RUTGERS UNIVERSITY, NJ, USA DEPARTMENT OF ITALIAN
per gentile concessione dell'autore

Nicola Trunfio

La prova del fuoco

Introduzione alla Vita di Vittorio Alfieri

Già era dritta in su la fiamma e queta
Per non dir più, e già da noi sen gia
Con la licenza del dolce poeta,
Quand’un altra, che dietro a lei venia
Ne fece volger li occhi a la sua cima
Per un confuso suon che fuor n’uscia
                   Dante, Inf. XXVII vv. 1-6

 

         Leggendo le autobiografie dei grandi uomini, siano stati essi letterati, avventurieri o altro, si percepisce sempre, alla fine, un’impressione di completezza, tanto che esse potrebbero esser lette al contrario fino a scoprire, nella descrizione della fanciullezza e dell’infanzia, i primi segni della futura grandezza.
         Si tratta di “semi” e indizi che non avrebbero alcun senso e che non potrebbero essere interpretati come tali nel racconto della vita di un uomo comune. Questi segni acquistano un senso, invece, nelle autobiografie dei grandi uomini, pressocchè immediatamente agli occhi del lettore, benchè egli sia ancora all’oscuro del prosieguo della narrazione.
         Ogni lettura di un’autobiografia è, in questo senso, una lettura al contrario. Ogni lettore, davanti ad un’autobiografia, prima ancora di aprire il libro, possiede già un’informazione fondamentale: si tratta del racconto di una vita non comune. Il solo dato che sia stata ritenuta degna di esser scritta lo informa di ciò. In virtù di questa sola pre-informazione, scaturisce automaticamente un atteggiamneto di premonizione del lettore nei confronti di una serie di particolari, apparentemente trascurabili e banali, che si pongono invece come elementi anaforici e pre-rivelatori dei contenuti futuri. Ecco perchè leggere per la prima volta un’autobiografia equivale, in un certo modo, a leggere per la seconda volta un testo narrativo, con la possibilità di indugiare e riflettere sui punti cruciali, sugli indizi e su tutte le svolte o scelte della narrazione.
         Perchè?
         Io credo che il lettore di un’autobiografia non sia semplice lettore ma, in un certo senso "rilettore" di una prima lettura della sua vita già sempre effettuata dall’autore “prelettore” durante la scrittura della stessa.1
         In poche autobiografie come in quella di Vittorio Alfieri le tracce di questa prima “lettura in corso d’opera” da parte dell’autore sono individuabili e riscontrabili. Le orme della prima lettura dell’autore, che include nella narrazione alcuni episodi marginali anzichè altri e che, alcune volte, li concepisce e li interpreta esplicitamente come pre-rivelatori di un modo d’essere e di azioni future, sono, nelle epoche della giovinezza alfieriana, veramente evidenti ed inconfutabili. Più rare nelle epoche della maturità, perchè la prospettiva del narratore (pre-lettore) si avvicina sempre di più a quella del personaggio protagonista.
         Una volta, nelle prime pagine della sua vita, Alfieri scrive che “L’uomo è una continuazione del bambino”2 ed un’altra volta che: ”l’adolescenza è un’età funesta per la profondità delle ricevute impressioni”.
         Tutta la vita dell’Alfieri è costellata di piccoli episodi emblematici sui quali, il filtro della memoria, ha già effettuato una prima “scrematura”. Risulta, pertanto, più semplice per il lettore isolare quelli chiave per la comprensione del suo carattere e della sua personalità, ma è stato detto, anche dei primi germogli di una sensibilità nuova3.
         Alfieri concepisce la sua Vita come un’opera chiusa e circolare, nei suoi meccanismi funzionale e completa come un’opera drammatica, la più importante delle sue opere drammatiche, quella in cui autore biografico, autore implicito, protagonista e narratore sono la stessa persona.
         L’autore, inoltre, si è accenntato, nel momento in cui si fa narratore diviene anche pre- e primo lettore della sua opera in fieri.
         Siamo di fronte ad un’opera autodiegetica, intensa, al tempo stesso, con un numero ridotto di personaggi, proprio come accade nelle tragedie alfieriane, che hanno ragione di esistere solo in ragione del protagonista.
         Le altre sono tutte comparse.
         Comparse sono nella vita di Alfieri molti dei personaggi più illustri della sua epoca, i sovrani di mezza Europa, il suo stesso Re, il fior fiore dell’intellighenzia italiana, da Metastasio a Pindemonte, passando per il Cesarotti.
         Chi pretendesse di misurare storicamente quell’epoca dalla Vita di Alfieri, avrebbe sbagliato il suo metro. La Vita dll’Alfieri è, infatti, solo misura di un animo che precorre una sensibilità nuova; è cammino della memoria di un uomo maturo che indaga solo su se stesso, sulle radici remote del suo bizzarro carattere e della sua turbolenta natura.
         In questo senso si tratta dell’unica autobiografia moderna nel folto nugolo delle autobiografie settecentesche.
         Essa non è mai tentativo di descrivere il mondo attraverso delle vicende particolari, ma solo e sempre volontà di descrivere se stesso, attraverso la rievocazione di esperienze, anche le più piccole e apparentemente insignificanti.Solo in questo modo si può comprendere l’importanza e l’ampio spazio che l’Alfieri riserva all’infanzia ed all’adolescenza.4
         L’autore, abbiamo visto, sa bene che in queste epoche si nascondono informazioni preziose, egli indugia perciò deliberatamnete a rinvenire in esse i primi segnali di un carattere inquieto. Acquistano dunque grandissimo valore, da questa prospettiva, anche episodi marginali, come quello, ad esempio, di una semplice caduta negli anni dell’infanzia.
         A chiunque avesse chiesto al piccolo Vittorio come si fosse procurato una vistosa ferita, egli orgogliosamente avrebbe risposto d’esser caduto facendo un esercizio militare. “Ed ecco”, scrive Alfieri, ”come nei giovani petti, chi ben li studiasse, si vengono a scorgere manifestamente i semi diversi della virtù e dei vizj. Che questo certamente in me era un seme di amor di gloria; ma nè il prete Ivaldi, nè quanti altri mi stavano intorno, non facevano simili riflessioni”5. Questo ed altri episodi dell’infanzia come quello celebre della cicuta o quello della morte del fratello, sono indagati da Alfieri per rispolverare i semi già visibili del suo animo fiero e di alcuni suoi vizi.
         Allo stesso fine sono ”recuperati” altri episodi della vita in Accademia, nonostante il giudizio negativissimo di quegli anni di studi.6 Episodi apparentemente marginali, come le gare di memoria coi maggiori età, le sue prime fierissime malinconie, le dormite pomeridiane ai corsi di “papaverica filosofia”, servono ad evidenzire coscientemente i tratti e le prime sporgenze di un carattere non certo ordinario.
         Fin dalla lettura di queste prime pagine scopriamo un fine indagatore dell’animo umano.
         Ad alcune infantili impressioni Alfieri riconduce, ad esempio, il suo dichiarato antifrancessimo: ”Le scuole parimente della scherma e del ballo mi riuscivano infruttuosissime… e vi si aggiungeva per più contrarietà il maestro francese nuovamente venuto da Parigi… E non ho mai saputo ballare neppure un mezzo Minuè; questa sola parola mi ha sempre, fin d’allora fatto ridere e fremere ad un tempo, che sono i due effetti che mi hanno fatto poi sempre i francesi, e tutte le cose loro… Ma le prime impressioni in quell’età tenera radicate, non si scancellano mai più…”.7
         Sempre negli anni della giovinezza sono da ricercare i primi sintomi del suo straordinario “fastidio” per ogni autorità. Uscendo dall’Accademia di Torino, il giovane Alfieri lascia esplodere tutta la sua insubordinazione: ”... e non mi potendo assolutamente adattare a quella catena di dipendenze gradate, che si chiama subordinazione; ed è veramente l’anima della disciplina militare; ma non poteva esser l’anima di un futuro Poeta tragico”8.
         Comincia in questo modo la proverbiale sequenza di viaggi, per l’Italia prima e per l’Europa poi.
         Anche questi viaggi nascono come reazione agli anni di segragazione in Accademia e sono forse, in un certo modo, condizionati dalla convivenza con numerosi amici stranieri: ”… e mi rimpiccioliva in faccia ai compagni di dentro, che tutti venivano di paesi lontani, come Inglesi, Tedeschi, Polacchi, Russi, etc.. e questo mi dava una frenetica voglia di viaggiare, e di vedere da me i paesi di tutti costoro”.9
         Da questi primi spostamenti si ricava l’impressione di un forte desiderio di libertà. Il giovane Alfieri appare già infastidito di tutte le “pieghevolezze e dissimulazioni” che aveva dovuto orchestrare, con l’appoggio del cognato, per ottenere il permesso reale all’espatrio. D’ora in poi questa tendenza sarà una costante della sua vita.
         È a Napoli, nel corso del medesimo viaggio, che il giovane Alfieri, desideroso di liberarsi di controlli e controllori, si adopera presso il locale Ministro di Sardegna per continuare il viaggio da solo, senza l’ajo, una sorta di tutore che avrebbe dovuto continaure a seguirlo.
         S’inaugura, in questo modo, una nuova Epoca della Vita, che Alfieri stesso definsisce “incolta e selvaggia”, ma non per questo inutile o carente di episodi importanti.
         Come già abbiamo accennato, è al solito l’episodio apparentemente insignificante a veicolare le più consistenti informazioni. Sarà perciò utile, ai fini della nostra analisi, individuare dei luoghi nel discorso alfieriano, in cui, attraverso esempi concreti, si ponga l’accento sulla particolare natura di un animo inquieto e al tempo stesso “ruggente”, com’è detto prefoscolianamente una volta.
         Il viaggio alfieriano è, infatti, cammino di un animo, giammai resoconto fine a se stesso o buildingroman, come pure è stato affermato.10
         Ricaviamo proprio da uno di questi primi viaggi alfieriani lo spunto per avvalorare la nostra chiave di lettura.
         In compagnia del Principe di Masserano, Ambasciatore di Spagna a Londra, Alfieri sta percorrendo in carrozza il tratto Parigi-Calais: ”ed era il freddo sì eccessivo, che in un calesse stivatissimo coi cristalli, ed inoltre un candelotto che ci tenevamo acceso, ci si agghiacciò in una notte il pane ed il vino stesso; e quest’eccesso mi rallegrava, perchè io per natura poco gradisco le cose di mezzo”.11
         Non si tratta ovviamente di un banale e suggestivo recupero della memoria. L’episodio, apparentemente insignificante, è invece fondamentale per far luce sulla personalità alfieriana.12
         L’animo di Alfieri, appare chairo, non ama la medietas ed abborrisce addirittura la mediocritas; è inimicissimo di tutte le contraddizioni e contrario ad ogni paradosso.
         Poco si potrà comprendere della vita e della scrittura alfieriana se non si acquisisce questo assunto iniziale. Si scoprirà in questo modo che, il rifiuto di ogni tirannide o supremo potere, è fondato in larga parte in Alfieri, sulla constatazione (spesso impressione) della mediocrità dei sovrani da lui pur visitati, che mal si conciliava con la loro spropositata potestas.
         Una costante e consapevole sensazione di “superiorità”13 mista a diffidenza non abbandona mai l’Alfieri davanti alle cerimoniose presentazioni di sovrani e potenti. Lo stesso Alfieri però è pervaso da un indefinibile “affetto” nei confronti del suo sovrano, al quale offre disponibilità e servizio in occasione del suo temporaneo passaggio per Firenze, sulla via dell’esilio in Sardegna. Si tratta dello stesso Re al cui controllo Alfieri è sempre stato ostile, nei confronti del quale non mancano irriguardevoli considerazioni nella Vita. Anche di questo comportamento apparentemente contraddittorio si può in realtà trovare indizio negli anni giovanili. In un passo dove si ricordano alcuni suoi trascorsi in Accademia, Alfieri così scrive: ”… ad ogni abito nuovo e ricco e di ricami, e di nappe e di pelli ch’io m’andava facendo, se mi veniva fatto di vestirmelo la mattina per andare a corte, o a tavola coi compagni d’Accademia, che rivaleggavano in queste vanezze con me, io poi me lo spogliava subito al dopo pranzo, ch’era l’ora in cui venivano quegli altri da me; e li faceva anzi nascondere perchè non li vedessero e me ne vergognava, insomma, con essi come di un delitto”14 Un sovrano messo in fuga, e per di più dagli odiatissimi francesi, non può che suscitare al passionale Alfieri un sentimento analogo, misto di rispetto e commiserazione.
         Il lettore, continuando a seguire il giovane piemontese nelle peregrinazioni dei suoi primi viaggi, percepisce sempre più l’impressione di una vita essenzialmente spirituale, di un animo assetato di emozioni, delle quali si nutre come di linfa vitale.
         Senza di esse la vita di Alfieri è noia e malinconia. L’impazienza, l’irruenza quasi irrefrenabile, è un’altra caratteristica del giovane. Essa è sinonimo di irrequietezza ed instabilità d’animo, che non si concretizza solo nei continui e rapidi spostamenti, quanto piuttosto nella persistente ricerca di sconvolgimenti della normalità. Siamo di fronte ad un topos che ha autorevoli precedenti nella letteratura classica.
         Nelle Epistole morali a Lucilio, Seneca, fingendo un rescriptum al giovane allievo, così scrive:”Tu non vai qua e là, e non ti agiti, cambiando continuamente di luogo. Quest’irrequietezza è propria di uno spirito malato.”15
         Allo stesso modo Petrarca, in vari luoghi della sua riflessione in prosa o in versi, assimila il concetto dell’«errare» agli effetti di qualche sconvolgimento interiore. Anche in Alfieri, crediamo, si tratti dello sconvologimento di un animo, e nello stesso tempo, del tonante preludio ad un’epoca nuova.
         Forti le sue passioni, passionali le sue azioni, irruenti ed irressitibili i suoi tormenti: nella sua vita Alfieri non ha mai conosciuto la normalità, se non come misura dei suoi innumerevoli eccessi. La sua giovinezza, in particolar modo, appare nient’altro che sottomessa obbedienza all’unica sovranità che il nostro abbia mai conosciuto: quella della passionalità. Il giovane Alfieri appare al lettore come un cavallo ritroso e selvatico che insegue ariostesche chimere16 e desideri irraggiungibili, perchè già sempre abbondantemente appagati dal suo animo prima della realizzazione, attraverso una perspicacissima immaginativa.17 Una vita essenzialmente estetica, nel senso Kierkegardiano del termine, sembra quella del giovane autore, un’esitenza coniugata al congiuntivo della passionalità piuttosto che all’indicativo dell'ordinarietà, puntalmente sempre scansata e abborrita. Si susseguono così le città visitate sommariamente, i duelli, i gesti estremi, i costosissimi acquisti ed i turbolenti e sconvolgentissimi amori che, per sua stessa ammissione, l’avrebbero trascinato a morte sicura o imminente pazzia: ”se non mi fossi poi ingolfato in una continua e caldissima occupazione di mente, non v’era certamente per me nessun altro compenso che mi potesse impedire prima dei trent’anni dall’impazzire o affogarmi”.18
         Alla pazzia certo dovettero far pensare molti dei suoi gesti estremi, come l’abitudine di farsi legare a una sedia dal fedele servitore Andrea, per evitare le tentazioni di un'indegna amante, i ben tre consapevoli tentativi di suicidio, i “roghi” di opere in fieri, ed un famoso scatto d’ira in Madrid, ai danni del medesimo servitore, più volte ricordato nell’opera, che al pover’uomo per poco non costò la vita.
         Anche la definitiva consapevolezza del suo ruolo di letterato scaturisce in un eclatantissimo gesto, quello della donazione dell’intero suo patrimonio alla sorella, per liberarsi da tutte le incombenze di sudditanza rispetto al re di Sardegna.
         Alfieri stesso riconosce che avrebbe potuto ricorrere a più comodi sotterfuggi, ma il suo manicheismo ricaccia subito tutte le altre opzioni perchè“ questi mezzi eran vili”19
         La maturata consapevolezza di “non poter essere al tempo vassallo ed autore”20, lo conduce alla scelta di “disvassallarsi”21 e di procedere a questa apparentemente illogica donazione, in cambio di un’entrata annua corrispondente a poco più della metà di quello che abitualmente ricavava dal suo patrimonio.
         Il desiderio di “recidere le catene della natia servitù”22 era stato, del resto, annunciato e preceduto dalla giovanile rinuncia ad ogni ruolo militare nel Reggimento Proviciale di Asti.
         È difficile stabilire se alla base di queste decisioni si debba collocare soltanto l’innata caratteriale intolleranza per l’autorità o se, come egli stesso sostiene, si tratti piuttosto di un indispensabile presupposto, quasi un sacrificio per la carriera intellettuale. Noi crediamo che questa scelta sia stata essenzialmente dettata dall’esigenza di risolvere un contrasto interiore, perdurando il quale Alfieri difficilmente si sarebbe realizzato come autore drammatico. In pochi altri autori, come in Alfieri, la scrittura è fortemente connessa con l’emotività momentanea, in pochi altri autori essa scaturisce dalla conditio sine qua non dello stato d’animo adatto.
         Fallisce, ad esempio, in Napoli nel 1781, un primo tentativo di verseggiare la Polinice, appunto per un’incompatibilità dello stato d’animo con la materia trattata: "Ma non potei procedere oltre la prima stanza, essendo quello un tema troppo lieto per quel mio stato d’animo d’allora.”23 Lo stato d’animo in Alfieri è onnipotente metro di tutto, non solo dell’opera d’arte. Letteratura e vissuto si sovrappongono spesso. La sua interpretazione del mondo non è mai oggettiva e definita, anche il mondo è filtrato sempre dallo stato d’animo momentaneo. Così accade spesso d’incontrare, discordanti giudizi su un medesimo luogo visitato in tempi diversi.
         È importante però stabilire che l’autore implicito, nella sua rielaborazione-rilettura della Vita, è sempre consapevole del filtro decisivo dell’animo sulle sue momentanee visioni del mondo: ”Indi proseguii verso Roma, la di cui approssimazione mi faceva palpitare; tanto è diverso l’occhio dell’amante da tuti gli altri. Quella regione vuota insalubre, che tre anni innanzi mi parea quel ch’era, in questo venire mi si presentava come il più delizioso soggiorno del mondo”.24 Se molto in Alfieri, come abbiamo visto, dipende dallo stato d’animo momentaneo, lo stato d’animo può dipendere, a sua volta, da fortuite combinazioni di elementi esterni. Anche elementi apparentemente marginali, come quello metereologico, hanno il potere di determinare in Alfieri la predisposizione allo studio o alla scrittura: ”L’Estate è la mia stagione preferita e tanto più mi si confà, quanto più eccessiva riesce; massimamente pel comporre”25. Quest’eccesso di dipendenza dall’emotività momentanea, questa tirannia della passione e dello stato d’animo, non possono che produrre nel lettore un’impressione costante di superficilità. Soprattutto leggendo le epoche giovanili ci si accorge che, ancorchè preciso e istantaneo, il giudizio alfieriano non è mai profondo e stabile. Spesso Alfieri si ferma alle iniziali impressioni, riponendo incondizionta fiducia nelle sue prime percezioni e sensazioni. Esse sono l’unico fondamento di giudizi sempre estremi e ben fermi. Rimane famoso nella storia della letteratura quello sferzante ai danni di Metastasio, definito “Musa appigionata” solo perchè scorto di sbieco in atto d’inchinarsi alla Regina d’Austria.
         Molto, forse troppo, è dunque affidato alla prima impressione. Conseguentemente molti sono i ravvedimenti.
Emblematico il caso del Canzoniere di Petrarca, sfogliato appena ed apparso noioso al giovane e preziosissimo gioiello invece all’uomo maturo. Ma se questi ravvedimenti in archi temporali così ampi sono pur naturali e ammissibili, sono tipicamente alfieriani, cioè repentini, burrascosi e inattesi molti altri di più breve “portata” descritti nell’arco della vita.
         Dopo ben due, manco a dirlo, passionali e negative esperienze amorose vissute nei suoi viaggi europei, ecco il giovane Alfieri proclamare, quasi ad incipit vita nova, che la condizione di single fosse l’unica possibile per l’uomo di lettere.
         Venti pagine avanti il lettore lo trova già “impigliato” in una nuova, ancor più sconveniente relazione con una donna sposata. Quest'impressione di superficialità emerge con maggiore evidenza nell’esamina dei rapporti del narratore-protagonista con gli altri personaggi che s’incontrano nella diegesi. Si premetta che Alfieri parla poco degli altri e quando lo fa è solo per raccontare con esempi se stesso o per riflettere indirettamente in essi reali o anelate virtù, che la sua (falsa?) modestia gli impedisce di autoattribuirsi. Come è usuale nelle autobiografie, l’esposizione è focalizzata al punto di vista del narratore. Egli è narratore autodiegetico ed onnisciente, coincidendo, quasi, con l’autore implicito. L’autore implicito, si noti, è inoltre quasi indistinguibilmente sovrapposto all’autore biografico. Unica figura per così dire mobile o diacronica è quella del personaggio principale che percorre una parabola cronologica di 55 anni per colmare la sua distanza di prospettiva rispetto al narratore, all’autore implicito e al pre-lettore di cui si teorizzava. Quando questa distanza sarà colmata, l’autobiografia sarà conclusa; ogni autobiografia infatti letteralmente “muore” quando il tempo del racconto viene a coincidere con il presente storico del narratore e dell’autore implicito.26
         Nella Vita alfieriana non c’è quasi mai spazio per il punto di vista dell’altro. Quando Alfieri si sbilancia ad ipotizzare sensazioni o possibili punti di vista esterni, lo fa solo per illustrare meglio una sua reazione a dun comportamento altrui o per supportare e giustificare un suo comportamento. Unica interferenza nel dominio pressocchè assoluto dell’io è il consiglio letterario. Sempre richiesto da Alfieri e solo a pochissimi intimi concesso, il consiglio letterario è l’unica intromissione dell’altro da sè nell'autobiografia.
         Quando esso è gratuito o addirittura polemico, tanto più se non ben motivato, Alfieri ne rimane indifferente e non gli conferisce voce nell’opera:” l’amico (Gori Gandellini) mi lesse nei foglietti di Firenze e di Pisa chiamati giornali, il commento delle predette lettere... Poco m’importò, a dir vero, di codeste venali censure...”27. Emblematico a tal pro è il “lancio del Galateo” dalla finestra della sua villa: ”Mi tenni quasichè offeso da questo puerile e pedantesco consiglio... mi prese un tal impeto di collera, che scagliato il libro dalla finestra, gridai quasi maniaco...”28
         Lo sprovveduto gesto, frutterà, ci avvisa il più maturo narratore, l’ennesimo ravvedimento. Alfieri leggerà, infatti, più di una volta, il Galateo, nel prosieguo della sua formazione.
         Nel romanzo autobiografico alfieriano le distanze del protagonista rispetto agli altri personaggi sono severamente determinate dal metro dell’affetto. I personaggi che nel narrato trovano più spazio sono così la sua donna e i suoi intimi amici. Alfieri ignora e non approfondisce la conoscenza se non di pochissimi uomini ben compatibili col suo modus vivendi: ”Perciò nel corso del mio vivere pochissimi amici avrò avuti; ma mi vanto di averli avuti tutti buoni e stimabili assai più di me”29 Fu in uno dei suoi primi viaggi in Olanda che il giovane si legò a Don Iosè d’Acunha, ministro portoghese in quello Stato. Un’altra forte amicizia fu quella con l’Abate di Caluso, ambasciatore torinese in Portogallo. Scaturisce, infine, da un fortuito viaggio senese quella più profonda ed intima con Gori Gandellini. I giudizi nei confronti dei tre amici, in passi distanti fra di loro, sono tutti demarcati da una notevole intensità emotiva e dai consueti “ingigantimenti” alfieriani.
         Il d’Acuhna è definito, ad esempio, ”uomo di molto ingegno ed originalità... di ferreo carattere, magnanimo di cuore, di animo bollente ed altissimo”.
         L’Abate di Caluso, incontrato a Lisbona nel 1772, è definito addirittura “ un Montaigne vivo”, il Gandellini è “raro uomo”, con cui si genera una “vera e calda amicizia”. Per sua stessa ammissione, l’amicizia fu in Alfieri un’autentica necessità: ”Questo santo legame della schietta amicizia era, ed è tuttavia, nel mio modo di pensare e divivere, un bisogno di prima necessità”30
         I pochi amici sono, per il giovane come per l’uomo maturo, guide intellettuali, consiglieri spirituali, ma soprattutto rifugio ed ancoramento per i numerosi naufragi e turbamenti passionali in cui egli s’imbattè.
         Se vere e calde furono le sue amicizie, autentici e “bollenti” furono gli amori alfieriani, sempre estremi, pericolosi, adulterini e caratterizzati dalla maggiore età dell’amata (all’epoca dissonante eccezione).
         È poco più che diciannovenne quando a l’Haja s’imbatte violentemente nella sua prima esperienza amorosa. Sottrattagli la donna amata da una repentina partenza impostale dal marito, al “dolentissimo” Alfieri, dopo un bizzarro tentativo di suicidio, non resta che il conforto dell’Amico D’Acunha e la decisione di rientrare in Italia (1770), dove per oltre sei mesi si dà agli studi filosofici. Il secondo intoppo sentimentale si verifica a Londra, dove il nostro, piagato da un continuo “delirio amoroso”, conosce per la prima volta le sensazioni negative recate dal tradimento, per poco non rimane ucciso in un duello estremo col marito dell’amata ed è assistito solo dalla presenza di un amico napoletano, tale Marchese Caraccioli. Alla seconda delusione amorosa corrispose il secondo rientro in patria e la seconda, più consistente immersione negli studi, che genera i primi tentativi poetici. Una volta in Italia il sentimento sopravvissuto per la donna amata è velocemente rimpiazzato dal sopravvenire di un altro “tristo amore”31, quello per la Gabriella Falletti, anch’essa sposata e molto più grande di Alfieri. Questa nuova infatuazione provoca nel ventiduenne ancora più robusti sconvolgimenti. Finalmente la “liberazione” da questo terzo “indegno amore” coincide, in Alfieri, con l’esordio drammaturgico che passa attraverso una petrarchesca metamorfosi dell’amore in amor di gloria. È inaugurata, in questo modo, l’epoca della virilità, fondata sulla prima coscienza di un’identità intellettuale.
         Il lettore è investito, a questo punto dell’opera, da una netta sensazione di cesura. Dalla vita vissuta si passa come ex abrupto allo studio serrato e alla meditazione dei classici.
         Qui termina il romanzo ed ha inizio lo zibaldone dei pensieri.
         Quello che per Alfieri è un risveglio da “un lungo e crasso letargo”32 è diametralmente per il lettore un addormentamento-rallentamento del vissuto a favore del pensato. Il rapporto tra la temporalità diegetica e la temporalità del racconto scritto ne risulta notevolmente condizionato in termini di ritmo e di velocità del narrato. Se nelle epoche giovanili lo scrittore aveva indugiato anche nella descrizione di piccoli episodi, ora le singole pagine diventano anni.
         Paradossalmente, in Alfieri la raggiunta identità intellettuale è rafforzata anche dalla constatazione dei suoi limiti33, che conduce il giovane autore ad un solenne giuramento: ”non risparmierei oramai nè fatica nè noia nessuna per mettermi in grado di sapere la mai lingua quant’uomo d’Italia”34. Segue l’intenzione di “italianizzarmi”35 che si concretizza in un viaggio in Toscana, nell'«ostinazione negli studi più ingrati»36 e nella realizzazione delle prime opere. In Toscana, inoltre, si realizzano i due incontri più impostanti della sua vita, quello con Gori Gandellini e quello con Luisa Stolberg, Contessa d’Albany, moglie e poi vedova di Carlo Eduardo Stuart, pretendente al trono d’Inghileterra. Sorprendente è per il lettore, l’espressione con la quale Alfieri introduce questa sua quarta ed ultima relazione amorosa: ”Avvistomi in capo a due mesi che la mia vera donna era quella... io ci ritrovava e sprone e conforto ed esempio ad ogni bell’opera”37. Si nota in questo modo come, anche durante la piena maturità, Alfieri continui a riporre incondizionata fiducia nelle sue prime impressioni, obbedendo ad esse sempre rapidamente ed a costo di grandi turbamenti.
         Dal 1777 fino alla morte, infatti, Luisa Stolberg rimarrà la sua compagna, l’ispiratrice di molte opere e progetti di opere, nonchè la condizione vivente della loro stessa realizzazione. Mai, la figura di una donna è forse stata così determinante, oltre che per l’ispirazione anche per la produzione di un’opera d’arte. Più volte nel corso della Vita il nostro ammette che il ricongiungimento con la donna amata è condizione indispensabile per la ricomposizione di una vigoria intellettuale e per la determinazione di uno stato d’animo adatto all'inventio38 dell'opera drammatica. Amore ed occupazione intellettuale sono condizioni la cui compresenza è letteralmente indispensabile ad Alfieri per il raggiungimento dello stato psicologico adatto all’ideazione. Quest'affermazione può essere agevolmente avvalorata da un rilievo di tipo prolettico incluso nel racconto delle epoche giovanili: ”e solo molti anni dopo mi avvidi che la mia infelicità proveniva soltanto dal bisogno, anzi necessità ch’era in me, di avere ad un tempo stesso il cuore occupato da un degno amore, e la mente da qualche nobile lavoro”39. Alfieri più volte definisce, inoltre, il sentimento amoroso e la creazione artistica con un’unica parola: “febbre”40, spesso accompagnata da “furore maniaco e lagrime molte”. Si tratta, scrive Alfieri riferendosi all’ideazione artistica, di “un impulso naturale fortissimo”.


Analisi linguistica: il dubbio significante

         Una delle osservazioni quasi indotte dalla semplice lettura dell’opera di Alfieri è che nella sua scrittura esiste un impiego particolare del dubbio e della preterizione.
         La maggior parte delle ipotesi in Alfieri sono espedienti per ribadire la correttezza di certe sue scelte passate o la fortuna che le cose siano andate come poi sono andate: ”Ma il buon prete era egli stesso ignorantuccio, a quel ch’io combinai poi dopo; e se dopo i nov'anni mi avessero lasciato alle sue mani, verisimilmente non avrei imparato più nulla.”41, o ancora:” Se io non mi fossi trovato con la mia donna al ricevere questo colpo sì rapido ed inaspettato, gli effetti del mio giusto dolore sarebbero stati assai più fieri e terribili”42.
         Il dubbio è in un certo senso uno strumento nelle mani dell’autore implicito o meglio del nostro prelettore, usato per ribadire certezze. Esso è il segnale più evidente della sua presenza nel testo. Così scrive, infatti, Alfieri da primo lettore della sua Vita: ”Che se poi vi ho scorti degli sbagli, o delle amplificazioni, come figli d'inesperienza e non mai di mal animo, ce li ho voluti lasciare”.43
         Si noti come anche qui il dubbio serve paradossalmente a veicolare certezze.
         Si tratta altrimenti di ipotesi retorica in cui, per la maggior parte, si finge di mettere in discussione (ed ancora quindi si afferma) una gloria o un successo che, alla data in cui Alfieri scrive, è già raggiunto e ben consolidato: ”dividerò con esse (la Merope e il Saul) la gloria s’esse l’avranno acquistata e meritata; lascierò ad esse la più gran parte del biasimo, se lo incontreranno”. Questo frequente snaturamento del dubbio coincide sempre in Alfieri con esattezza, completezza e severità di giudizio. Egli non ha riguardo per nessuna autorità, è critico con tutto e con tutti, ancor più con se stesso. L’unico riguardo che l’onesta di Alfieri concede qualche volta alla sua persona è quello di risparimiare alla narrazione episodi che potrebbero, se raccontati, ferire troppo l'ammesso spropositato amor proprio.
         La scrittura alfieriana risulta dipinta di colori sempre forti ed estremi come poche altre, tipico di Alfieri è l’utilizzo di aggettivazione fortemente caratterizzante e deliberativa. Assai spesso gli aggettivi sono costruiti al grado superlativo. Frequentissimo è l’uso di figure retoriche come l’iperbole o l’epifonema44. Così una volta Parigi è definita “immensissima fogna”45, con una gradazione dell’aggettivo che, se esistesse, potremmo definire “piucchesuperlativo” e dei letterati francesi si dice sferzantemente (sia per gli uni che per l’altro) che: ”non oltrepassavano l’intelligenza del Metastasio”46. Frequente anche nell’avverbio la gradazione superlativa, spesso a rafforzare la connotazione spregiativa.
         Non sfugge inoltre al lettore una sottesa musicalità dell’espressione alfieriana, musicalità che, come ha ben notato Scrivano47, risiede per lo più nell’estrema modulazione dei toni tra l’ironico, l’elegiaco, il passionale e il sarcastico. Questo atteggiamento, ha notato Scrivano: ”sconfigge con ostinazione la regola classica dell’unità del tono rispetto al genere”.
         ’estrema varietà dei toni si combina, a nostro avviso, un sapiente ed equilibrato utilizzo dei tempi verbali. Tempo fondamentale è il passato remoto, che cede il dominio solo nelle pagine conclusive, per ovvie ragioni di prospettiva, al passato prossimo. Frequente anche l’uso dell’imperfetto per le azioni iterative. Il presente è invece usato come tempo commentativo, quasi extradiegetico. Dietro al tempo presente si maschera infatti il nostro teorizzato pre-lettore, ossia l’autore implicito al momento della scittura o della definitiva revisione dell’opera. Attraverso l’uso del presente l’autore stabilisce un legame più stretto col lettore implicito al quale si consiglia, e a volte quasi si impone, un punto di vista, un insegnamento suo personale e riassuntivo di un’intera esperienza narrata:”e questo fu il secondo e credei l’ultimo accesso di un sì fastidioso e sì turpe morbo (l’avarizia) che degrada pur tanto l’animo, e l’intelletto restringe”48.
         Raro invece l’utilizzo del futuro ed anche delle ipotesi riferite all'eventuale prosieguo della sua vita. Il futuro è spessissimo riferito, piuttosto, al destino delle sue opere cui, certo con istinto preromantico, Alfieri dovette affidare il suo non omnis moriar .


Conclusioni: la prova del fuoco

         Volendo adoperare una metafora per descrivere e sintetizzare in emblema la Vita di Vittorio Alfieri, potremmo utilizzare l’immagine di una fiamma che si consuma in un certo lasso di tempo, alternando momenti di calmo raccoglimento ad autentiche impennate di passione, d’ira e di febbrili emozioni. Nonostante la disparità delle sue continue oscillazioni, non manca, concludendone la lettura, un’impressione di compiutezza ed esattezza. Veramente simile a una fiamma, la vita di Alfieri si spegne quasi con prevista e graduata regolarità; l’ultimo impeto è la decisiva volontà di concludere le sue “segrete” commedie49, prima del sopraggiungimento di una morte che Alfieri stesso percepisce imminente. Quest’ultimo anelito di totalità contribuisce a generare nel lettore una forte impressione di compiutezza dell’opera. Nell’ultimo foglio della sua vita, scrivendo di una sua “agonizzante virilità”, Alfieri si rivolge direttamente al lettore: ”arrivederci, o lettore, se pur ci rivedremo, quando io barbogio, sragionerò anche meglio, che fatto non ho in questo capitolo ultimo della mia agonizzante virilità.”. Questo saluto è forse l’elemento che meglio contribuisce alla determinazione di quest’impressione di completezza.50 Nulla meglio dell’immagine del fuoco ardente, potrebbe rendere, e per certi versi sintetizzare, quella che fu la vita del Nostro, quello stesso fuoco che doveva essere l’unico suo censore, al quale non scamperanno numerose sue opere incompiute, compiute o in fieri.
         Un Carlo Primo, un Romeo e Giulietta, ed una Sofonisba sono solo alcune delle tragedie di Vittorio Alfieri finite nel fuoco, che non avremo mai la possibilità di leggere, a meno che qualche critico di quelli che circolano sempre più numerosi ai nostri giorni, occupandosi di concordanze e varianti in Alfieri, non si slanci così tanto in avanti ad investigare sulle intenzioni, da restituirci finanche il perduto o il non scritto.
         Relativamente a questa strana abitudine alfieriana esistono, comunque, vari episodi nella Vita, alcuni dei quali veramente estremi, come quello della lettura ad Ippolito Pindemonte della ormai compiuta Sofonisba: ”Egli mi stava ascoltando senza batter palpebra; ma io, che altresì mi stava ascoltando per due, incominciai da mezzo il second'atto a sentirmi assalire da una certa freddezza, che talmente mi andò crescendo nel terzo ch'io non lo potei pur finire; e preso da un impeto irresistibile la buttai sul fuoco, ché stavamo al camminetto noi due solissimi; e parea che quel fuoco mi fosse come un tacito invito a quella severa e pronta giustizia. L'amico, sorpreso di quell'inaspettata stranezza (stante che io non avea neppur detto una parola fino a quel punto, che l'accennasse neppure), si buttò colle mani su lo scartario per estrarlo dal fuoco, ma io già colle molle che aveva rapidissimamente impugnate, inchiodai sì stizzosamente la povera Sofonisba fra i due o tre pezzi che ardevano, che le convenne ardere anch'essa; né abbandonai, da esperto carnefice, le molle, se non se quando la vidi ben avvampante e abbronzita andarsi sparpagliando su per la gola del camminetto”.51
         Davanti a tali affermazioni, il lettore, si sente mancare “le pagine sotto gli occhi”, si sente improvvisamente precario, si percepisce veramente straniero nel regno assoluto di un Io così ben deciso e determinato.
         Anche questa Vita sarebbe passata, infatti, per la crudele prova del fuoco se la morte del suo autore non fosse sopraggiunta prima: ”Lascierò dunque dei puliti e corretti manoscritti, quanto più potrò e saprò, di quell'opere che vorrò lasciare credendole degne di luce; brucierò l'altre; e cosí pure farò della vita ch'io scrivo, riducendola a pulimento, o bruciandola.”52
         Siamo convinti, (e come potrebbe essere altrimenti?), che la “sopravvissuta” autobiografia dell’Alfieri costituisca un autentico patrimonio della nostra storia letteraria. Essa, non solo è innovativa rispetto al folto nugolo delle autobiografie settecentesche, ma costituisce la fondamentale premessa per tanta parte della riflessione intellettuale dell’800 e del 900.
         Senza le epoche giovanili dell’autobiografia alfieriana non sarebbero infatti pensabili l’estetismo e l’antiestetismo novecentesco. C’è innegabilmente il riflesso delle vicissitudini europee del giovane Alfieri ( londinesi ed olandesi in particolare) sia sulle avventure romane di Andrea Sperelli che sulla vita danese di Antonio, nel Diario di un seduttore di Soren Kierkegard .
         Tanto profonda nel tempo giunge la fiaccola della fiamma alfieriana.
 


STRUMENTI BIBLIOGRAFICI  
Alfieri V., Vita, a cura di Vittore Branca, Milano, Mursia, 1983
Barthes Roland, Elementi di semiotica, Torino, Einaudi, 1966
Booth W. C., The rhetoric of fiction, Chicago, UP, 1961
Costa S., Lo specchio di Narciso: autoritratto di un homme de lettres, Roma, Bulzoni, 1983
Croce B., La letteratura italiana del 700, Bari, Laterza, 1949
Eco U., I limiti dell’interpretazione, Bompiani, 1990
Id., Trattato di semiotica generale, Bompiani, 1965
Id., Lector in fabula, Bompiani, 1979
Fubini M., Ritratto dell’Alfieri ed altri studi alfieriani, Firenze, 1963
Genette, G., Figure. Retorica e strutturalismo, Torino, Einaudi, 1969
Marchese Angelo, L’officina del racconto, semiotica della narratività, Milano, Principato, 1983
ScrivanoR., Biografia e autobiografia. Il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976

------------------------------------------------------

NOTE 

1 - Anche Scrivano (in Biografia ed autobiografia, il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976) intuisce una ”doppia dimensione scrittoria” che si realizzerebbe attraverso un uso particolare dei tempi verbali.
2 - Epoca I, cap. 5.
3 - Si vedano a tal pro Benedetto Croce, La letteratura italiana del 700, Bari, Laterza, 1949.
4 - Come sottolinea N. Costa, (Lo specchio di Narciso, Roma, Bulzoni, 1983 ) Alfieri “si poneva, assai consapevolmente, in posizione di piena rottura con la normativa autobiografica preesistente, dedicando, non un capitolo, ma un’intera epoca della propria vita agli anni della puerizia”.
5 - Epoca I, Cap. 5.
6 - “Tirandomi cosi'innanzi in quella scoluccia, asino fra asini e sotto un asino…”, Epoca II, Cap. 2.
7 - Epoca II, Cap. 6.
8 - Epoca II, Cap. 10.
9 - Ivi.
10 - Natalia Costa, Lo specchio di Narciso, Roma, Bulzoni, 1983, p. 45.
11 - Epoca III, cap. 6.
12 - Esso sarà ricordato un’altra volta nella Vita.
13 - Descrivendo il suo carattere Alfieri stesso parla di presunzione e petulanza; cfr. Epoca IV Cap. 1.
14 - Epoca II, Cap. 9.
15 - Traduzione personale da Seneca, Ep. I, 2.
16 - Non è forse un caso che più di ogni altro animale, il cavallo fu caro all’Alfieri che ne possedette ben dodici nella sua scuderia di Torino e molti altri ne acquistò nei suoi numerosissimi viaggi; non è forse nemmeno un caso che essi ebbero spesso nomi di ariostesca memoria.
17 - Epoca III, Cap. 4: ”... frutto in me di una sregolata fantasia che tutti i beni e tutti i mali m’ingrandiva sempre oltremodo, prima di provarli; talchè poi gli uni e gli altri, e principalmente i beni, all’atto pratico poi non mi parevano nulla.”
18 - Epoca III, Cap. 13.
19 - Epoca IV Cap. 6.
20 - Ivi.
21 - Ivi.
22 - Ivi.
23 - Epoca IV, Cap. 8..
24 - Ivi.
25 - Epoca IV, Cap. 7.
26 - Natalia Costa (Lo specchio di Narciso, Roma, Bulzoni, 1983) individua nella distanza tra protagonista e narratore un'ulteriore dicotomia tra sentire e comprendere.
27 - Epoca IV, Cap. 11.
28 - Epoca IV, Cap. 1.
29 - Epoca IV, Cap. 4.
30 - Ivi.
31 - Epoca III, Cap. 13.
32 - Epoca IV, Cap. 2.
33 - Cfr. Vita Epoca IV, Cap.1: ”... aggiungevasi una quasi totale igoranza delle regole dell’arte tragica e l’imperizia quasi che totale della divina e necessarissima arte del ben scrivere e padroneggiare la mia propria lingua.
34 - Ivi.
35 - Ivi.
36 - Epoca IV, Cap. 2.
37 - Epoca IV. Cap. 5.
38 - Per questa prima fase, Alfieri parla di “ideare”; ad essa seguono le fasi dello stendere e del verseggiare.
39 - Epoca III, Cap. 2.
40 - Cfr. Epoca IV, Cap. 26.
41 - Epoca I, Cap. 2.
42 - Epoca IV, cap. 14.
43 - Epoca IV, Cap. 4.
44 - Cfr. Epoca II, Cap. 6: ”Allora imparai che bisognava sempre parere di dare spontaneamente, quello che non si poteva impedire d’esserso tolto.”
45 - Epoca IV, Cap. 12.
46 - Ivi.
47 - Scrivano Biografia ed autobiografia, il modello alfieriano, Roma, Bulzoni, 1976
48 - Epoca IV, Cap. 6.
49 - Per un certo periodo, la scrittura delle commedie rimase nascosta quasi a tutti.
50 - Pochissime altre volte, infatti, e per raccontare aneddoti marginali, Alfieri si rivolge al lettore. Cfr. Epoca IV, Cap. 6: ”nel tempo stesso ch'io scuoteva così robustamente e scioglieva le mie originarie catene, io continuava pure di vestire l'uniforme del re di Sardegna, essendo fuori paese, e non mi trovando più da circa quattr'anni al servizio. E che diran poi i saggi, quand'io confesserò candidamente la ragione perché lo portassi? Perché mi persuadeva di essere in codesto assetto assai più snello e avvenente della persona. Ridi, o lettore, che tu n'hai ben donde. Ed aggiungi del tuo: che io dunque in ciò fare, puerilmente e sconclusionatamente preferiva di forse parere agli altrui occhi più bello, all'essere stimabile ai miei.
51 - Epoca IV, Cap. 17.
52 - Epoca IV, Cap. 31.

linecol.gif (2432 byte)


Biblioteca

Progetto Settecento

Fausernet

© 2001 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 aprile 2001