve<g>go, tutto quanto triemo. Nenciozza mia, tu mi fai consumare, et di stratiarmi ne pigli piacere; se sanza duol mi potessi sparare, mi spareria per darti a divedere si tò nel cuore, e pur tò a soportare; tel porrei in mano, et far<e>telo vedere; se·llo toccassi con tua mano snella e griderrebbe: - Nencia, Nencia bella! - Nenciozza mia, tu·tti fara con Dio, chio veggo le bestiuole presso a casa; io non vorrei per lo baloccar mio nessuna fusse in pastura rimasa; io veggo ben che·llàn passato el rio, e sentomi chiamar da mona Masa; fatti con Dio, candar me ne vo tosto, chi sento Nanni che vuol far del mosto. |
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 1998