Lorenzo il Magnifico
La Nencia da Barberino
- Edizione Elettronica: Settembre 1996 a cura di Giuseppe Bonghi
- Revisione, Impaginazione, Edizione HTML: Giuseppe Bonghi, settembre 1996
- Tratto da: La Nencia da Barberino, A cura di Rossella Bessi,
Salerno Editrice, Roma
TESTO P
Trascrizione esemplata sul codice PATETTA 375 della Biblioteca Apostolica Vaticana. FEDERICO PATETTA, Un terzo testo della Nencia da Barberino attribuita a Lorenzo de Medici, in «Rendiconti della Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche dell'Accademia dei Lincei», VI X 1934, pp 129-63.
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Ardo
damore et conviemmi cantare per la mie Nencia che mi strugge l cuore, che ognotta chi la sento ricordare el cuor mi brilla et par che gli esca fuore. Ella non truova di bellezza pare, cogli occhi gitta fiaccole damore; i sono stato in ciptà et in castella et mai ne vidi ignuna tanto bella. I sono stato a Empoli al mercato, a Prato, a Monticegli, a San Casciano, a Colle, a Poggibonzi, a San Donato, et quinnamonte infino a Dicomano; Figghine, Castelfranco &grave ricercato, SamPiero, e l Borgo, Mangona et Gagliano: più bel mercato che al mondo sia è Barberino, dovè la Nencia mia. O bel gigliozzo mie del viso adorno, i veggio e buoi chandrebbon a·ffar danno, arecherotti un mazzo, quando torno, di fragole, sal bosco ne saranno; et quando sentimi sonare il corno, vientene dove suoi venir laltranno, appiè dellorto, in quella macchierella: arrovvi forse un po di frassinella. Nenciozza mia, i vo sabbato andare [in]fino a Firenze, a vender duo somelle di schegge, chi mi posi ieri a tagliare in mentre che pascevon le vitelle; procura ben si ti posso arrecare, o se·ttu vuoi chi tarrechi cavelle: o liscio o biacca dentro n un cartoccino, o di spilletti o dàgora un quattrino. Ché non mi chiedi qualche zaccherella? che so nadopri di mille ragioni: o uno intaglio per la tuo gonnella, o uncinegli o magliette o bottoni, o pel camiciotto una scarsella, o cintoli, per legare li scuffoni, o vuo, per affibbiar la gamurrina, di seta una cordella celestrina. Ellè diritta mente ballerina: ella si lancia comuna capretta, et gira più che ruota di mulina, et dassi della man nella scarpetta; quandà compiuto il ballo, la sinchina, poi torna adrieto e duo tratti scambietta, et fa le più leggiadre riverenze che niuna ciptadina da Firenze. Quando <tu> vai per lacqua collorcetto, un tratto tu venissi al pozzo mio! Noi ci daremo un pezzo di diletto, et so che ne farei buon lavorío, che cento volte i sare benedetto quando fussimo nsieme al paglia mio; et se·ttu dei venire, or te ne spacci, or che ne viene il mosto e i castagnacci. I mi posi a giacer lungo la gora, abbioscio in su quellerba voltoloni, et quivi stetti più duna mezzora, tanto che valiconno i tuo castroni. Che fa tu, Nencia, che non vien fuora? Vientene giù per questi saliconi, metterò le mie bestie fra·lle tua, noi parremuno, et pur saremo dua. Non ci passa nessun per la contrada che non dica: - Va là, che·lla taspetta -; et io mi metto giù per questa strada, mettendo il bisantin nella berretta, perchi so che·llè vaga chi vi vada; e sempre truovo che·lla si rassetta se·llè in camera o n luogo mi senta, dua fanfaluche da balcon maventa. Se mi dicessi, quando Sieve è grossa: - Gettaviti dentro! -, i mi vi gitterei; se ben morissi di quella percossa, per lo tuo amor non me ne currei; comandami, se vuoi, cosa chi possa, per te il capo nel muro i batterei; i so che molta gente tel promette: ma fanne [la] pruova dun pa di scarpette. Se·ttu volessi per portar al collo un collarin di que bottoncin rossi, con un dondol nel mezzo, arrecherollo: ma dimmi se gli vuoi piccini o grossi; che si dovessi trargli del midollo del fuso della gamba o degli altrossi, et sio dovessi vender la gonnella, i te gli arrecherò, Nencia mie bella. I tò recato un mazzo di spruneggi con coccole chi colsi avale avale i te lo donerei, ma tu grandeggi, et non rispondi mai né ben né male; stato mà detto che·ttu mi dileggi, et io me ne vo oltre alla reale; et quando passo, che sempre ti veggio, ognun mi dice che i ti vagheggio. La Nencia mie non à gnun mancamento, lè bianca et rossa, di bella natura, e·llà un buco nel mezzo del mento che·llabellisce tutta suo figura; ellè ripiena dogni sentimento, credo cha pruova la fe la natura, morbida, bianca e tanto appariscente, che·lla trafigge l cuore a molta gente. Più bella roba che la Nencia mia, né più dolciata non si troverrebbe: ellè grossecchia, trecciuta et giulía, fresca, grassotta, che si fenderebbe, se non che·llà n un occhio ricadía (chi non la mira ben, non se nadrebbe): ed è più tenerella che unghiaccio, morbida, bianca che par un sugnaccio. Nenciozza mia, i me ne voglio andare, or che le pecorelle voglion bere, a quella pozza, chi ti vo aspettare; [et] voltoleromi um pezzo per piacere tanto che i ti veggia valicare; un pezzo insieme noi potrem godere, et i caverò fuori mie masserizia; ripollo presto se vuo mie amicizia. Ogni cosa so far, Nencia mie bella, pur chi mel cacci nel buco del cuore: mi so cavare et metter la gonnella, di porci i ne son buon comperatore; sommi cignere allato la scarsella, et sopra tutto buon logoratore; et so maneggiar marra et marrone, et suono la staffetta et lo sveglione. I non potetti stanotte dormire, millanni mi parea che fusse l giorno, sol per poter colle bestie venire, con esso teco, e col tuo viso adorno; et pur del letto mi convnne uscire, [et] posami sotto il portico del forno, et livi stetti più dunora et mezzo, finché la luna si fu posta, al rezzo. I son sí vago della tuo persona, che dí et notte [vi]vo traendo guai; per parentado molto si ragiona, ognun dice: - Vallera, tu·ll'arai! -; pel vicinato molto si tenciona chi vo la nocte intorno a tuo pagliai et sí·mmi metto a cantar a·rricisa, tu;·sse nel letto et scoppi delle risa. Tu;·sse più bella che non è un papa, et se più bianca che una madia vecchia; piacimi più challa mosca la sapa, et più che fichi fiori alla forfecchia; et se più bella che l fior della rapa, più dolce ancor che l mel che fa la pecchia; vorreti dare in una gota un bacio, che là più saporita che un cacio. Le labbra rosse paion di corallo, et àvi drento duo filar di denti, et son più bianchi che quel del cavallo: da ogni lato ve nà più di venti; le gote bianche paion di cristallo, senzaltri lisci, o iscorticamenti, et in quel mezzo ellè quantuna rosa, nel mondo non fu mai più bella cosa. Non vidi mai fanciulla tanto honesta, né tanto saviamente rilevata; non vidi mai la più bella testa, né sì lucente, né sì ben quadrata; con quelle ciglia, che paion una festa, quando ella l;·alza che ella ti guata; et in quel mezzo è l naso tanto bello, che par proprio bucato con succhiello. La Nencia mia può andare al paragone fra un migliaio di belle ciptadine, et comparisce ben fra·lle persone co suo be modi e dolci paroline; gli occhi suoi neri quantun carbone di sotto alle suo belle treccelline, et nelle vette de biondi capegli vi paiano attaccati cento anegli. Ellà du occhi tanto rubacuori, che·lla divegliere con essi un muro; et sempre à seco un miglia damadori, et à il suo cuor<e> più cun ciottol duro, et sempre mai, quando ella va fuori, col suo guatar ella mi fa sicuro; et sempre mai la guata questo et quello: per modo tal chi ò volto il cervello. [El]la mà sí fatto modo governato, che io non posso trassinar marrone; et àmmi drento al cuor raviluppato, che io non posso tranghiottir boccone; et non ò ancor sí tosto manicato, chi vo veder quegli occhi dun falcone, et rallegrami tutto il suo splendore, che mi lieva la pena chò nel cuore. La Nencia a·ffar covelle non à pari: dandar al campo per durar fatica, guadagna a filato di buon danari, et di brigare in casa ellè amica; Ciò che la vede convien che·lla impari, di tesser panno lino, Iddie tel dica! Ed è più rilucente che il sole, e mpara molto ben ciò che la vuole. La Nencia mia, che mi par un perlino, ella ne va la mattina alla chiesa: e·llà la cotta pur di domaschino una gamurra di colore accesa, uno scheggiale in esso doro fino; sempre si pon nel mezzo della chiesa, per esser ben veduta ben adorna; quandà udito messa, a casa torna. Nenciozza mie, dé! vien meco a merenda, chi vo che noi facciamo una nsalata, ma fa che la promessa tu attenda, et che non se ne avegga la brigata; non ò or arme chio mi difenda et beggo venir [di] qua una brigata, entrami in casa, e io ti serreròe, et poi questa brigata assalterò. Quando ti veggio fra una brigata, sempre convien che ntorno mi taggiri; et come i veggio che un altro ti guata, par proprio che del petto il cuor mi spiri; tu mi se sí nel cuore intraversata, chi rovescio ognindí mille sospiri, con singhiozzi tutti gocciolando, e tutti ritti a te, Nencia, gli mando. La Nencia mia, quando la va alla festa, ella saddorna che par una perla, e·lla si liscia e mbiacca et sí·ssassetta, et porta bene in dito sette anella; ellà ben sette gioie di cassetta, sempre le porta suo persona bella; di perle di valuta porta assai, più bella, Nencia, <non> vidi giamai. Se· sapessi, Nencia, il grandamore chi porto a tuo begli occhi stralucenti, le lagrime chi sento, e l gran dolore che par<e> che mi si svèglin tutti e denti, se·ttu l sapessi, ti creperrebbe il cuore, et lasceresti gli altri tuo serventi, et ameresti solo il tuo Vallera, che·sse colei che l mie cuor desidèra. Non ti ricorda, Nencia zuccherosa, quando ballai con teco a quella festa? Non ti parvio un fante da qualcosa, quando trebbiavo su per quella pesta? [et] tu mi guatasti tutta sogghignosa, quandio aventa via quella balestra, et venniti a nvitar dïatamente, e tu uscisti fuor fra quella gente. O povero Vallera isventurato, ben tài perduto il tempo e·lla fatica! Solevo dalla Nencia esser amato, ella mè diventata gran nimica; et vonne urlando comn disperato, et qui mie gran dolor convien chi dica: la Nencia mà condotto a ·ttal istremo, quando la veggo, tutto quanto triemo. Ben si potrà tenere aventurato, chi fia marito de sí bella moglie; ben si potrà tenere in buon dí nato, chi arà quel fioraliso sanza foglie; ben se potrà tener sancto et beato, et fien compiute tutte le suo voglie, daver quel viso, et tenerselo in braccio, morbido et bianco che par un sugnaccio. Nenciozza [mia], i son più di te innamorato, che non è il farfallon della lucerna; et [più] ti vengo a veder in ogni lato, più che non fa il moscione [al]la taverna; più tosto ti vorrei aver allato, chaver di notte una accesa lucerna; se#183;ttu mi vuo pur ben, chè non ti spacci, or che ne viene il mosto e i castagnacci? Nencia mia, tu mi fa pur consumare, et par che tu ne pigli gran piacere; se sanza duol mi potessi sparare, mi sparerei per darti a divedere chi tò nel cuore, et faretelo toccare; [i] tel darei in mano, et faretelo vedere, se·ttu l toccassi con tuo mano snella e griderrebbe: - Nencia, Nencia bella! - La mà sí concio e n modo governato, che io non posso brancicarar marrone; et àmmi drento sí raviluppato, che io non posso tranghiottir boccone; et son comun graticcio diventato, et solamente per le passïone; chi ò per lei nel cuore (et pur sopportole!) la mà legato con cento ritortole. Ché non ti svegli et vienne allo balcone, Nencia?, che non ti postu ma levare! Tu senti ben chi suono lo sveglione, tu te ne ridi et fami liverare; non tincrescegli [di] star tantim prigione? tu suo pur esser pazza del cantare; e n tutto dí non tò dato di cozzo, chi ti vole donare un berlingozzo! Nenciozza mia, tu ti farai con Dio, chi veggo le bestiuole presso a casa; i non vorrei pel baloccar mio ne fusse niuna in pastura rimasa; i veggio già che son passate il rio, e sentomi chiamar da mona Masa; fatti con Dio, chi me ne vo andar tosto, chi sento Nanni che vuol far l mosto. Nenciozza mia, i me ne voglio andare a·rrimenar le mie vitelle a casa; fatti con Dio, chi non posso più stare, chi mi sento chiamar da monna Masa; lascioti il cuore, et non me lo trebbiare, et ancor una salute mè rimasa: fatti con Dio et con la buona sera, sieti raccomandato il tuo Vallera. |
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 1998