Lorenzo il Magnifico
Canti carnascialeschi
Edizione Elettronica: Settembre 1996 a cura di Giuseppe Bonghi
Revisione, Impaginazione, Edizione HTML: Giuseppe Bonghi, settembre 1996
Tratto da: Lorenzo il Magnifico, Poesie, Introduzione e note di Federico
Sanguineti, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano1992
ISBN 88-17-16842-4
I | |
CANZONA DE CONFORTINI | |
Berricuocoli,
donne, e confortini! se ne volete, i nostri son de fini. Non bisogna insegnar come si fanno, chè tempo perso, e l tempo è pur gran danno; e chi lo perde, come molte fanno, convien che facci poi de pentolini. Quando gli è l tempo vostro, fate fatti, e non pensate a impedimenti o imbratti: chi non ha il modo, dal vicin laccatti; e preston lun allaltro i buon vicini. Il far questarte è cosa da garzoni: basta che i nostri confortin son buoni. Non aspettate chaltri ve li doni: convien giucare e spender bei quattrini. No abbiam carte, e fassi «alla bassetta», e convien che lun lalzi e laltro metta; e poi di qua e di là spesso si getta le carte; e tira a te, se tu indovini. O a «sanzuomo», o «sotto» o «sopra» chiedi, e ti struggi dal capo infino ai piedi, infin che viene; e, quando vien poi, vedi stran visi, e mugolar come mucini. Chi si truova al di sotto, allor si cruccia, scontorcesi e fa viso di bertuccia, ché l suo ne va; straluna gli occhi e succia, e piangon anche i miseri meschini. Chi vince, per dolcezza si gavazza, dileggia e ghigna, e tutto si diguazza; credere alla Fortuna è cosa pazza: aspetta pur che poi si pieghi e chini. Questa «bassetta» è spacciativo giuoco, e ritto ritto fassi, e in ogni loco; e solo ha questo mal, che dura poco; ma spesso bea chi ha bicchier piccini. Il «flusso» cè, chè giuoco maladetto: ma chi volessi pure uscirne netto, metta pian piano, e inviti poco e stretto; ma lo fanno oggi infino a contadini. Chi mette tutto il suo in un invito, se vien «flusso», si truova a mal partito; se lo vedessi, e pare un uom ferito: che maladetto sie Sforzo Bettini! «Trai» è mal giuoco, e l «pizzico» si suole usare, e la «diritta» a nessun duole: chi ha le carte in man, fa quel che vuole, sè ben fornito di grossi e fiorini. Se volete giucar, come abbiam mòstro, noi siam contenti metter tutto il nostro in una posta: or qui per mezzo il vostro, sino alle casse, non che i confortini. |
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II | |
CANZONA DE PROFUMI | |
Siam galanti
di Valenza qui per passo capitati, damor già presi e legati delle donne di Fiorenza. Molto son gentili e belle donne nella terra nostra: voi vincete dassai quelle, come il viso di fuor mostra; questa gran bellezza vostra con amore accompagnate; se non siete innamorate, e saria meglio esser senza. Quanto è una buona spanna vaselletti lunghi abbiamo; se dicessi: - Altri vinganna - noi ve li porremo in mano: ritti al luogo li mettiamo; nella punta acceso è il foco, onde sparge a poco a poco dolce odor, che ha gran potenza. Or dellolio vogliam dire: ha odore e virtù tanta, che fa altri risentire dal capo insino alla pianta. Lolio è una cosa santa, sè stillato in buona boccia: esce fuori a goccia a goccia; se più pena, ha più potenza. Lolio sana ogni dolore e risolve ogni durezza; tira a sé tutto lumore, trae del membro la caldezza, penetrando la dolcezza quanto più forte stropicci: se hai triemiti o capricci, usa lolio e sarai senza. Noi abbiamo un buon sapone, che fa saponata assai: frega un pezzo, ove si pone: se più meni, più narai. Èvvegli accaduto mai, donne, aver lanella strette? Col sapon, che cava e mette, cuoce un poco: pazïenza! Donne, ciò che abbiamo è vostro. Se damor voi siate accese, metterem lolio di nostro, ungeremo a nostre spese; abbiam olio del paese, gelsi, aranci e mongiuï: se vi piace, proviam qui: fate questa esperïenza. |
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III | |
CANZONA DE CIALDONI | |
Giovani siam,
maestri molto buoni, donne, come udirete, a far cialdoni. In questo carnascial siamo svïati dalla bottega, anzi fummo cacciati: non eron prima fatti che mangiati da noi, che ghiotti siam, tutti cialdoni. Cerchiamo avviamento, donne, tale, che ci passiamo in questo carnasciale; ma sanza donne inver si può far male: e insegnerenvi come si fan buoni. Metti nel vaso acqua, e farina drento quanto ve nentra, e mena a compimento: quandhai menato, e vien come un unguento, unacqua quasi par di maccheroni. Chi non vuole al menar presto esser stanco, meni col dritto e non col braccio manco; poi vi si getta quel chè dolce e bianco zucchero; e fa il menar non abbandoni. Conviene, in quel menar, cura ben aggia, per menar forte, che di fuor non caggia, fatto lintriso, poi col dito assaggia: se ti par buon, le forme a fuoco poni. Scaldale bene, e, se sia forma nuova, il fare adagio ed ugner molto giova; e mettivene poco prima, e pruova come rïesce, e se li getta buoni. Ma, se la forma sia usata e vecchia, quanto tu vuoi, per metterne, apparecchia, perché ne può ricevere una secchia; e da Bologna i romaiuol son buoni. Quando lintriso nelle forme metti e senti frigger, tieni i ferri stretti, mena le forme, e scuoti acciò sassetti, volgi sozzopra, e fien ben cotti e buoni. Il troppo intriso fuori spesso avanza, esce pe fessi, ma questo è usanza: quando ti par che sia fatto abbastanza, apri le forme e cavane i cialdoni. Nello star troppo scema, non già cresce: se son ben unte, da sé quasi nesce, e l ripiegarlo allor facile rïesce caldo, e in un panno bianco lo riponi. Piglia le grattapugie od un pannuccio ruvido, e netta bene ogni cantuccio; la forma è quasi una bocca di luccio; tien ne fessi lo intriso che vi poni. Esser vuole il cialdone un terzo o piùe grosso, a ragione aver le parti sue: ed a farli esser vogliono almen due, lun tenga, laltro metta; e fansi buoni. Se son ben cotti, coloriti e rossi, son belli, e quanto un vuol mangiarne puossi; perché, se paion ben vegnenti e grossi, strignendo e son pur piccioli bocconi. Donne, terrete voi e noi mettiamo; se noi mettessin troppo forte o piano, pigliate voi il romaiuolo in mano: mettete voi, purché facciam de buoni. |
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IV | |
CANZONA DEGLINNESTATORI | |
Donne, noi
siam maestri dinnestare; in ogni modo lo sappiam ben fare. Se volete imparar questa nostrarte, noi ve la mostreremo a parte a parte, e non bisogna molti studi o carte: le cose naturali ognun sa fare. Larbor che innesti fa sia giovinetto, tenero, lungo, sanza nodi, schietto; dilicato di buccia, bello e netto, quando comincia a muovere e gittare. Segalo poi e fa pel mezzo un fesso: la marza in ordin sia un terzo o presso; stretto quanto tu pòi ve lo arai messo, purché la buccia non facci scoppiare. Così quanto si può dentro si pigne, con un buon salcio poi si lega e cigne, e luna buccia con laltra si strigne, così gli umor si posson mescolare. Sanza fender ancor fassi e sappicca: con man la buccia gentilmente spicca senza intaccarla, e poi la marza ficca; tra buccia e buccia strigni e lascia fare. Per quando piove molto ben si fascia; così fasciato, qualche dì si lascia: chi lo sfasciassi allora e non cè grascia, che non facessi la marza sdegnare. Chi vuol buon olio ancor gli ulivi innesti; e mele e fichi fansi grossi e presti: veggo che l modo intender voi vorresti; ma voi il sapete, e fateci parlare. Di questo modo si fa grande stima: togli un tondo cotal forato in cima, un ferro da stampare, e spicca prima la buccia intorno dove locchio appare. Spicco quellocchio e presto lo conduco, ovio ho preparato prima un buco, che men dun grosso un po la buccia sdruco; mettivel drento: e suol rammarginare. Convien con diligenzia ivi si metta: guasta ogni cosa spesso chi fa in fretta; rïesce meglio chi l suo tempo aspetta; quando gli è in succhio e dolce, è miglior fare. Noi crediamo oramai che voi sappiate linnestare a bucciuolo e quel del frate, che ne fa tutto lanno verno e state: puossi ogni pianta, e pèsche anche innestare. Larbor, chè prima salvatico e strano, innestandol si fa di mano in mano più bello e più gentil, né viene invano, ma vedete be frutti che suol fare. Donne, noi vinvitiamo a innestar tutte, se non piove e se van le cose asciutte; e, se volete pèsche od altre frutte, noi siamo in punto e ve ne possiam dare. |
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V | |
CANZONA DELLO ZIBETTO | |
Donne,
questè un animal perfetto a molte cose, e chiamasi l zibetto, E vien da lungi, dun paese strano; sta dovè gemizion over pantano, in luoghi bassi, e chi l tocca con mano, rade volte ne suole uscir poi netto. Carne sanzosso sol gli paion buone, ma vuolne spesso, e, se può, gran boccone; poi duo dita di sotto al codrïone, come udirete, si cava il zibetto. Hassi una tenta, chè un terzo lunga, spuntata acciò che drento non lo punga. caccisi drento, e convien tutta sunga, o donne: e vi parrà dolce diletto. Così si cava quel dolce licore; ed ècci a chi non piace quellodore: egli è pur buon, ma il troppo fa fetore di qualche tanfo a chi lo tien mal netto. Bisogna al metter drento ben guardare; il luogo ovè l zibetto non scambiare, ché si potria daltra cosa imbrattare la tenta, e fassi male al poveretto. Chi non ha tenta pigli altro partito; truova stran modi, o almeno fa col dito, e poi lo dànno a fiutare al marito, se non ha tenta o vien da lui il difetto. È certe volte a trar pericoloso, perché gli ha il tempo suo, e vuol riposo tre giorni o quattro; pure un voglioloso non guarda a quello e trae un stran brodetto. La virtù del zibetto, o donne, è questa mettivi il naso, scarica la testa; della donna del corpo ogni mal resta, e non cè meglio a chi ha tal difetto. Chi avessi durezza nelle rene, la punta della tenta ugnerai bene; metti ovè il male, e subito ne viene fuor la caldezza, ed hanne gran diletto. Di fare ingravidare ha gran virtùe; molte altre ancor, ma non ne direm piùe; forse abbiam detto troppo; donne, or sùe, provate segli è ver quel che abbiam detto. Se ne volete, noi ne vogliam vendere; del più vivo che avete convien spendere; non state dure; e vi bisogna arrendere, e menar a volerne un bossoletto. |
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VI | |
CANZONA DELLE FORESTE | |
Lasse, in
questo carnasciale noi abbiam, donne, smarriti tutta sei nostri mariti; e sanzessi stiam pur male. Di Narcetri noi siam tutte, nostrarte è lesser forese; noi cogliemo certe frutte belle come dà il paese; se cè alcuna sì cortese, cinsegni i mariti nostri; questi frutti saran vostri, che son dolci e non fan male. Cetrïuoli abbiamo e grossi, di fuor pur ronchiosi e strani; paion quasi pien di cossi, poi sono apritivi e strani; e si piglion con duo mani: di fuor lieva un po di buccia, apri ben la bocca e succia; chi savezza, e non fa male. Mellon cè cogli altri insieme quanto è una zucca grossa; noi serbiam questi per seme, perché assai nascer ne possa. Fassi lor la lingua rossa, lalie e piè: e pare un drago a vederlo e fiero e vago; fa paura, non fa male. Noi abbiam con noi baccelli lunghi e teneri da ghiotti; ed abbiamo ancor di quelli duri e grossi: e son buon cotti e da far de sermagotti; se la coda in man tu tieni, su e giù quel guscio meni, e minaccia e non fa male. Queste frutte oggi è usanza che si mangin drieto a cena: a noi pare unignoranza; a smaltirle è poi la pena: quando la natura è piena, de bastar: pur fate voi dellusarle innanzi o poi; ma dinanzi non fan male. Queste frutte, come sono, se i mariti cinsegnate, noi ve ne faremo un dono: noi siam pur di verde etate; se lor fien persone ingrate, troverrem qualche altro modo, che l poder non resti sodo: noi vogliam far carnasciale. |
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VII | |
CANZONA DI BACCO | |
Quantè
bella giovinezza, che si fugge tuttavia! chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Questè Bacco ed Arïanna, belli, e lun de laltro ardenti: perché l tempo fugge e inganna, sempre insieme stan contenti. Queste ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Questi lieti satiretti, delle ninfe innamorati, per caverne e per boschetti han lor posto cento agguati; or da Bacco riscaldati ballon, salton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia di doman non cè certezza. Queste ninfe hanno anco caro da lor essere ingannate: non può fare a Amor riparo, se non gente rozze e ingrate: ora insieme mescolate suonon salton tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Questa soma, che vien drieto sopra lasino, è Sileno: così vecchio è ebbro e lieto, già di carne e danni pieno; se non può star ritto, almeno ride e gode tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Mida vien dopo a costoro: ciò che tocca, oro diventa. E che giova aver tesoro, saltro poi non si contenta? Che dolcezza vuoi che senta chi ha sete tuttavia? Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Ciascun apra ben gli orecchi, di doman nessun si paschi; oggi siàn, giovani e vecchi, lieti ognun, femmine e maschi; ogni tristo pensier caschi: facciam festa tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza. Donne e giovinetti amanti, viva Bacco e viva Amore! Ciascun suoni, balli e canti! Arda di dolcezza il core! Non fatica, non dolore! Ciò cha esser convien sia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non cè certezza |
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VIII | |
CANZONA DE SETTE PIANETI | |
Sette pianeti
siam, che lalte sede lasciam per far del cielo in terra fede. Da noi son tutti i beni e tutti i mali, quel che vaffligge miseri, e vi giova; ciò chagli uomini avviene, agli animali e piante e pietre, convien da noi muova: sforziam chi tenta contro a noi far pruova; conduciam dolcemente chi ci crede. Maninconici, miseri e sottili; ricchi, onorati, buon prelati e gravi; sùbiti, impazïenti, fèr, virili; pomposi re, musici illustri, e savi; astuti parlator, bugiardi e pravi; ogni vil opra alfin da noi procede. Venere grazïosa, chiara e bella muove nel core amore e gentilezza: chi tocca il foco della dolce stella, convien sempre arda dellaltrui bellezza: fère, uccelli e pesci hanno dolcezza: per questa il mondo rinnovar si vede. Orsù! seguiam questa stella benigna, o donne vaghe, o giovinetti adorni: tutti vi chiama la bella Ciprigna a spender lietamente i vostri giorni, senzaspettar che l dolce tempo torni, ché, come fugge un tratto, mai non riede. Il dolce tempo ancor tutti cinvita lasciare i pensier tristi e van dolori: mentre che dura questa brieve vita, ciascun sallegri, ciascun sinnamori. Contentisi chi può: ricchezze e onori per chi non si contenta, invan si chiede. |
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IX | |
CANZONA DELLE CICALE | |
Le FANCIULLE incominciano Donne, siam, come vedete, Le CICALE rispondono: Quel chè la Natura nostra, Le FANCIULLE rispondono: Or che val nostra bellezza, |
5 10 15 20 25 30 |
X | |
CANZONA DE VISI ADDRIETO | |
Le cose al
contrario vanno tutte, pensa a ciò che vuoi: come il gambero andiam noi, per far come laltre fanno. E bisogna oggi portare gli occhi drieto e non davanti; né così possi un guardare: traditor siam tutti quanti; tristo a chi crede a sembianti, ché riceve spesso inganno. Però noi facciamo scusa di questo nostro ire addrieto: e sintende, oggi ognun lusa: questo è il modo consüeto chi lo fa, dunque, stia cheto; noi sentiam che tutti il fanno. Crediam questo me rïesca, poi chognun dà di drieto oggi; se riceve qualche pèsca vede e pensa ove sappoggi, con man tocca, pria challoggi, poi non ha vergogna o danno. Chi non porta drieto gli occhi, per voltarsi indrieto incorda; di gran colpi convien tocchi, per vergogna fa la sorda; drieto al fatto si ricorda, quando sente il mal che fanno. Non pigliate maraviglia, se le donne ancor fan questo; ciascun oggi sassottiglia, ogni mese è lor bisesto: lun soccorre allaltro presto, e così tutte vi vanno. |
5 10 15 20 25 30 |
XI | |
CANZONA DE FORNAI | |
O donne, noi
siam giovani fornai, dellarte nostra buon maestri assai. Noi facciam berlingozzi e zuccherini, cociamo ancor certi calicioncini: abbiam de grandi, e paionvi piccini, di fuor pastosi e drento dolci assai. Facciamo ancor bracciatelli ed i gnocchi, non grati agli occhi, anzi pien di bernocchi: paion duri di fuor, quando li tocchi; ma drento poi rïescon meglio assai. Se ci è alcuna a chi la fava piaccia, la meglio infranta abbiam che ci si faccia, con un pestel che insino a gusci schiaccia, ma a menar forte ellesce de mortai. Noi sappiamo ancor fare il pan buffetto, più bianco che non è l vostro ciuffetto; direnvi il modo che nabbiam diletto; pensar, dir, far non vorremaltro mai. Convien farina aver di gran calvello, poi menar tanto il staccio o burattello, che nesca il fiore: e lacqua calda e quello mescola insieme, e tutto intriderai. Or qui bisogna aver poi buona stiena: la pasta è fine quanto più si mena; se sudi qualche goccia per la pena, rimena pur insin che fatto lhai. Fatto il pan si vuol porre a lievitare; in qualche loco caldo vorria stare; sopra un letto puossi assai ben fare; che in ordine sia bene aspetterai. Intanto l forno è caldo e tu lo spazzi: lo spazzatoio in qua e in là diguazzi, se vi resta di cener certi sprazzi; non lha mai netto ben chi cuoce assai. Sente il pan drento quel calduccio e cresce, rigonfia, e lacqua a poco a poco nesce; entravi grave e soffice rïesce; dun pane allor quasi un boccon farai. Per cuocere un arrosto ed un pastello, allato al forno grande è un fornello, e tutta dua han quasi uno sportello, ma non lo sanno usar tutti i fornai. O belle donne, questa è larte nostra; se voi volessi per la bocca vostra qualche cosetta, questa sia la mostra: al paragon noi starem sempre mai. |
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©1996 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi @mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 10 febbraio 1998