Giuseppe Bonghi

 Introduzione alle Grazie

di Ugo Foscolo

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         Nel 1812 il Foscolo, da qualche tempo malato di febbri, parte per la Toscana per curarsi. Durante il viaggio si ferma a Bologna, dove rivede la bella e famosa Cornelia Martinetti. A Firenze rivede la Eleonora Nencini, che era già stata confidente del suo amore per Isabella Roncioni; è durante questa dimora a Firenze, che dura dall’autunno 1812 fino al luglio dell’anno successivo, che il Foscolo concretizza un primo e vero disegno, che rimarrà immutato nonostante le molte modificazioni che la struttura subirà man mano che la concezione del carme si verrà allargando, sia passando da un Inno solo a tre Inni sia allargando l’ampiezza degli argomenti e quindi dei significati che voleva trasmettere ai suoi lettori.
        
A Firenze, dunque, vive quasi un anno, affittando la villa di Bellosguardo, posta su un bellissimo poggio dal quale lo sguardo poteva spaziare sui colli fiorentini e sulla stessa Firenze: su un panorama straordinario che avrebbe potuto essere giustamente abitato dalle stesse Grazie, forte e civile allo stesso tempo. E d’altronde il poeta non poteva che essere innamorato di quel paesaggio, dopo averlo ammirato e descritto nei Sepolcri, e aver comunicato tutta la sua commozione nel veder raccolte in esso "le itale glorie".
        
All’Aristocrazia fiorentina viene presentato da Luisa Stolberg, contessa d’Albany, che teneva in Firenze un famoso e frequentato salotto letterario. La contessa, già avanti negli anni, rotta ad ogni intrigo anche un po’ malizioso e con un occhio talvolta malevolo verso le giovani belle e spesso avvolte in una superbia frutto più della loro bellezza e gioventù che di un carattere maligno dopo aver conquistato il centro dell’attenzione generale scalzando le Signore mature e un po’ attempate, divenne protettrice e consigliera del poeta, che nel frattempo aveva conosciuto Quirina Mocenni Magiotti, che nella vita di Foscolo assumerà un ruolo importante e diverrà famosa con l’appellativo di "Donna gentile", infelicemente sposata con un uomo debole e malato di mente, l’unica che seppe conservargli il suo amore negli anni, e alla qualesempre potè rivolgersi anche dall’esilio svizzero e britannico e che riuscì a sopportare la sua "indole burrascosa".
        
Proprio a Bellosguardo, nella villa dell’Ombrellino, Foscolo trova l’ambiente ideale per rimettersi dalla malattia e per iniziare la stesura del carme delle Grazie, ispirato al gruppo marmoreo del Canova, e in particolare alla statua di Venere che lo scultore aveva terminato per la Galleria degli Uffizi e che verrà acquistato dal Duca di Bedford, (nel 1822 "adorna la galleria delle sculture nell'abbazia di Woburn" – Foscolo, Dissertazione) proprio quando Ugo giunge a Firenze; col carme Foscolo intendeva giungere all’espressione più compiuta del mondo classico attraverso una poesia tessuta di quella armonia che può essere dono solo "delle tre Dee e di Venere".
        
Le Grazie sono il canto elevato alla bellezza e all’amore, alla donna e all’armonia delle sue forme, alla visione della donna nella sua triplice espressione identificabile nella poesia, nella musica e nella danza. Quando la struttura del Carme comincia a farsi sempre più complessa, Foscolo passa dalla concezione in un solo Inno a quella in tre Inni (vedi il passaggio dal primo al terzo Sommario), presumibilmente nel mese di maggio del 1813, identificando le tre Grazie con tre donne che fino a quel momento avevano rappresentato per lui l’amore e la gioia di vivere: Eleonora Nencini, di Firenze, Cornelia Martinetti di Bologna e Maddalena Bignami di Milano, ciascuna con le proprie caratteristiche, che esprimono la bellezza animatrice di gioia ed armonia, fondamento di una specie di filosofia della bellezza.
        
Nella prima divisione in tre Inni, come scrive Giuseppe Chiarini nel suo saggio, il primo doveva "celebrare le lodi della suonatrice d’arpa, il secondo della donna delle api e il terzo della danzatrice".
        
Vediamo ora due schemi che esemplificano il lavoro sulle Grazie:

primo schema

tre dee
tre Grazie
tre Muse

tre donne

tre caratteristiche o sistemi

significato

inno 1: più storico perchè illumina la vita della Grecia antichissima e le origini dell’uomo e della sua civiltà

Venere : bella natura apparente

Eleonora Nencini

Firenze

musica
beltà
suonatrice
- storico

animo temprato di dolce pietà per gli effetti della musica

inno 2: più civile perchè ci riporta all’epoca presente, Ottocento, con possibile maggiore incivilimento dell’Italia

Vesta: nume verginale e custode del fuoco eterno che anima i cuori gentili

Cornelia Martinetti

Bologna

poesia

virtù

pittura poetica

Fantasia espressa dalla amabilità della parola –

La poesia congiunge

inno 3: più metafisico, perché ci trasporta in un mondo ideale dopo che il potere della bellezza e delle arti ha avuto il sopravvento sulle passioni umane

Pallade: dea delle arti consolatrici della vita e maestra degli ingegni

Maddalena Bignami

Milano - i vv finali dell’inno terzo cantano l’amore di Ugo per lei

danza ingegno – ballerina - metafisico - morale allegorica

Le Grazie che si mostrano allo sguardo nella eleganza dei gesti

secondo schema – Tratto dalla "Dissertazione"

Lavorano al velo

Tre Dee

Pallade – Dirige il lavoro delle molte Dee intorno al velo

Psiche - siede silenziosa, compresa dalla memoria della lunga serie dei suoi affanni, e tesse

Ebe - viene tacitamente tra le altre Deità, e dal suo vaso spande ambrosia sulla tela fatale, e la rende incorruttibile

Tre Muse – solo tre su nove, che corrispondono a tre donne amate dal poeta (vedi schema precedente)

Tersicore - si volge intorno al telaio e a Psiche danzando per divertirla e animarla a finir l'opera

Talia – suona la lira

Erato – ammaestra Flora e le detta cantando le mille varietà dei colori in gruppi di figure e e volti

Tre Parche - le incomprensibili Deità di Platone, coronate di quercia e avvolte in lunghi manti di porpora

Cloto – Lachesi – Atropo – mettono sulla spola una porzione dello stame (il filo dell’ordito) interminabile (quello di che il destino fila la vita degli Dei, e che trasparente e flessibile come l'aria ha di più lo splendore e la durezza del diamante

Tre Ore

traggono i fili dell'ordito dai raggi del sole e li preparano per il telaio

Tre Dee che si adoperano a farne gli adornamenti

Iride - dà i colori

Flora - Flora disegna figure e gruppi e li colora ammaestrata da Erato

Aurora - adorna i lembi del velo con rose, ignote fino allora alla terra, benchè i mortali ne avessero sentita la fragranza, indizio d'alcun essere celeste che s'avvicina

 

Sul piano dell'invenzione, cioè della creazione del contenuto e della sua disposizione, della contestualità storica sia della memoria dell’antica classicità greca che della attuale (ai tempi foscoliani, corrispondenti agli anni 1812-1813 e quindi alla fine dell’Impero Napoleonico, possiamo distinguere questi elementi, sulla scorta del manoscritto di Valenciennes:

Secondo il sistema poetico, Le Grazie sono deità intermedie fra il cielo e la terra, e ricevono da' Numi tutti que' doni che esse vanno poi dispensando a' mortali.

Secondo il sistema storico, le Deità diffusero i loro benefizi più particolarmente alla Grecia antica dov'ebbero l'origine, e all'Italia dov'hanno trasferita la loro sede.

Secondo le idee metafisiche, la grazia è una delicata armonia che spira (?) contemporaneamente spontanea dalla beltà corporale, la bontà del cuore e la vivacità dell'ingegno, congiunto in sommo grado in una sola persona, e che ingentilisce sommamente (?) e consola la vita educando gli uomini all'idea divina del bello, al piacere della virtù ed allo studio delle arti, che con l'imitazione possono perpetuare e moltiplicare gli effetti delle Grazie .... nelle poche persone che sono... ornate di mano della natura.

Questi tre sistemi, poetico storico e metafisico, costituiscono la macchina del Carme, che è tutto allegorico.

Per questo:

il primo Inno è intitolato Venere, divinità che ha per distintivo la bella natura apparente;

il secondo Inno è intitolato Vesta, nume verginale e custode del fuoco eterno che anima i cuori gentili;

il terzo Inno è intitolato Pallade, dea delle arti consolatrici della vita e maestra degli ingegni.

- ma quanto al disegno aggiungi a questa la prima nota dell'Inno secondo; e quanto allo stile la prima del terzo, e avrai un'idea generale del Carme.

Mentre lavorava al Carme un complesso di fatti, e soprattutto l’amore per la Bignami, lo costringe a partire da Bellosguardo per Milano il 24 luglio. Un mese dopo, ai primi di settembre, se ne allontana per andare a fare una rapida visita ai suoi familiari a Venezia; riparte per Firenze dove resta un paio di mesi per tornare a Milano. Si reca a casa Bignami, ma una grave malattia colpisce il maggiore dei suoi figli: ma una volta guarito il bambino si acuisce la gelosia del marito nei confronnti di Foscolo che è così costretto a spezzare in pratica il rapporto con la donna.

Ma forse il ritorno a Milano non era stato causato tanto dall’amore per la Bignami, quanto da una nuova conoscenza amorosa che aveva il nome di Lucietta Battaglia, per la quale era funestamente impazzito, come scrive alla Quirina Magiotti.

Verso la fine del 1814 scrive alla Magiotti che ha ormai quasi terminato il Carme alle Grazie, ma non finito: ma il destino stava per portare definitivamente il poeta fuori dall’Italia. Costretto dalle nuove vicissitudini abbandona il Carme per non porvi più mano, pur ripensandoci qualche volta, come è dimostrato in due lettere del 1818 (alla Magiotti e a Silvio Pellico).

In edizione HTML presentiamo le tre più importanti edizioni del Carme:

a) l’edizione Chiarini, del 1904, sicuramente la più importante sul piano critico, l’unica pubblicazione che cerca di mettere insieme i frammenti seguendo il Sommario terzo senza violentare la volontà del poeta con aggiunte arbitrarie o altro e proponendo ai lettori tutti i frammenti dei tre Inni per un totale di circa cinquemila versi;

b) l’edizione Ferrari, che parte dall’edizione Chiarini, ricalcandola e togliendo quelle parti che non corrispondono alla volontà del poeta;

c) l’edizione Orlandini del 1848, che il critico fece servendosi anche dei suggerimenti della Magiotti (la Donna gentile): Orlandini presentò il Carme in tre Inni

 

Nella Dissertazione, scritta in inglese nel 1822 e che noi offriamo integralmente in edizione HTML e in italiano, critici più recenti hanno individuato un ulteriore sommario, o meglio un racconto del carme, non diviso rigidamente in tre inni, presentato come i resti di un antico inno greco:

"I frammenti di quest'inno greco sono per verità curiosissimi e di grande importanza, conservando tradizioni che ci erano sconosciute fin qui, intorno alla mistica mitologia delle Grazie. Noi li produrremo qui in una versione italiana, dando loro talvolta forma di parafrasi, e traducendoli talvolta letteralmente.

Le Grazie erano Deità poste in mezzo fra gli uomini e gli Dei; abitavano sulla terra invisibili ai mortali, eppur facendo sentire intorno i buoni effetti di lor presenza. Secondo il sistema simbolico del politeismo che assegnava un pianeta a ciascun iddio, il globo della terra consideravasi sottoposto alla immediata influenza d'Amore, il quale fecondandolo, infiammava tutti i suoi abitatori di ardenti passioni, simili a quelle che tuttavia imperversano tra le belve e i cannibali. Venere, che secondo lo stesso sistema era il simbolo della natura universale, mossa a pietà del genere umano, vedendo che esso non era capace di migliorare e perfezionarsi, creò le Grazie e primamente comparve con esse a Citèra. Colà, non si erano mai udite preci ai numi - nè mai vedute danze giulive - nè cantici d'imeneo erano mai risuonati; ululati di bestie rapaci e latrar di cani ferivano l'aria di continuo; e tutto era pieno di terrore e spavento pel fischiar degli strali, per le grida degli uomini contendentisi l'orso da loro ucciso, e pei gemiti dei cacciatori feriti. Cerere avea fatto loro, già tempo, il dono dell'aratro, e, provvida Dea, avea chiamato Bacco che adornasse di vigneti i colli di Citèra. - Ma indarno: il vomere irrugginì abbandonato entro il solco che appena avea cominciato a segnare; e i grappoli furono divorati, prima che cominciassero a imporporarsi dei raggi di un sole d’autunno. Ma non sì tosto comparve Venere con con le Grazie in mezzo agli abitatori di Citèra, i cacciatori, le donnzelle, i fanciulli lasciarono cadersi di mano gli archi e gli strali e d'un tratto passarono dal terrore alla meraviglia, dalla ferocia alla gentilezza: lasciarono la caccia e divenner pastori.

Non prieghi d'inni o danze d'imenei,
Ma di veltri perpetuo l'ululato
Tutta l'isola udia, e un suon di dardi,
E gli uomini sul vinto orso rissosi,
E de’ piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l'aratro
A que' feroci; invan d'oltre l'Eufrate
Chiamò un di Bassarèo, giovane dio,
A ingentitir di pampini le rupi:
Il pio strumento irrugginia su' brevi
Solchi, sdegnato; e divorata, innanzi
Che i grappoli recenti imporporasse
A' rai d'autunno, era la vite: e solo
Quando apparian le Grazie, i cacciatori
E le vergini squallide, e i fanciulli
L'arco e il terror deponean, ammirando.

All’apparir delle Grazie, la terra si coperse di fiori; ma quelli esseri divini non se ne adornarono: Venere solamente:

Mille habet ornatus, mille decenter habet.

Le Grazie son sempre ignude, adorne di loro natia amabilità, protette dall'innocenza propria e dalla innocenza che ispirano,

Gratia cum Nymphis geminisque sororibus audet
Ducere nuda choros.

Intrecciano viole e rose bianche, e quelle trecce avvolgono a un ramoscello di cipresso, e aggiuntevi delle perle (le perle che coronavano Venere quando emerse dal fondo dell'oceano) offrono siffatta ghirlanda alla madre loro. D'allora in poi i Greci usarono sempre di cantar inni alle Grazie all'ombra del cipresso e di offrire sul loro altare una tazza di latte ghirlandata di bianche rose, perle e viole. - I versi che seguono sono tradotti letteralmente da uno dei frammenti greci.

Fu quindi
Religïone di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar gl'inni
Sotto a' cipressi ed offerire all'ara
Le perle, e il primo fior nunzio d'aprile,

Donde appare che le offerte di tortore, colombe e frutta che, nel romanzo pastorale di Longo, Dafni e Cloe porgono alle tre Grazie, debbono essere innovazioni di una età posteriore. Secondo i riti più antichi, i sacrifizi alle Grazie erano di latte, in memoria della introdotta vita pastorale, le cui pacifiche arti eran succedute alle selvagge abitudini della caccia; e si usavano ghirlande di cipresso per ciò che il cipresso era fra gli emblemi della morte, non obliata mai dagli antichi nelle festive adunanze: e quella mesta allusione che spesso incontrasi nei canti dei conviti e nelle giulive canzoni d'Anacreonte e d'Orazio non solamente ha in sè un proposito morale, ma fa ancora in poesia l'effetto d'un chiaroscuro.

L'idea di rappresentare le Grazie come ancelle ministre di Venere, addette all'uffizio di ornarne la persona, sembra venuta dopo i tempi di Omero. Ma siccome, nel vero, tutti gli allettamenti della bellezza derivano dalle Grazie, l'allegoria fu immaginata acconciamente, ed ha suggerito molte belle immagini ai poeti antichi, ed eleganti composizioni e disegni agli artisti.

In quest'inno greco Venere si fa vedere nel momento che sorge dall'Oceano; ed una delle Grazie asterge le chiome stillanti della Dea e le compone a trecce; un'altra invita i Zeffiri a predar l'ambrosia dal seno di Venere per fecondarne i fiori di primavera; mentre la terza spande un velo su le belle forme della Dea, affinchè non sieno profanate dal cupido sguardo degli uomini ispidi ancora ed incolti.

L'una tosto a la Dea col radïante
Pettine asterge mollemente e intreccia
Le chiome de l'azzurra onda stillanti;
L'altra ancella a le pure aure concede,
A rifiorire i prati a primavera,
L'ambrosio umore ond'è irrorato il petto
De la figlia di Giove; vereconda
La lor sorella ricompone il peplo
Su le membra divine, e le contende
Di que' mortali attoniti al desio.

         Tutti i pensieri ond'è composto l'estratto seguente si trovano in diversi frammenti dell'inno; e provano abbastanza, che gli antichi credevano la coltura della razza umana essere stata opera delle Grazie.
         Poichè Venere ebbe dapprima introdotto le Grazie alla vista dei mortali in Citèra, le lasciò per tre giorni andare per la Grecia; la cui geografia è così descritta da mostrare o che il poeta appartenne ad un'età antichissima, o che egli desiderò far credere che il suo inno era di quelli attribuiti ad Omero.

" Citèra non era ancor circondata dalle onde del mare: perchè là, dove ora noi vediamo le navi spander le vele ai venti, i nostri maggiori vedeano una negra foresta stendersi coll'ombra sua. "

" Di là il culto degli Dei era sbandito, i figli della terra si guerreggiavano l'un l'altro a morte; e il superstite vincitore facea convito delle membra del caduto nemico. Come prima quei selvaggi ebber visto il carro delle Grazie e della madre, mandarono orrende grida e misero mano ai ferri. La Dea stringendosi al seno le giovinette figlie trepidanti e coprendole del suo velo gridò: - Sommergiti, o foresta! - e di subito la foresta e il terreno ond'era surta e che allora congiungeva Citèra al continente della Laconia, disparve e fece via al mare. "

Ancor Citèra

Del golfo intorno non sedea regina;

Dove or miri le vele alte su l’onda,

Pendea negra una selva ed esiliato

N'era ogni Dio da' figli della terra

Duellanti a predarsi: e i vincitori

D'umane carni s'imbandian convito.

Videro il cocchio e misero un ruggito,

Palleggiando la clava. Al petto strinse

Sotto al suo manto accolte, le tremanti

Sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva!

Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali

Forse eran tutti i primi avi dell'uomo!

Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio

Delirar di battaglia; e se pietose

Nel placano le Dee, spesso riarde

Ostentando trofeo l'ossa fraterne.

" I tre dì che le Grazie stettero nella Grecia cangiarono l'aspetto del paese, stato fino allora irto di foreste e insanguinato dai cannibali, in un giardino popolato di cultori. "

Si ha pure in questi frammenti alcuna traccia di quelle pratiche religiose che i Greci primamente sostituirono ai sacrifizi umani. A spiegar questi versi sarebbe mestieri avventurarsi troppo nelle congetture e supplire alle lacune con tradizioni appartenenti ad altri periodi dell'antichità.

È ben da lamentare che i tempi abbian reso quasi affatto illeggibile un lungo tratto che sembra aver descritta l'influenza delle Grazie non solo nel perfezionare e far progredire le belle arti, ma nel farle primamente apparire in Grecia. Ciò nondimeno è chiaro che l'autore dell'inno seguiva la dottrina, che dall'armonia riconosceva l'origine delle leggi di natura e le forme impresse nelle varie opere della potenza creativa.

Venere, nel momento di lasciar la terra per rendersi all'abitazione degli Dei, menò le Grazie sulla cima del monte Ida, e pervenuta a quell'altezza dove le creste del monte apparivano colorate d'un roseo celeste e dalle stelle pareano effondersi fiumi di aurea luce, accomiatossi dalle sue figlie, dicendo loro che, le regioni celesti essendo felici abbastanza, le Grazie doveano rimanere alla terra, dov'erano assai sventure che domandavano conforto, e il Cielo affiderebbe loro molti beni da dispensare fra gli uomini. " Quando gli Dei, continuava Venere, avranno deliberato di non sopportare più a lungo le iniquità degli uomini, ma di far loro sentire quanto pesi la punizione, io vi ritrarrò nel Cielo framezzo ai turbini e alle folgori che circondano mio padre, e voi li mitigherete. Ora io vi lascio, ma tosto che sarò giunta alle stelle, voi udirete scendere dal Cielo l'armonia, la cui virtù solo per voi può esser diffusa fra i mortali. Essa ispirerà, dirigerà la mente degli uomini per alleggerirne i travagli e le pene, e liberarli dal terrore della morte. I campi elisi vi saranno anch'essi gradevole albergo; colà rallegrete del vostro sorriso i poeti che colsero allori con mani incontaminate, principi che regnarono benigni, giovani madri che non diedero mai a suggere ai loro bamboli il latte di una straniera, modeste fanciulle che non tradirono mai il segreto del loro amore, ma nel fior della vita lo si recarono inviolato nella tomba, e giovani valorosi che caddero combattendo alla difesa della patria. Siate immortali, ed eterna sia la vostra bellezza. "

Mentre proferiva queste ultime parole, e fissi gli occhi intentamente nelle figlie, la Diva impartì loro la carnagione e la freschezza dell'aurora, e lasciolle. Le Grazie continuarono a riguardare verso di lei cogli occhi suffusi di lagrime; ed ella, quando ebbe quasi raggiunto le celesti magioni, si volse a guardar le sue figlie, e disse: " Il destino vi sta apparecchiando afflizioni che vi faranno degne di gioja immortale. "

Non appena la Dea ebbe ripreso albergo nel suo pianeta, tutto quanto il Cielo fu commosso delle note giulive dell'armonia dell'universo.

E solette radean lievi le falde

De l'Ida irriguo di sorgenti; e quando

Fur più al Cielo propinque, ove una luce

Rosea le vette al sacro monte asperge,

E donde sembran tutte auree le stelle,

Alle vergini sue, che la seguieno

Mandò in core la Dea queste parole:

- Assai beato, o giovinette è il regno

De' Celesti ov'io riedo; a la infelice

Terra ed a' figli suoi voi rimanete

Confortatrici: sol per voi sovr’essa

Ogni lor dono pioveranno i Numi:

E se vindici sien più che clementi,

Allor fra' nembi e i fulmini del Padre,

Vi guiderò a placarli. Al partir mio

Tale udirete un'amonia dall'alto,

Che diffusa da voi farà più liete

Le nate a delirar vite mortali,

Più deste all'Arti e men tremanti al grido

Che le promette a morte. Ospizio amico

Talor sienvi gli Elisi: e sorridete

A' vati, se cogliean puri l'alloro,

Ed a’ prenci indulgenti ad a le pie

Giovani madri che a straniero latte

Non concedean gl'infanti, e a le donzelle

Che occulto amor trasse innocenti al rogo,

E a' giovinetti per la patria estinti.

Siate immortali, eternamente belle! -

Più non parlava, ma spargea co' raggi

De le pupille sua sopra le figlie

Eterno il lume da la fresca aurora,

E si partiva: e la seguian cogli occhi

Di lagrime suffusi, e lei da l'alto

Vedean conversa, e questa voce udiro;

- Daranno a voi dolor novello i fati

E gioja eterna. - E sparve; e trasvolando

Due primi cieli, s'avvolgea nel puro

Lume deiresire suo. L'udì Armonia,

E giubilando l'etere commosse.

Questa dottrina dell'armonia dell'universo, sembra essere stata esposta e invigorita, anzi che inventata, da Pitagora; essa attribuisce ogni perfezione od imperfezione, qualunque virtù o vizio, la felicità e le miserie che si ritrovano fra gli uomini ad un maggiore o minor grado di armonia. Laonde, per rispetto alle belle arti, come la musica dipende dall'armonia de' suoni, così la scultura dall'armonia delle forme, e la pittura dall'armonia delle linee e dei colori. Nella stessa guisa il più o meno di felicità goduta da ciascheduno sta in ragione dell'armonia che regna nelle sue passioni, e noi siamo infelici per effetto di discordia o di dissonanza fra' nostri sentimenti. Scosse improvvise, commozioni violente, perturbando, squilibrando la mente umana, mettono in noi lo stordimento e l'agitazione, ed allora ne va smarrita ogni amabile idea, ogni grazioso sentimento. E però smodata gajezza e dolore profondo sono ignoti alle Grazie; queste Deità sorridendo talora con temperata letizia, e talor sospirando con gentile pietà, fanno a quando a quando che l'uom si ricordi di essere stato affidato alle alterne cure del piacere e del dolore, come a due guide che debbono sostenerlo, a correr diritto o sorvolare per lo spazio di vita assegnatogli. Il piacere gli dà forza e coraggio a tollerare, il tocco crudele del dolore, dal quale gli viene insegnato il cammino della virtù e della gloria.

Rimembran come il Ciel l'uomo concesse

A le gioje e agli affanni, onde gli sia

Librato e vario di sua vita il volo,

E come a la virtú guidi il dolore,

E il sorriso e il sospiro errin sul labbro

De le Grazie; e a chi son fauste e presenti,

Dolce in core ei s'allegri e dolce gema.

Ma come le violente passioni avrebbero distrutto le più miti aspirazioni delle Grazie, sovvenne al poeta l'avventuroso pensiero di proteggere quelle Deità con un velo dagli assalti dell'Amore, che governa questo globo impetuosamente e da tiranno. È sì trasparen quel velo, che da un lato non nasconde, dall’altro non adombra le bellissime forme a guisa di amuleto invisibile le difende dal fuoco delle passioni divoratrici.

Di questo velo fu per avventura creduto che altro non fosse se non un simbolo di modestia; ma se si consideri in che modo è descritto, ci è mestieri supporre che nella sua allegoria avvolgeasi un senso più astruso e molteplice. Esso è lavoro di molte Dee, che sono dirette da Pallade. I fili dell'ordito son tratti dai raggi del sole e preparati per il telaio dalle Ore; una porzione dello stame interminabile (quello di che il destino fila la vita degli Dei, e che trasparente e flessibile come l'aria ha di più lo splendore e la durezza del diamante) è messo sulla spola dalle Parche. Psiche siede silenziosa, compresa dalla memoria della lunga serie dei suoi affanni, e tesse; mentre Tersicore le si volge intorno al telaio, danzando per divertirla e animarla a finir l'opera. Iride dà i colori e Flora li moltiplica in mille varietà di tinte e figure, di che eseguire il ricamo, che Erato le detta cantando al suono della lira di Talia.

Il ricamo è fatto di gruppi, che rappresentano la gioventù, l'amor coniugale, l'ospitalità, la pietà filiale e la tenerezza materna. Le immagini e la morale del gruppo mentovate per ultimo danno un'idea abbastanza esatta degli altri.

" Una giovine madre seduta alla culla del suo primo nato, temendo che quei gemiti siano pronostico di vicina morte, si rivolge al Cielo con tutta la importunità delle preghiere e delle lagrime. - Oh quanto è felice quella tenera madre che non sa! dice Erato a Flora: ella non conosce che ai fanciulli è la morte un benefizio, e che i loro pianti sono luttuosi presagi dei travagli e delle pene a cui l'uomo è nato. "

Non appena Flora ha finito il ricamo, l’Aurora adorna i lembi del velo con rose, ignote fino allora alla terra, benchè i mortali ne avessero sentita la fragranza, indizio d'alcun essere celeste che s'avvicina. Nè però il velo era compiuto. Ebe viene tacitamente tra le altre Deità, e dal suo vaso spande ambrosia sulla tela fatale, e la rende incorruttibile.

Mentre opravan le Dee, Pallade in mezzo

Con le azzurre pupille amabilmente

Signoraggiava il suo virgineo coro.

Attenuando i rai aurei dei sole,

Volgeano i fusi nitidi tre nude

Ore, e del velo distendean l'ordito.

Venner le Parche di purpurei pepli

Velate e il crin di quercia; e di più trame

Raggianti, adamantine, al par de l'etra,

E fluide e pervie e intatte mai da Morte,

Trame onde filan degli Dei la vita,

Le tre presaghe riempiean la spola.

Né man dell'altre innamorata, all'opra

Iri scese fra' Zefiri; e per l'alto

Le vaganti accogliea, lucide nubi

Gareggianti di tinte, e sul telaio

Pioveale a Flora a effigiar quel velo;

E più tinte assumean riso e fragranza

E mille volti dalla man di Flora.

E tu, Psiche, sedevi, e spesso in core,

Senz'aprir labbro, ridicendo: " Ahi, quante

Gioie promette, e manda pianto Amore! "

Raddensavi col pettine la tela.

E allor feconde di Talia le corde,

E Tersicore Dea, che a te dintorno

Fea tripudio di ballo e ti guardava,

Eran conforto a' tuoi pensieri e a l'opra.

Correa limpido insiem d'Erato il canto

Da que' suoni guidato; e come il canto

Flora intendeva, e sì pingea con l’ago.

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;

E nel mezzo del velo ardita balli,

Canti fra ‘l coro delle sue speranze

Giovinezza: percote a spessi tocchi

Antico un plettro il Tempo; e la danzante

Discende un clivo onde nessun risale.

Le Grazie a' piedi suoi destano fiori

A fiorir sue ghirlande; e quando il biondo

Crin t'abbandoni e perderai '1 tuo nome,

Vivran que' fiori, o Giovinezza, e intorno

L'urna funerea spireranno odore.

Or mesci, amabil Dea, nivee le fila;

E ad un lato del volo Espero sorga

Dal lavor di tue dita; escono errando

Fra l'ombre e i raggi fuor d'un mirteo bosco

Due tortorelle mormorando ai baci;

Mirale occulto un rosignuol, e ascolta

Silenzïoso, e poi canta imenei:

Fuggono quelle vereconde al bosco.

Mesci, madre dei fior, lauri alle fila;

E sul contrario lato erri co' specchi

Dell'alba il sogno, e mandi a le pupille

Sopite del guerrier miseri i volti

De la madre e del padre allor che all'are

Recan lagrime e voti; e quei si desta,

E i prigionieri suoi guarda e sospira.

Mesci, o Flora gentile, oro alle fila;

E il destro lembo istorïato esulti

D'un festoso convito: il Genio in volta

Prime coroni agli esuli le tazze.

Or libera è la gioia, ilare il biasmo,

E candida è la lode. A parte siede

Bello il Silenzio arguto in viso e accenna

Che non volino i detti oltre le soglie.

Mesci cerulee, Dea, mesci le fila;

E Pinta il lembo estremo abbia una donna

Che con l'ombre i silenzi unica voglia,

Nutre unaa lampa su la culla, e teme

Non i vagiti del suo primo infante

Sien presagi di morte; e in quell'errore

Non manda a tutto il cielo altro che pianti.

Beata! ancor non sa quanto agl'infanti

Provido è il sonno eterno, e que' vagiti

Presagi son di dolorosa vita.

Come d'Erato al canto ebbe perfetti

Flora i trapunti, ghirlandò l'Aurora

Gli aerei fluttuanti orli del velo

D'ignote rose a noi; sol la fragranza,

Se vicino è un Iddio, scende alla terra.

E fra l'altre immortali ultima venne

Rugiadosa la bionda Ebe, costretti

In mille nodi fra le perle i crini,

Silenzïosa, e l'anfora converge:

E dell'altre la vaga opra fatale

Rorò d'ambrosia; e fu quel volo eterno.

Poi su le tre di Citerea gemelle

Tutte le Dive il diffondeano; ed elle

Fra le fiamme d'amore ivano intatte

A rallegrar la terra; e sì velate

Apparian come pria vergini nude.

Non è improbabile che le più antiche pitture storiche fossero rappresentate per trapunti nelle vesti. Omero, che non fa mai motto di pittura, parla degli arazzi come di lavori cui venivano avvezze le figlie e le mogli dei re. Quando Paride si arma per andare a combattere con Menelao, Elena siede al telaio:

tessea

A doppia trama una splendida e larga

Tela, e su quella istorïando andava

Le fatiche che molte a sua cagione

Soffriano i Teucri e i coturnati Achei.

L'espediente cui s'appigliano talora i poeti, di descrivere pitture e sculture storiche, invece di parlare in loro propria persona, produce il doppio vantaggio e di variare il tono della narrativa e d'introdurre episodi con più naturalezza. Virgilio ed alcuni epici moderni nel valersi di questo privilegio ne hanno abusato, e senz’aggiungere alcuna novità all’antico espediente, le loro imitazioni rimangono di gran lunga inferiori alla descrizione degli scudi di Achille e di Ercole lasciataci da Omero e da Esiodo. Ma il trapunto del velo delle Grazie, benchè sembri ispirato dagli stessi prototipi, è nondimeno trattato in guisa, che ha vista di concepimento originale. Figure e gruppi non sono descritti dal poeta, ma Flora li disegna ella medesima, e li colorisce ammaestrata da Erato, e pare, mentre noi stiamo ascoltando il canto delle Muse, che quelle figure l'una dopo l'altra sorgano e si muovano innanzi agli occhi nostri. Anche il concetto morale di esso è ovvio; perchè, sebbene Aristotile, o piuttosto i dommatici interpreti de' suoi oracoli, insegnino il contrario, i poeti non devono scriver versi a diletto solamente degli oziosi: gli antichi fecero ciò veramente, in special modo quelli che scriveano inni da esser cantati nei tempj mentre venivano offerti i sacrifizi nelle feste solenni. Quanto a tutti gli altri inni pervenuti fino a noi (da quelli attribuiti ad Omero ed Orfeo a quelli de' poeti della scuola alessandrina), il misticismo di che sono avviluppati era inteso a farne altrettanti strumenti che consacrassero e conservassero favolose tradizioni e riti di culto, piuttosto che a dirigere gli usi e costumi. Forse il solo che fa eccezione a ciò è il carme secolare di Orazio.