Giuseppe Bonghi
Introduzione
a
L'esclusa
di
Luigi Pirandello
-
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Notizie sull'autore
Luigi Pirandello
nasce ad Agrigento (l'antica colonia greca di Akragas che si
chiamerà Girgenti fino al 1927) in una tenuta paterna detta
"il Caos", da Stefano Pirandello, garibaldino durante
la spedizione dei Mille, e da Caterina Ricci-Gramitto, sposata
nel 1863, sorella di un suo compagno d'armi, di famiglia
tradizionalmente antiborbonica (questo dato autobiografico sarà
importante durante la stesura del romanzo I vecchi e i giovani).
Frequentata la
scuola nella città natale fino al secondo anno presso l'Istituto
Tecnico, dal 1880 lo troviamo a Palermo dove frequenta gli studi
liceali e dove la famiglia si era trasferita dopo un dissesto
finanziario. Conseguita la licenza liceale si iscrive
contemporaneamente sia alla Facoltà di Legge che a quella di
Lettere dell'Università di Palermo (nota 1) e nel 1887 si
trasferisce alla Facoltà di Lettere dell'Università di Roma,
dalla quale è costretto, dopo un diverbio con il preside della
Facoltà e docente di Latino Onorato Occioni, ad allontanarsi. Si
iscrive, allora, all'Università di Bonn dove si reca con una
lettera di presentazione del Professore di filologia romanza
Ernesto Monaci.
A Bonn all'inizio
del mese di gennaio 1890, conosce a una festa da ballo in
maschera Jenny Schulz-Lander, alla quale dedica il suo secondo
volume di poesie, dal titolo Pasqua di Gea, una ragazza
("una delle bellezze più luminose che io mi abbia mai
visto", scrive alla sorella Lina) di cui si innamora e che
rivestirà una parte importante nella sua vita anche sul piano
spirituale, in quanto gli rimarrà per sempre dentro l'amarezza
di un amore non realizzato, l'unico vero della sua giovinezza.
Si laurea nel
1891 con una tesi su Suoni e sviluppi di suono della parlata
di Girgenti. Nello stesso anno rientra in Italia e si
stabilisce a Roma con un assegno mensile ottenuto dal padre. Nel
1894 sposa Maria Antonietta Portolano, figlia di un socio del
padre, e l'anno seguente nasce il primo figlio, Stefano.
Dopo le prime
opere di poesia, scritte in Germania, a Roma comincia a
collaborare a giornali e riviste con articoli e brevi studi
critici e nel 1897 accetta l'insegnamento presso l'Istituto
Superiore di Magistero femminile di Roma. Nel 1897 e nel 1899 gli
nascono i figli Rosalia (Lietta) e Fausto. Il 1893 è un anno
particolarmente difficile, perché un allagamento nella miniera
di zolfo del padre, nella quale aveva investito la dote
patrimoniale della moglie, provoca il dissesto finanziario suo e
del padre insieme ai primi segni della malattia mentale della
moglie, che si aggraverà sempre di più fino ad essere
ricoverata in ospedale.
Nel 1901 pubblica
il romanzo L'esclusa (scritto nel 1893) e nel 1902 Il
turno; nel 1904 ottiene il primo vero successo con Il fu
Mattia Pascal. Nel 1908 diventa ordinario dell'Istituto
superiore di Magistero, risolvendo in parte i suoi problemi
economici, e pubblica due importanti saggi: L'umorismo e Arte
e Scienza, che scateneranno un contrasto molto vivace con
Benedetto Croce che si protrarrà per molti anni.
Nel 1909 pubblica
il romanzo I vecchi e i giovani e l'anno seguente rappresenta i
suoi primi lavori teatrali: La morsa e Lumie di Sicilia.
Nel frattempo continua a scrivere e pubblicare novelle che
assumeranno il titolo generale di Novelle per un anno.
Il 1915 è uno
degli anni più tristi della vita di Pirandello sia per l'entrata
in guerra dell'Italia e per il figlio Stefano che parte
volontario per il fronte, dove abbastanza presto verrà fatto
prigioniero, sia per la morte della madre, verso la quale nutriva
un sentimento non solo di amore filiale, ma anche di
partecipazione ai suoi intimi segreti dolori, causati da un
carattere troppo 'vivace' del marito.
Col 1916 comincia
la vera stagione teatrale pirandelliana con Pensaci,
Giacomino!, Liolà e La ragione degli altri,
alle quali seguiranno Così è, se vi pare (1917), Il
berretto a sonagli, Il piacere dell'onestà, La
patente, Il giuoco delle parti, Ma non è una cosa seria,
Tutto per bene, La Signora Morli uno e due, fino ai
Sei personaggi in cerca d'autore, del 1921, opera
rappresentata da Dario Niccodemi, scatenando violenti contrasti
nel pubblico alla prima ma altrettanti consensi già dalla
seconda messa in scena, Enrico IV del 1922, Vestire gli
ignudi (1922), Ciascuno a suo modo (1924), ecc.
Nel 1926 pubblica
l'ultimo romanzo, Uno nessuno centomila e fonda a Roma,
insieme al figlio Stefano, Orio Vergani e Massimo Bontempelli il
Teatro d'arte, nel quale debutterà Marta Abba, giovanissima
interprete che diverrà musa ispiratrice di alcune commedie,
scritte appositamente per lei, con la quale Pirandello stabilirà
un rapporto d'affetti che durerà per tutta la vita.
Nel 1934 riceve a
Stoccolma il premio Nobel per la Letteratura. Muore nel 1936, il
10 dicembre e le sue ceneri verranno tumulate in una roccia nella
tenuta del Caos nella quale era nato 68 anni prima, con funerali
strettamente privati, come aveva scritto nelle sue ultime
volontà.
Punto di vista
Umorismo o realismo
Il romanzo fu
pubblicato a puntate sulla "Tribuna" di Roma, dal 29
giu. al 16 ago. 1901, ma scritto fin dal 1893, primo dei romanzi
pirandelliani. Nella lettera a Luigi Capuana del 1907, premessa
alla prima ristampa in volume del 1908, presso la casa editrice
Treves di Milano, il Pirandello scrive:
"Non so rendermi conto dell'effetto che abbia potuto fare nei pazienti e viziati lettori delle appendici giornalistiche; certo, scene drammatiche non difettano in questo romanzo, quantunque il dramma si svolga più nell'intimo dei personaggi; ma dubito forte che, in una lettura forzatamente saltuaria, si sia potuto avvertire alla parte più originale del lavoro: parte scrupolosamente nascosta sotto la rappresentazione affatto oggettiva dei casi e delle persone; al fondo insomma essenzialmente umoristico del romanzo."
Proprio in
quegli anni Pirandello andava elaborando la teoria
dell'umorismo, che diventerà una vera e propria tecnica
espositiva che prenderà il posto dell'iniziale tecnica
veristica.
Al centro sia
della concezione realistico-verista che di quella umorista
troviamo il fatto, le azioni volontarie o meno dei
personaggi. Secondo il verismo il fatto viene
rappresentato come l'accadimento in atto, senza indagarne le
cause e senza cercare di conoscerne le conseguenze perchè queste
sono naturali e indipendenti dalla volontà stessa dell'ndividuo
che deve subirle senza ribellarsi, altrimenti cadrebbe in una
condizione sociale peggiore della precedente. In Verga sono i
fatti e la condizione sociale che determinano il personaggio,
imponendogli un certo modo di agire, spesso disumano e lontano da
un qualche fondamento di ragionevolezza: sul piano del fatto
ricchi e poveri sono sottomessi allo stesso destino, in quanto
già alla nascita la loro condizione è segnata da limiti precisi
ed invalicabili, contro i quali è inutile ribellarsi, limiti che
ne determinano lo stato di vinti.
Pirandello
prende coscienza fin dai primi anni della sua produzione
letteraria che il fatto non poteva essere rigidamente
costituito, ma doveva essere analizzato nelle sue cause esistenti
all'interno dell'individuo e proposto soprattutto nelle sue
conseguenze, perchè sono queste che peseranno come un macigno
sull'esistenza degli uomini e quindi dei personaggi.
Nei primi anni
della produzione pirandelliana è il fatto in sé ad avere peso,
non le sue conseguenze, che vengono vissute direttamente e mai
subite passivamente; contro di esse, ad esempio, la stessa Marta
si prova a lottare e a vincere in qualche modo, prima con le sue
sole forze (vincendo il concorso per maestra presso il Collegio
che lei stessa aveva frequentato da piccola), poi con l'aiuto di
Gregorio Alvignani e infine rappacificandosi col marito, che non
riesce più a sopportare la separazione, prendendosi l'impegno di
affermare e dimostrare davanti ai compaesani che quel fatto non
è mai avvenuto: perché il ritorno di Marta possa avvenire, il
fatto deve essere cancellato, non deve esistere più, come se non
fosse mai avvenuto. Vediamo come descrive Pirandello il peso che
ha su Marta ciò che è avvenuto:
"Sempre quel nodo, sempre, irritante, opprimente, alla gola. Vedeva addensarsi, concretarsi intorno a lei una sorte iniqua, ch'era ombra prima, vana ombra, nebbia che con un soffio si sarebbe potuta disperdere: diventava macigno e la schiacciava, schiacciava la casa, tutto; e lei non poteva più far nulla contro di essa. Il fatto".
C'era un fatto. Qualcosa ch'ella non poteva più rimuovere; enorme per tutti, per lei stessa enorme, che pur lo sentiva nella propria coscienza inconsistente, ombra, nebbia, divenuta macigno; e il padre che avrebbe potuto scrollarlo con fiero disprezzo, se n'era invece lasciato schiacciare per il primo. Era forse un'altra, lei, dopo quel fatto? Era la stessa, si sentiva la stessa; tanto che non le pareva vero, spesso, che la sciagura fosse avvenuta.
Il fatto schiaccia come un macigno i personaggi, anche quando questo è inconsistente e li costringe a vivere in un determinato modo, a prendere precostituite decisioni (e in una società maschilista è sempre l'uomo che decide, anche per le donne): Marta viene scacciata di casa, dopo essere stata scoperta mentre leggeva una lettera inviatale da Gregorio Alvignani ed è costretta a ritornare presso il padre, la sua famiglia viene infangata inesorabilmente ed emarginata dalla "società civile", della quale non potrà più far parte fino a quando lo stesso fatto non verrà cancellato in modo credibile e verosimile per la massa da colui che aveva preso la prima grave decisione, da Rocco Pentàgora.
Riassunto
Un giorno Marta
Ajala viene sorpresa dal marito Rocco Pentagora mentre sta
leggendo una lettera d'amore che le aveva scritto un giovane del
paese, Gregorio Alvignani; viene scacciata ignominiosamente di
casa, sconvolgendo la tranquillità non solo della propria
unione, ma anche della famiglia degli Ajala. Il padre di Marta
per il dolore si rinchiude in se stesso, abbandona gli affari,
che vanno in malore, e nel giro di qualche settimana muore di
crepacuore: restano tre donne sole, una madre (Agata) e due
figlie (Marta e Maria). Il fallimento dell'impresa paterna mette
sul lastrico le tre donne, che sono costrette anche a lasciare la
casa, trovando qualche aiuto in una vecchia e sfortunata amica,
isolata dalla sua società per uno "sbaglio che aveva
commesso in gioventù".
Marta cerca
lavoro; vince un concorso per insegnare nel collegio che lei
stessa aveva frequentato da ragazza, ma non può prenderne
possesso per le 'chiacchiere' della gente, che si rifiuta di
avere come maestra delle proprie figlie un'insegnante sulla quale
pende l'accusa infamante del tradimento del vincolo coniugale.
Per intervento di Gregorio Alvignani, che nel frattempo era
diventato senatore del regno, Marta ottiene un posto in un
collegio di Palermo, dove si trasferisce con la madre e la
sorella.
A Palermo due
professori si innamorano di lei, il disincantato e poetico
Attilio Nusco e il rozzo e primitivo Matteo Falcone, che,
ciascuno a proprio modo, cerca di manifestarle il proprio amore;
in modo un po' tragico finisce l'innamoramento del Falcone, che
viveva con due vecchie, la madre e la zia, entrambe vedove e
legate a un passato ormai concluso, che non potrà più ritornare
e che le mantiene in un'atmosfera fantastica di sogno e di
irrealtà, una condizione di follia che le salva dalla visione di
una realtà cruda e triste, fatta di solitudine e di isolamento.
Sempre a Palermo
incontra l'ormai celebre Alvignani, dal quale Marta si fa
sedurre, credendo di amarlo e restando incinta. È una nuova
situazione per entrambi, di fronte alla quale l'Alvignani si
sente impreparato e timoroso di perdere non soltanto la
reputazione ma anche la condizione sociale e politica che si era
venuto costruendo.
Una sera Marta
viene chiamata al capezzale di una donna morente: è la madre di
Rocco Pentagora, che vive da sola a Palermo, anche lei scacciata
in gioventù dal marito, che aveva creduto di essere tradito
dalla moglie. Marta telegrafa a Rocco, che accorre, ed entrambi
assistono all'agonia della donna, che muore felice di sapere che
il figlio era sposato con una brava ragazza e che la loro unione
era salda e 'normale'. Rocco ama ancora Marta e le chiede di
ritornare a casa a vivere con lui, ma una cosa complica la
situazione: la donna gli confessa di aspettare un bambino.
Marta non più
innocente ritornerà alla fine col marito con la creatura che
porta in grembo, dopo che innocente era stata scacciata.
Intenzioni dell'autore
Pirandello vuole
mettere in vista le contraddizioni intime dell'animo umano: una
donna innocente viene scacciata di casa, con l'accusa infamante
di tradire il sacro vincolo familiare, scatenando una serie di
piccole o grandi tragedie che sconfinano con la distruzione
fisica (la morte del padre di Marta), spirituale (la pazzia di
Matteo Falcone) e sociale (la posizione di gregorio Alvignani che
non vuole e non sa prendersi le proprie responsabilità).
Da questa
situazione si salvano soltanto coloro che restano ancorati non a
un comune modo di sentire, che spesso si rivela primitivo e
falso, ma a a valori che vanno al di là della quotidiana
realtà, come l'amore, la famiglia, la religione, che non devono
essere visti e sentiti in modo egoistico e individualistico,
secondo interessi particolaristici e materiali, ma essere
collocati nell'ambito di una realtà della quale tutti possano
far parte con eguale dignità e nella quale non esistano segreti
che possano essere visti da ciascuno a proprio modo.
Il desiderio
finale di Rocco Pentagora di fronte all'agonia della madre, che
aveva vissuto lo stesso dramma di Marta, tende proprio a
riappianare una realtà che è stata sconvolta
dall'individualismo e da un rispetto dei valori solo
apparentemente realizzato ma fondamentalmente assente; mentre
prima Rocco si è comportato in quel modo perché così fan tutti
o così tutti avrebbero fatto, alla fine si comporta nel modo che
egli sente più veritiero, perché fondato finalmente sull'amore,
superando convenzioni esteriori.
L'individuo per
potersi salvare finalmente dal disfacimento e dal dramma deve
isolarsi da un contesto sociale fondato sull'interesse e su falsi
ideali e riconquistare individualmente i veri valori, di cui ho
detto sopra.
Descrizione dei personaggi
Gregorio
Alvignani
È certamente una
figura di secondo piano, con una fisionomia non sempre nettamente
delineata in quanto oscilla abbastanza facilmente da una
funzionalità positiva a una funzionalità negativa.
È un personaggio
che non risulta sempre lineare e coerente nei suoi pregi e
difetti, mostrando sia una funzionalità positiva che una
negativa. Come funzionalità positiva rappresenta il
sentimento dell'amore al di fuori della convenzioni sociali;
spesso appare sincero e può rappresentare per Marta un elemento
che può permetterle di innalzarsi non solo non solo sul piano
spirituale ma anche sociale. Il suo amore si contrappone da un
lato a quello di Rocco e dall'altro a quello di Matteo Falcone,
che rappresentano gli altri due gradini della scala sociale e
spirituale, rispettivamente quella mediana e quella della bassa
mostruosità.
Come funzionalità
negativa abbiamo sia l'affermazione indiscutibile del maschio
nella società caratterizzata dal predominio maschilista, al
quale nulla può essere negato perchè maschio, favorito dal
destino, bello, intelligente, colto; sia il modello culturale
della falsità delle classi elevate, che con la facondia e la
cultura affascinano e obbligano gli inferiori ad ubbidire
ciecamente. Anche Marta ubbidisce:
"Sentiva ch'era di quell'uomo elegante, ardito, che le camminava a fianco, ch'era venuto a prendersela improvvisamente; e lo seguiva, come se avesse davvero un diritto naturale su di lei, e lei aveva il dovere di seguirlo...
Aveva perduto affatto la coscienza di sé, d'ogni cosa; e andava innanzi senza volontà, né speranza di poter più sciogliersi da quell'uomo che la avviluppava con la parola commossa". (152)
Matteo
Falcone
Una funzione
particolare assume questo personaggio nel romanzo, fino a
ritagliarsi un proprio spazio compiuto e delimitato senza vivere
di luce riflessa all'ombra della protagonista: quella di mettere
in evidenza che chiunque si poteva innamorare di una donna
esposta in pubblico, sia pure per motivi di lavoro, non protetta
dalla sacralità del vincolo matrimoniale.
La presenza di
Marta scatena nell'animo di Falcone reazioni e sentimenti
impensabili, che il personaggio stesso aveva cacciato via da sé
per sempre, a causa della propria deformità fisica, subita come
ingiusta condanna della natura, anche se ormai accolta
fatalisticamente, aggravata dalla presenza folle della madre e
della zia, mostruosi avanzi di una umanità indefinibile, donne
naufragate nel momento in cui hanno perso la condizione per la
quale sono nate, quella di figlie o di mogli.
La deformità di
Falcone e la sua condizione familiare vengono descritte
dall'autore in modo che risalti l'aspetto grottesco e
disumanizzante dei tre personaggi, l'uno oggetto di timore
inconfessato di fronte alla sua mostruosità, le altre due
oggetto di riso e divertimento per le vicine. Il dramma di Matteo
Falcone è già insito nella sua descrizione (p. 122):
"Era veramente d'una bruttezza mostruosa, e aveva di essa coscienza, peggio anzi: un tragico invasamento. Sempre cupo, raffagottato, non levava mai gli occhi in faccia a nessuno, forse per non iscorgervi il ribrezzo che la sua figura destava; rispondeva con brevi grugniti, a testa bassa e insaccato nelle spalle. I lineamenti del suo volto parevano scontorti dalla rabbiosa contrazione che gli dava la fissazione della propria mostruosità. Per colmo di sciagura aveva anche i piedi sbiechi, deformi entro le scarpe adattate alla meglio per farle andare."
I tre elementi
sottolineati in grassetto sono usati secondo il canone della
poetica realista, ma non verista, in quanto manca la
caratteristica dell'oggettività, e presentano, inoltre, già
netto il dramma del mostruoso Falcone: non potendo alzare gli
occhi in faccia alle persone mai avrebbe potuto stringere
rapporti umani e men che mai rapporti amorosi. Tutto sarebbe
rimasto chiuso nella sua anima, scontorta non solo per il suo
corpo altrettanto scontorto ma anche per la mancanza di rapporti
umani con altre persone.
Gli unici
rapporti di Falcone sono da un lato con gli alunni e il personale
del Collegio e dall'altra con le due vecchie della sua casa: la
madre e la zia, entrambe vedove, entrambe prive di quell'amore
"coniugale", per il quale sono diventate pazze dopo la
morte dei rispettivi mariti, con le quali si è stabilito un
rapporto di amore/odio, di amore in quanto dello stesso sangue,
di odio perchè in esse vede se stesso e la propria impotenza di
fronte alla bellezza della vita; con tutti gli altri si è creato
quasi un muro, fatto di naturale incomprensione e di paura.
Quando esplode il
dramma della follia, ci troviamo davanti a un epilogo che noi
conosciamo già: nella deformità di Falcone e nella sua
conseguente disperata solitudine ritroviamo l'impossibilità di
giungere all'amore con una donna e a maggior ragione
l'irrealizzabilità di essere amato da Marta, molto bella e di
sani costumi, non incline a quelle torture spirituali che
avrebbero potuto spingerla a farsi amare da un mostro.
Per questo la sua
reazione alle parole di Marta non è umoristica ma tutt'al più
veristica.
- Di dove viene? - fece ancora una volta il Falcone, fuori di sé dalla gelosia, tentando di ghermire un braccio di Marta.
- Mi lasci, villano! o grido!
- Gridi, lo faccia venir giù! Sono così, ma ho polsi, perdio, da storcergli il collo come a un galletto! È quel biondo mingherlino dell'altra volta?
- Sì, mio marito! - fece Marta. - Vada a trovarlo!
- Suo marito? Come! Quello è suo marito? - esclamò il Falcone, interdetto, stordito.
Lo scrittore ci fa vedere oggettivamente il personaggio agire, anche se per un attimo ha sperato, oppresso da un destino al quale non può sottrarsi, fulminato dalla notizia che Marta tornava da una visita a "suo marito":
- È suo marito? Senta... senta... Mi perdoni...
- Vuol mettermi alla disperazione? - gli gridò Marta voltandosi e fermandosi un istante.
- Non si disperi... Sono io il disperato! Mi perdoni, abbia pietà di me... merito compassione, non disprezzo... Non sono io il mostro, il mondo è un mostro, mpostro pazzo che ha fatto lei tanto bella e me così... Mi lasci gridar vendetta! Ripari lei, in odio a questo mondo pazzo! Faccia lei la mia vendetta! È una vendetta... è una vendetta..."
Subito dopo vediamo il Falcone che inveisce "contro la gente che tentava di afferrarlo, vociando; urla, divincolandosi" mentre la strada si anima di persone che accorrono sia per curiosare che per "eliminare" quello che ritengono un pericolo per la loro sicurezza e la loro tranquillità. Il giorno dopo tutta la città e in particolare il Collegio (nel quale lavorano sia il Falcone che Marta) sono a conoscenza dell'alienazione mentale del "mostro innamorato", senza sospettarne la vera causa, che resta un segreto per tutti, meno che Marta, che vede aggiungersi un altro motivo d'angoscia alla sua già difficile condizione: quello di perdere il posto se la accusassero di essere la reale causa dell'alienazione mentale di Falcone, come solo un rivale in amore come il Mormoni poteva capire:
- Entrando, il giorno dopo, trepidante, nella sala d'aspetto del Collegio, Marta vi trovò la vecchia, linda Direttrice che conversava col Mormoni e col Nusco.
- Ha saputo, signora?
- Che cosa? - balbettò Marta.
- Il povero professor Falcone!
- Falcone... La signora lo sa: era da aspettarselo! - esclamò Pompeo Mormoni, trinciando in aria uno dei soliti gesti.
A questo punto il Falcone esce di scena dal romanzo, perchè ha esaurito la sua funzione, quella da un lato di rappresentare visivamente per la "massa" la mostruosità della condizione sociale di Marta scacciata di casa per adulterio e dall'altro di dimostrare come la discesa di Marta al fondo della perdizione avesse toccato il punto più basso. La presenza del personaggio Falcone mette in evidenza le due metà di Marta, quella buona e quella mostruosa; la metà buona che tante sofferenze aveva patito, inflitte dalla sordità della gente e del marito, attento più al rispetto esteriore di norme inaccettabili che ai moti veri dell'anima, più all'apparenza che alla sostanza, convive con la metà mostruosa, una "mostruosità che spinge Marta ad accettare l'amore adultero di Gregorio Alvignani non come affermazione liberatoria e cosciente di sè come donna e come essere umano, ma come atto dovuto:
Sentiva che era di quell'uomo elegante, ardito, che le camminava a fianco, ch'era venuto a prendersela improvvisamente; e lo seguiva, come se avesse davvero un diritto naturale su di lei, e lei il dovere di seguirlo. (152)
Ancora una volta si compie il destino della donna, che è quello di una secolare sottomissione all'uomo, vissuta come senso del dovere; ancora una volta il personaggio realista mette in evidenza che la responsabilità dei propri atti non risiede in lui, ma in una forza che tutti domina e alla quale sono sacrificati anche i sentimenti:
Tutti l'hanno voluto... - mormorò tra sé, duramente, per ricacciar la commozione che già le stringeva la gola... - Ormai! Così doveva finire... (159)
Ora si rendeva conto del perchè e del come fosse riuscito così d'un tratto ad averla; si rendeva conto dei sentimenti di Marta per lui. No; ella non lo amava; non gli si era abbandonata per virtù d'amore. Forse in altre condizioni, sì, lo avrebbe amato; non ora... (162)
Tu non mi hai mai amato: non hai amato nessuno, mai! o per difetto tuo o per colpa d'altri; non so. Tu stessa l'hai detto: ti sei sentita spinta da tutti nelle mie braccia... (174)
Proprio la
ribellione di Falcone al suo destino e la patetica richiesta a
Marta di rappresentare la sua vendetta contro una natura malvagia
contengono gli elementi dell'umorismo (avvertimento del contrario
- riflessione - sentimento del contrario), così come verranno
teorizzati nel 1908. Ma l'improvvisa alienazione mentale di
Falcone e il suo farneticare strane vendette non scatenano in noi
nè un moto di riso nè, soprattutto, la riflessione: invece di
essere il fatto iniziale della conoscenza della situazione
del personaggio rappresentano il momento culminante di un dramma
che non potrà essere capito da nessuno, perchè nessuno può
immaginare che grilli possono saltare nella testa di uno che ha i
piedi così (p. 177). Solo Marta può capirlo perché, come
abbiamo visto, li unisce un qualcosa di mostruoso, materiale
nell'uno, spirituale nell'altra.
La funzione di
Falcone nel romanzo viene sostenuta anche dagli altri due
professori del Collegio, il grasso Pompeo Emanuele Mormoni e il
piccolo e timido Attilio Nusco, entrambi sicuri di conquistare il
cuore di Marta, ma vuoti di quell'umana partecipazione che è la
base di ogni sentimento: entrambi restano a livello di macchietta
e ricordano il ben noto fenomeno del cicisbeismo settecentesco
(il cicisbeo era un damerino alquanto ridicolo, il cavalier
servente di una dama, di cui si dichiarava innamorato: un esempio
illuminante sono il Conte e il Marchese nella commedia goldoniana
La locandiera).
La
madre - la sorella
I personaggi
della madre e della sorella Maria hanno la funzione di accompagnatrici
della figura dominante di Marta e sono il simbolo della
condizione femminile nella società patriarcale dominata dalla
figura del padre-padrone e del marito-padrone alla quale non
osano ribellarsi. Sono succube della situazione, umili ancelle
sottomesse che seguoni i voleri del padre/marito prima e di Marta
poi, quasi oggetti che aspettano la loro collocazione.
Troviamo per la
prima volta la figura di Agata Ajala (da notare che di lei
l'autore non ci dà il cognome da nubile, a conferma che la donna
fa parte integrante della famiglia "posseduta" dal
padre padrone) oppressa da due sciagure:
Due erano le sciagure, non una sola. E questa del padre assai più grave di quella di Marta. Perché, a ragionare conun po' di calma e aspettando qualche giorno, la sciagura della figlia forse si sarebbe potuta riparare. Ma col padre non si ragionava.
La signora Ajala già da un pezzo aveva imparato a misurare ogni dispiacere, ogni dolore, non per se stesso, che le sarebbe parso poco o niente, ma in considerazione delle furie che avrebbe suscitato nel marito... (24)
Marta
Marta è la
vittima di una serie di disavventure che non è andata a
cercarsi, piovutele addosso una dopo l'altra. Si sovrappongono in
lei innumerevoli di stati d'animo: gioia e voglia di
ricominciare, abbattimento e rabbia contro una società dalla
quale è stata "esclusa".
Importante è la
funzione del Falcone nei confronti di Marta, quella da un lato di
rappresentare visivamente per la "massa" la
mostruosità della condizione sociale di Marta scacciata di casa
per adulterio e dall'altro di dimostrare come la discesa di Marta
al fondo della perdizione avesse toccato il punto più basso. La
presenza del personaggio Falcone mette in evidenza le due metà
di Marta, quella buona e quella mostruosa; la metà buona che
tante sofferenze aveva patito convive con la metà mostruosa, una
"mostruosità" che spinge Marta ad accettare l'amore
adultero di Gregorio Alvignani non come affermazione liberatoria
e cosciente di sè come donna e come essere umano, ma come atto
dovuto:
Sentiva che era di quell'uomo elegante, ardito, che le camminava a fianco, ch'era venuto a prendersela improvvisamente; e lo seguiva, come se avesse davvero un diritto naturale su di lei, e lei il dovere di seguirlo. (152)
Ancora una volta si compie il destino della donna, che è quello di una secolare sottomissione all'uomo; ancora una volta il personaggio realista mette in evidenza che la responsabilità dei propri atti non risiede in lui, ma in una forza che tutti domina e alla quale sono sacrificati anche i sentimenti:
Tutti l'hanno voluto... - mormorò tra sé, duramente, per ricacciar la commozione che già le stringeva la gola... - Ormai! Così doveva finire...
L'Alvignani si rendeva conto del perchè e del come fosse riuscito così d'un tratto ad averla; si rendeva conto dei sentimenti di Marta per lui. No; ella non lo amava. Forse in altre condizioni, sì, lo avrebbe amato; non ora...
Tu non mi hai mai amato: non hai amato nessuno, mai! o per difetto tuo o per colpa d'altri; non so. Tu stessa l'hai detto: ti sei sentita spinta da tutti nelle mie braccia...
Rocco
Pentàgora
Rocco rappresenta
il modello sociale in vigore, quello che dà più valore alle
apparenze che alla sostanza; è il personaggio emblematico del
romanzo: oppresso dalle regole e dalle convenzioni, da un forte
senso del destino contro il quale non si può nemmeno tentare di
lottare (ad esempio: crede nel tradimento della moglie prima di
tutto perché nella sua famiglia così si verifica da
generazioni:
- Non hai voluto darmi ascolto, - riprese, dopo un lungo silenzio, il padre. - Hai... ehm...! sì, hai voluto fare come me... Mi viene quasi da ridere, che vuoi farci? Ti compatisco, bada! Ma è stata, Rocco mio, una riprova inutile. Noi Pentàgora... - quieto, Fufù, con la coda! - noi Pentàgora con le mogli non abbiamo fortuna.
Tacque un altro pezzo, poi ripigliò lentamente, sospirando:
- Già lo sapevi... Ma tu credesti d'aver trovato l'araba fenice. E io? Tal quale! E mio padre, sant'anima? Tal quale!
Fece con una mano le corna e le agitò in aria.
Alla fine del
romanzo troveremo la madre di rocco Fana Pentàgora allontanata
da casa morire a Palermo presenti il figlio e la nuora).
Ma dall'altro
lato è proprio lui che trova il riscatto contro la propria
condizione di supina accettazione del modello sociale comune
rompendo con la tradizione, accogliendo di nuovo in casa Marta:
Vincendo il ribrezzo che il corpo della moglie pur tanto desiderato gl'incuteva, egli se la strinse forte al petto di nuovo e, con gli occhi fissi sul cadavere, balbettò preso da paura:
- Guarda... guarda mia madre... Perdono, perdono... Rimani qui. Vegliamola insieme...
Proprio davanti al cadavere della madre Rocco prende il coraggio di chiudere col passato e di aprirsi a una nuova esistenza. Finalmente assume quel ruolo di forza intima e morale di cui ha bisogno Marta e in generale la donna del primo novecento che si trova a vivere un momento particolare della storia, caratterizzato dall'inizio dell'affermazione della donna nella società. In questo senso Rocco si pone in contrapposizione col "debole" Alvignani, incapace di tenere accanto a sé una donna forte e cosciente dei propri diritti ma contemporaneamente debole sul piano delle convenzioni sociali.
Ambienti ed epoca
Due sono i luoghi
in cui è ambientata la storia: il paese (nella prima parte) e
Palermo (nella seconda parte); al paese predominano norme e
consuetudini, privilegi e pregiudizi tipici della massa priva di
un proprio libero arbitrio e dominata da norme esteriori e
oppressive che non tengono conto dei sentimenti della persona
individualmente presa. L'individuo agisce non in base a quelli
che sono i propri bisogni esistenziale, ma alle norme in vigore
nella comunità, alle quali ciascuno ubbidisce ciecamente per non
essere emarginato. Le norme agiscono sui fatti e sugli individui
e determinano lo svolgersi stesso degli eventi, nei quali
ciascuno agisce come una marionetta, priva di volontà e di
intelligenza.
Solo nel chiuso
della propria abitazione (in uno spazio ristretto) si può
verificare un certa liberazione da questo senso di oppressione,
che viene sempre e comunque affermato negli spazi aperti
dominati dalla presenza della massa, come la piazza e la strada.
In questo contesto la funzione della Chiesa, e quindi
l'aspirazione a un mondo più elevato e spiritualmente più
nobile, è quasi assente: ogni manifestazione (come l'episodio
della processione e della festa patronale del paese) è
assolutamente esteriore e diventa addirittura il momento propizio
per lo scatenarsi di istinti passionali e primordiali
dell'individuo tendenti a distruggere spiritualmente e
materialmente chiunque viene ritenuto, a torto o a ragione, un
corpo estraneo a quella società. L'agire libero dell'uomo viene
sempre messo in secondo piano dalle esigenze della collettività
che deve difendere strenuamente i fondamenti della propria
esistenza, nella quale è vietato qualsiasi cambiamento.
Giudizi dell'autore sugli
argomenti proposti
Pirandello non
esprime in prima persona dei giudizi, ma le opinioni derivano
direttamente dai fatti, come succede per la tecnica verista.La
condanna per l'atteggiamento di Rocco Pentàgora, di tutti i
Pentàgpra della società, che guardano più alle apparenze
ingannevoli che alla realtà dei fatti, fino a distruggere
persone e famiglie, e prima per l'atteggiamento di suo padre, la
troviamo nell'episodio finale del romanzo, nella morte di Fana
Pentàgora, nella confessione di Marta a Rocco e infine in quella
parola finale "perdono", pronunciata da Rocco, con la
quale la coppia comincia una nuova vita, dimenticando il passato
ma senza dimenticare il presente che è la conseguenza delle
azioni di quel passato.
Uso della lingua
Pirandello
distingue:
uno stile di cose, uno stile di parole.
Importante è lo stile
di cose col quale si dà la preminenza ai fatti e ai
personaggi da rappresentare: le parole di per sé sono vuote,
sono come abiti appesi nel guardaroba che non hanno sostanza né
importanza, se non quando noi li abbiamo indossati. Sono fantasmi
senza concretezza né realtà, che acquistano un significato solo
quando siamo noi a darglielo.
L'impossibilità
di trovare una parola che abbia per tutti il medesimo significato
insieme a una realtà che sia valida e uguale per tutti, senza
possibilità di incomprensioni presenti o future con il
sopraggiungere della riflessione, crea una situazione di
solitudine e di incomunicabilità per cui ogni personaggio è
irrimediabilmente solo: la parola, come il gesto, diventa priva
di significato universale, perché ognuno le dà il suo
significato.
Di qui la
necessità di trovare e di mettere in atto uno stile di cose,
in cui le parole possano acquistare un più realistico ed
oggettivo significato proprio attraverso oggetti, sentimenti,
pensieri facilmente riconoscibili da parte di tutti.
Anche la
creazione del personaggio, come l'analisi dei fatti, non sfugge a
questa regola. Il comportamento dei personaggi, l'assurdità e il
grottesco di certi avvenimenti, dipendono dall'interpretazione
che i personaggi hanno della realtà delle cose.
Uno stile
fatto di cose significa:
- rifiuto dei
tradizionali modelli espressivi retorici,
- rifiuto del
modello verista, secondo il quale dovevano essere i fatti a
presentarsi da sé, utilizzando un linguaggio che doveva essere
quello usato nella realtà dai protagonisti, a seconda della
classe sociale cui appartenevano (anche con forme dialettali,
proverbi, ecc.).
Per far
raggiungere con maggiore immediatezza al lettore la comprensione
di certe situazioni, Pirandello accentua nella descrizione i lati
grotteschi:
- di certe
azioni, come quella di don Juè che rincorre il cappello
strappatogli dal vento o quella di Matteo Falcone di fronte a
Marta, o ancora quella di donna Juè che ripete ossessiva a Marta
tutte le spese sopportate per la moribonda Fana Pentàgora;
- di certe
situazioni, come quella di Matteo Falcone che vive con una
madre e una zia fuori di testa, che sono rimaste all'età
giovanile, come se il tempo per loro non fosse mai trascorso;
- di certi
personaggi, che si impongono con la loro bruttezza quasi
bestiale, come Matteo Falcone, anche senza scatenare sensi di
ripugnanza.
È un grottesco
che richiama alla memoria una certa forma di verismo, con la
differenza che mentre nel verismo si mettevano in evidenza gli
aspetti esteriori, che avrebbero potuto essere migliori in
presenza di una migliore condizione sociale, nella quale sparisce
qualsiasi forma di bestialità, Pirandello mette in evidenza gli
aspetti interiori e le tragiche conseguenze derivate dalle
piccole cause.
Proprio
attraverso la parola i personaggi cercano di uscire dal doloroso
isolamento nel quale sono costretti dall'impossibilità di capire
e capirsi. Per questo il dialogo diventa la forma
espressiva più importante, ponendo in secondo piano la forma
descrittiva e rappresentativa, anche se si svolge con molte
difficoltà, sia perché, come abbiamo visto, alle parole
ciascuno dà un suo significato, sia perché nel dialogo
ognuno cerca di nascondere i moti più nascosti del proprio
animo, le sensazioni che non si ha il coraggio di confessare
nemmeno a se stessi, sia infine perché anche quando il
personaggio confessa tutto se stessa, come Marta a Rocco nel
finale del romanzo, l'altro capisce ciò che vuole e non ciò che
è accaduto effettivamente..
Attraverso il dialogo
i personaggi possono analizzare se stessi e capire gli altri,
anche se questo porta a soluzioni non sempre accettabili e a
capire situazioni intime che sarebbe stato meglio non capire,
come il dialogo fra Marta e Gregorio nel "cap. X" della
seconda parte ("se tu m'amassi di più, penseresti di
meno", dice Marta che comincia a capire la nuova
situazione). Le parole anche se interpretate in modo personale,
anche se riempite di un significato che è uno per chi le pensa e
le pronuncia e un altro per che le ascolta e le fa proprie,
servono comunque a scoprire e a mettere a nudo il personaggio
prima davanti agli altri e poi davanti a se stesso.
Raramente prevale
una sorta di monologo del personaggio, che espone le sue
idee con un linguaggio discorsivo che monopolizza
l'attenzione del lettore ma che resta una confessione intima e
isolata dal resto del mondo per cui i drammi si compiono
parlandone.
La struttura
Rapporto
fabula-intreccio
Pirandello stesso
divide il romanzo in due parti, contraddistinte non soltanto
dalle connotazioni esteriori della vicenda di Marta, ma anche
dallo spazio fisico in cui la vicenda si svolge, fermo
restando che il tempo conserva in entrambe un suo flusso
lento che dà quasi al lettore l'impressione di essere a contatto
con l'eternità. Ogni tanto si prova la sensazione un po'
fastidiosa che il tempo trascorra troppo lentamente, che occorra
una maggiore rapidità per giungere ai momenti culminanti della
vicenda e quindi alla sua conclusione che si presume tragica;
invece il tempo conserva un suo flusso che è indipendente dalla
volontà e dalle sofferenze umane e che è diverso dal flusso
temporale percepito dagli uomini.
La prima
parte è ambientata al paese, e vi predominano norme e
consuetudini, privilegi e pregiudizi tipici della massa priva di
un proprio libero arbitrio e dominata da norme esteriori e
oppressive che non tengono conto dei sentimenti della persona
individualmente presa. L'individuo agisce non in base a quelli
che sono i propri bisogni esistenziale, ma alle norme in vigore
nella comunità, alle quali ciascuno ubbidisce ciecamente per non
essere emarginato. Le norme agiscono sui fatti e sugli individui
e determinano lo svolgersi stesso degli eventi, nei quali
ciascuno agisce come una marionetta, priva di volontà e di
intelligenza.
Solo nel chiuso
della propria abitazione (spazio ristretto) si può
verificare un certo senso di liberazione da questo senso di
oppressione, che viene sempre e comunque affermato negli spazi
aperti dominati dalla presenza della massa, come la piazza e
la strada. In questo contesto la Chiesa rappresenta sia lo spazio
aperto (nel quale tutti possono controllare il comportamento
degli altri) sia lo spazio chiuso, come il confessionale, nel
quale diventa predominante l'agire libero dell'uomo, anche se non
assoluto perchè l'individuo si trova sempre in presenza di un
altro individuo, il prete, mediatore tra l'uomo e Dio, e quindi
tra l'uomo e la sua coscienza.
In questa prima
parte Marta subisce un processo di triplice esclusione:
1 - scopre la
lettera di Gregorio Alvignani, ed è costretta a rifugiarsi
presso i suoi genitori, subendo la condanna del padre che fino
alla morte non vorrà più vederla e vivendo una drammatica
condizione di amore-odio;
2 - dal paese,
che sicuro del suo adulterio, in quanto scacciata dal marito, la
relega ai margini della società in quanto non ha ubbidito alle
sacre regole che la governano, mentre premia Gregorio Alvignani,
causa delle sue disgrazie, eleggendolo Deputato al Parlamento;
3 - dal Collegio,
presso il quale vince un concorso per l'insegnamento con le sue
sole forze, che rappresenta la possibilità di risollevarsi dal
fango nel quale tutti l'hanno gettata e nel quale tutti vogliono
che rimanga.
In questa
triplice esclusione l'unica persona che l'accetta e l'aiuta,
oltre la madre e la sorella Maria, è Anna Veronica, altra
esclusa, che ha commesso veramente il fallo per il quale lei
viene condannata innocente.
La seconda
parte si svolge a Palermo, sia in presenza di altre norme che
regolano l'ewsistenza della massa, anche se molti elementi sono
in comune, sia in assenza della conoscenza del fatto che
interessa Marta, che viene vista dagli altri in modo innocente,
come se nulla fosse successo, e vi predomina lo spazio chiuso: il
Collegio, la casa di Gregorio Alvignani, la casa di Fana
Pentàgora, la casa della follia delle due vecchie di Matteo
Falcone. Gli spazi aperti restano lontani come in un sogno, belli
nella loro irraggiungibilità.
Nella prima parte
è egualmente importante sia la presenza degli spazi aperti che
di quelli chiusi. Negli spazi aperti agisce la massa: la
festa del paese, la processione con il barbaro insulto alle tre
donne (facendo ad arte fermare la statua proprio davanto al loro
balcone, sapendo che la gente avrebbe interpretato questa fermata
come la volontà di Dio di punire le peccatrici che non si sono
pentite dei loro peccati), la folla davanti alla Chiesa con la
mescolanza di sacro e profano.
Negli spazi
chiusi si consuma il dramma dei protagonisti: la solitudine
delle donne (Marta, Maria, la madre); la morte di Francesco
Ajala; il tragico parto di Marta e la morte del nascituro; la
malattia di Marta; la solitudine di Anna Veronica; la presa di
coscienza di Marta, davanti al confessionale, che nulla deve
confessare, perchè si ritiene innocente:
Di che doveva pentirsi? Che aveva fatto, qual peccato commesso da meritare tutti quei castighi, quelle pene, e l'infamia, la sciagura del padre e del figliuolo, il perpetuo lutto in casa, e forse la miseria, domani? Accusarsi? Pentirsi? Se male aveva fatto, senza volerlo, per inesperienza, non lo aveva scontato a dismisura? Certo quel sacerdote le avrebbe consigliato d'accettare con amore e con rassegnazione il castigo mandato da Dio. Ma da Dio, proprio? Se Dio era giusto, se Dio vedeva nei cuori... Gli uomini, piuttosto... Strumenti di Dio?"
Man mano che il dramma vissuto da Marta tende a farsi più disperato e senza vie d'uscita, lo spazio chiuso sembra restringersi sempre di più: le tre donne sono costrette a lasciare la vecchia casa di famiglia e a prendere in affitto una casa più piccola, che aveva l'unico vantaggio di trovarsi vicino a quella di Anna Veronica, l'unica a mantenere rapporti con loro, oppressa dalla stessa emarginazione, o esclusione, per la stessa colpa di Marta, ma veramente commessa.
Uno spazio a parte è rappresentato dal Collegio, nel quale Marta vince il concorso per diventare maestra, senza nessun appoggio; ma il suo posto viene dato ad un'altra. Con la raccomandazione di Gregorio Alvignani, nel frattempo diventato deputato, sollecitato dal Blandino che era venuto a conoscenza di quest'ulteriore ingiustizia ai suoi danni, Marta ottiene una supplenza, ma viene boicottata e per fino offesa dalle allieve che le mancano di rispetto. Il Collegio rappresenta contemporaneamente sia lo spazio aperto (nel quale si consumano le ingiustizie in nome di pretese norme di moralità) che lo spazio chiuso, nel quale si acuisce il dramma di Marta fino all'esclusione totale dalla società nella quele aveva diritto di vivere. È a questo punto che ottiene il trasferimento in un collegio di Palermo, sempre per interessamento di Gregorio Alvignani, che in qualche modo ripara in parte alle ingiustizie subite da Marta, anche se il suo intervento non sarà completamente disinteressato.
Un simbolo importante: il
buio
Il tipo di
linguaggio, già descritto, è di tipo realistico, in cui mancano
sia l'allusività che la possibilità di suggestione. Niente
fantasia, ma al centro il fatto così come appare e così come
viene vissuto dai personaggi; anche le figure retoriche sono
ridotte al minimo: ma la risposta a questa tesi prevederebbe uno
studio a parte.
Interessante è
invece l'uso di alcuni elementi simbolici, come il buio.
Il buio,
che in generale rappresenta il ritorno all'oscurità primordiale,
a ciò che non è ancora manifesto o che non potrà manifestarsi,
pena la vergogna inflitta dalla comunità; è il ritorno al
mistero che nasconde tutto alla visione dell'intelligenza umana e
alla luce del giorno e della verità. Nel buio abbiamo:
in primo luogo
la rinuncia a lottare, a vivere subendo l'umiliazione inflitta
dall'esterno;
in secondo
luogo la disperazione sul piano spirituale, come conseguenza
della distruzione dei valori in cui si aveva cieca fede e di una
situazione esistenziale gratificante: questa corruzione della
vita all'ottenebrazione spirituale, al dolore, alla tristezza e
infine al lutto e alla morte;
in terzo luogo
può diventare fonte e origine della vita: nel buio del grembo
materno viene, infatti, fecondata la vita come nel buio della
terra germoglia il seme e trovano il loro nutrimento le radici
delle piante.
Nel buio
comincia e finisce il romanzo, dall'attesa in casa della famiglia
Pentàgora che arrivi Rocco a un'altra attesa, ben più
drammatica, in una povera e desolata casa di Palermo, consumata
fra l'agonia di Fana Pentàgora, madre di Rocco, anche lei
scacciata di casa come Marta, e le drammatiche spiegazioni fra i
due coniugi su ciò che era successo esulle conseguenze che ne
erano derivate, con un tocco romanticamente tragico: la moribonda
stringe fra le sue le mani del figlio e della nuora unendo non
solo i due giovani ma anche i due drammi, il suo e quello di
Marta.
Nel buio
avvengono gli episodi più dolorosi e le azioni più
significative del romanzo: Facciamone un elenco, tenendo presente
che i numeri fra parentesi si riferiscono all'edizione Oscar
Mondadori del romanzo.
1) Rocco e il tradimento della moglie: la
richiesta d'aiuto e lo sconforto:
- "Per la
scala, al bujo, Rocco Pentàgora rimase un tratto perplesso, se
picchiare all'uscio dell'inglese o a quello più giù d'un altro
pigionante, il professor Blandino" - (13)
- E Rocco
sentì chiudersi dietro le spalle la porta, piano piano, e restò
al bujo, sul pianerottolo, in mezzo alla scala silenziosa,
smarrito. Nessuno voleva più saperne, di lui? (20) ... Il
bujo, il silenzio, la positura stessa gli strinsero il cuore, gli
fecero cader l'animo in un avvilimento profondo. Contrasse il
volto e si mise a piangere e a lamentarsi sommessamente (20)
... Si distrasse a guardarlo, e non avvertì al fiammifero che
gli si consumava intanto tra le dita; si scottò e, al bujo,
gridò più volte (20) ... restò con la lettera in mano e
gli occhi sbarrati nel bujo... (20) -
2) Marta nella casa paterna: il dolore per la
situazione nuova che scombussola la sua famiglia; il dolore e la
solitudine di Francesco Ajala che si rifugia prima nella conceria
e poi in una stanza della sua stessa casa; l'attesa dolorosa
della moglie:
- L'ombra, poi
man mano il bujo avevano invaso la stanza, ove la madre aveva
accolto Marta scacciata dal marito. Nel bujo, la suppellettile di
vetro su la tavola, già apparecchiata per la cena prima
dell'arrivo di Marta, ritraeva dalla strada qualche filo di luce
(21)
- In mezzo al
bujo androne, l'Ajala, con le mani intrecciate dietro la nuca, le
braccia strette intorno alla testa, s'era messo a guardare la
grande porta a vetri, in fondo, cieca nel blando chiaror lunare.
Si voltò, sentendo nel bujo piangere la moglie; le venne
incontro con le pugna serrate, ruggendo con scherno... (25)
- Andò sù
per chiudere il balcone rimasto aperto. La moglie attese un
pezzo, nel bujo dell'androne; poi, vedendolo tardare, salì anche
lei. Lo trovò con la faccia contro il muro, che piangeva, solo.
(cap. III)
- Poco dopo,
salì anche lui e andò a chiudersi a chiave in una camera, al
bujo; si buttò sul letto, vestito, con la faccia affondata nei
guanciali, stringendo con una mano la testata della lettiera.
(28)
3) Il dolore di Marta, l'incidente a Paolo Sistri:
- Tutto,
dunque, doveva finire così? Si doveva rimanere come in prigione,
in quell'afa, in quel bujo, in quel lutto, quasi che il mondo
fosse crollato? (36)
- Perché se
ne sta lì rinchiuso? Non per nulla s'è chiuso al bujo: così,
come un cieco, mi condanna... (44). - Così grida Marta alla
madre (fine cap. V) parlando del padre
- Nella camera
al bujo giaceva Francesco Ajala, bocconi sul pavimento, con un
braccio proteso, l'altro storto sotto il petto. (47)... In
quell'ombra, in quel bujo delle altre stanze, il padre era
scomparso. (51)
- In una
stanza della concerìa, al bujo, qualcuno (e forse a bella
posta!) s'era dimenticato di richiudere la... come si chiama?
sì... la... la caditoja, ecco, su l'assito, ed egli, passando,
patapùmfete! giù: aveva ruzzolato la... la come si chiama di
legno... la scala della cateratta, già! Per miracolo non era
morto. (51) Paolo Sistri cade e si ferisce alla testa.
4) l'atroce beffa dei pescatori;
- I pescatori...
- disse Maria, quasi tra sé, in un sospiro, nel bujo della
camera. (63) ...
- Rimasero con
gli occhi aperti nel bujo, e a ciascuna passò innanzi alla mente
la visione di quegli energumeni giù per la via, tra il fumo e le
fiamme sanguigne delle torce a vento squassate, vestiti di
bianco, in camicia e mutande, coi piedi scalzi, una fascia rossa
alla vita, un fazzoletto giallo legato intorno al capo. (64)
5) Marta a Palermo:
- Nel bujo,
raggomitolata sotto le coperte, volle raccogliere le idee, ma non
poté precisarne alcuna contro il marito. (135)
6) La rottura del rapporto tra Marta e l'Alvignani:
- Poco dopo,
Gregorio Alvignani, aprendo l'uscio della camera da letto quasi
al bujo, si sentì sul volto queste due parole, come due
schiaffi: - Vile! vile! (170)
7) Il pensiero del suicidio, come atto riparatore e
liberatore:
- Ma
l'immagine dell'attuazione la riempiva ancora d'orrore, le dava
quasi la vertigine. Contro la tenebra invadente, tremava ancora
in lei un barlume di speranza: che ella cioè non fosse davvero
nello stato, in cui, purtroppo, per tanti segni, aveva argomento
di temere che fosse. Questo barlume di speranza apriva nel bujo
orrendo una pallida via d'uscita, l'unica. Ah, con quale impeto
avrebbe voluto slanciarvisi! Trattenuta, come sotto un incubo,
forzava gli occhi a scrutare questa via solitaria, lontana
dall'Alvignani, lontana dal marito; e anelava, e spiava nello
stesso tempo in sé, nel suo corpo, qualche accenno che le désse
cagione di sperare. (178)
- Ma che
riflettere? Aspettare che quel barlume di speranza smorisse di
giorno in giorno e il bujo e il vuoto s'estendessero vieppiù,
dentro e intorno a lei. (181)
8) Marta chiamata al capezzale della vecchia Fana
Pentàgora:
- Marta,
invece, cercando il cappellino e lo scialle nella camera al bujo,
pensava tra sé: «;Sarà una vittima anche lei. Voglio vederla,
conoscerla...».(189) ...
- Appena
fuori su la via, Marta sentì la straordinaria furia del vento
che ruggiva per la strada, come se volesse portarsi via tutte le
case. Guardò in alto, il cielo sconvolto, corso da enormi nuvole
squarciate, tra cui la luna, scoprendosi di tratto in tratto,
pareva fuggisse impaurita, precipitosamente. La via era quasi al
bujo: alcuni fanali erano stati spenti dal vento, che sul
poggetto del Papireto aveva anche spezzato un albero e gli altri
agitava, storceva. (190) ... Ma anche don Fifo sparve nel
turbine delle foglie, nel bujo. (190: Fifo perde il cappello
volato via nel vento)
9) La casa di Fana Pentàgora:
- Salirono la
scala erta e stretta al bujo, fino all'ultimo piano. (191)
... Le tre stanze, che componevano la miserrima dimora della
moribonda, erano invase dal vento che aveva sforzato le imposte e
rotto i vetri. La candela nella camera da letto s'era spenta, e
nel bujo rantolava spaventata Fana Pentàgora. (191) ...
- E i
fiammiferi? - esclamò donna Maria Rosa. - Ce l'ha Fifo che corre
dietro al cappello e lascia noi qua al bujo, nell'imbarazzo. Ah
che uomo! Tutto l'opposto, certe volte, di suo fratello,
sant'anima! (191) ...
- Uno
zolfanello acceso, riparato da una mano, si moveva nel bujo, come
un fuoco fatuo. (192) ...
- Il lume
moriva sul tavolino lì accanto. Le ombre dei due dormenti
s'ingrandivano e balzavano di tratto in tratto al singultare
della fiammella, su la parete. Marta ebbe paura del bujo
imminente e si alzò per svegliare la Juè. (196) ... Un
gallo, infatti, cantò poco dopo nel silenzio. Marta, involta nel
bujo, tese l'orecchio. Un altro gallo rispose da più lontano,
all'appello; poi un terzo, ancora da più lontano. Ma non
appariva indizio di luce attraverso le fessure delle imposte. (196)
...
10) L'angoscia di Rocco Pentàgora; la morte di Fana
Pentàgora:
- Intuiva,
sentiva, che in quel momento egli risaliva angosciosamente col
pensiero agli anni passati, assalito in quel bujo dalle memorie e
dai rimorsi... (205) ... Marta, impaurita da un gorgoglìo
lungo, strano, raschioso nella gola della moribonda, levò la
faccia sconvolta, guardò perplessa la Juè, poi risolutamente si
recò fino alla soglia dell'altra stanza, e chiamò nel bujo: -
Vieni... vieni... muore... (205)
Sempre nel buio dell'appartamento di Fana, durante l'agonia della donna, avviene la riappacificazione tra Marta e Rocco, la ricomposizione di un cerchio spezzato da un sospetto.
Come
contrapposizione al buio abbiamo la luce, e a
questo proposito ricordiamo almeno l'incontro tra Marta e
l'Alvignani a Palermo:
- L'aria s'era
come infiammata intorno ai loro corpi, s'era fatta avvolgente, e
vietava ogni percezione della vita circostante; gli occhi non
iscorgevano più alcun oggetto, gli orecchi non accoglievano più
alcun suono. (152) ...
- la luce del
sole metteva sul giallo della polvere come un fervore
d'innumerevoli scintille che accecavano, e per cui pareva
fervesse sotto i loro piedi anche la terra. Il cielo era d'un
azzurro intenso, immacolato. (153) ...
- Lo
spettacolo era veramente magnifico. La grande chiostra dei monti
incombeva maestosa e fosca sotto il cielo fulgidissimo. Le
schiene poderose si disegnavano con tagli d'ombra netti. E
Morreale pareva là un candido armento pascolante a mezza costa;
e, sotto, la campagna sparsa di bianche casette si stendeva
oscurata dall'ombra dei monti. (154-5)
- Quanto
imminente e fosco era dalla parte dei monti lo spettacolo, tanto
vasto e lucente si spalancava dalla parte opposta. Tutta la
città, distesa immensa di tetti, di cupole, di campanili, tra
cui, gigantesca, la mole del Teatro Massimo, si offerse a gli
occhi di Marta, e il mare sterminato in fondo, riscintillante al
sole, sotto i cui raggi Monte Pellegrino rossigno pareva sdrajato
beatamente. (155)
L'incontro tra
i due è ambientato in uno dei pochi momenti di luce del
romanzo, come a significare che Marta si aspettava dalla
vicinanza di quell'uomo non tanto un nuovo amore, quanto la
possibilità di dare un nuovo significato alla sua vita. Ma il
sentimento di Alvignani è debole, non può reggere il confronto
con un personaggio femminile così profondo e tragico.
L'ultima parte
del romanzo è dominata proprio dal buio, con un violento
temporale che verso sera si abbatte su Palermo e fa scendere il
buio prima del tempo; poi l'arrivo dei Juè, il cammino verso la
casa di Fana, la morte della vecchia madre di Rocco, anche lei
scacciata e abbandonata per un presunto tradimento e infine, dopo
il pensiero fisso del suicidio, la riappacificazione, la veglia
funebre insieme: ora il buio non farà più paura.
_____________________________
(1) - Allora era permesso.
_____________________________
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 05 febbraio 1998