Giuseppe Bonghi
Introduzione
a
Il Principe
di Niccolò Machiavelli
Controverso nell'arco dei
secoli, ma anche in uno stesso periodo di tempo, il giudizio sul pensiero e sulla figura
di Machiavelli. Privato l'8 novembre 1512 del suo incarico di segretario della seconda
Cancelleria, Niccolò si ritira nella Potesteria di San Casciano nel quartiere di
Sant'Andrea in Percussina, località La Strada, nella villa detta L'Albergaccio:
i suoi contemporanei credevano che nella villa si trovasse il diavolo, così come molti
suoi commentatori crederanno che le sue opere sono state dettate dal diavolo C'è chi
considera Machiavelli un grande italiano, e si sente in obbligo di metterlo sotto una luce
che lo faccia apparire simpatico agli ipocriti o a coloro che ostentano virtù; c'è chi
lo considera un geniale segretario non solo della Signorìa di Firenze, ma soprattutto del
geniale e corrotto Rinascimento e pronuncia la parola «machiavellismo» con oltraggiosa
diffidenza, tanto che questa parola è divenuta nel corso dei secoli un luogo comune per
esprimere la diabolica astuzia dei governanti che agiscono con perfido disprezzo degli
scrupoli.
Noi crediamo semplicemente che al centro
della sua opera ci sia il Machiavelli uomo, che con una geniale pennellata è stato
presentato dal Foscolo come colui che ha svelato "di che lacrime grondi e di che
sangue lo scettro dei regnatori": l'analisi delle sue opere non può che mettere in
evidenza quanto l'uomo e il politico Machiavelli sia legato alla realtà senza falsità e
senza infingimenti, tanto che possiamo dire correttamente che i tempi moderni
cominciano proprio con lui come nel mondo la scienza moderna comincia con Galilei, perché
viene avviato un diverso rapporto tra il popolo e il signore e l'uomo, fin qui senza
dignità e senza nome, comincia ad assumere un suo ruolo che nei secoli successivi sarà
sempre meglio delineato: l'uomo non è più un suddito supino ma comincia ad essere un
cittadino cosciente col quale i principi per poter continuare a governare devono venire a
patti.
Con il ritiro all'Albergaccio la
sua vita politica attiva sembra definitivamente chiusa; per quanti sforzi facesse di
ritornare ad vedersi assegnato un posto di rilevante importanza, sempre tutto restava
sempre più vano.
D'ora in avanti unirà alla sua firma la
scritta "quondam segretario". Machiavelli cerca di reagire con una certa forza
morale alla nuova situazione, ma si rende conto che nulla più potrà essere come prima.
Rimane praticamente fuori dalla vita attiva, e risponde alle lettere dei suoi amici e al
suo amico Francesco Vettori, solo "per parere vivo", ben sapendo che egli ormai
è "alieno con l'animo da tucte queste pratiche, come ne fa fede lo essermi riducto
in villa, et discosto da ogni viso humano, et per non sapere le cose che vanno adtorno, in
modo che io ho ad discorrere al buio". (a Vettori, 29 aprile 1513)
Nel 1513 scrive Il Principe,
in pochi mesi; il 10 dicembre così scrive all'amico Francesco Vettori:
"Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto i panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo, che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandarli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte: tutto mi transferisco in loro. E, perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De principatibus; dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono".
Con questa operetta, scritta fra il
luglio e il dicembre, e più verosimilmente tra ottobre e novembre, piccola come mole, ma
grandissima come teorizzazione politica e per le conseguenze che avrà nei secoli futuri
sul piano della politica e della morale, Machiavelli spera d'ingraziarsi le simpatie dei
Medici, dedicandola a Lorenzo II dei Medici, duca di Urbino, detto Lorenzino, nipote di
Lorenzo il Magnifico, che l'accoglie con una certa freddezza e un distacco che delude
molto l'ex Segretario della seconda Cancelleria, che capisce di essere ben lontano dal
momento in cui potrà realizzare il suo ritorno alla politica attiva, anche perché a Roma
esisteva un preciso veto ad utilizzare Machiavelli in qualsiasi tipo di incarico politico;
e di questo veto Machiavelli era sicuramente a conoscenza. A questa dedica è
accompagnata una esplicita richiesta di aiuto; ma le speranze riposte nel duca verranno
ben presto disilluse e la 'malignità di fortuna' che lo aveva colpito, dovrà
essere sopportata fino alla fine dei suoi giorni, nonostante qualche incarico, di scarsa
importanza, gli fosse affidato negli ultimi anni della sua vita. Anche la morte del duca,
che avverrà prematuramente nel 1519 non cambierà sostanzialmente cambierà in meglio la
sua condizione.
Lorenzino, arbitro
della politica fiorentina di quegli anni, come narrano certi aneddoti del tempo, fu
attratto più dal regalo di una coppia di cani che accompagnava il dono di una copia del Principe
che dall'operetta politica in sè.
Lo scopo dell'operetta è quello di far
intendere "in brevissimo tempo quello che lui aveva conosciuto e inteso con un lungo
studio di anni", unito a una esperienza diretta dei fatti, a lui contemporanei,
vissuti talvolta in prima persona. Troviamo in queste parole la certezza che le leggi da
lui ricavate dall'analisi dei fatti storici formino 'la scienza della politica' e possano
in tal senso regolare in maniera quasi assoluta le azioni del principe in ordine alla
conquista e al mantenimento del potere. La scienza, comunque, non è e non può essere il
risultato finale, rappresentato in questo caso dalle regole acquisite, ma è il procedimento stesso della ricerca: in questo sta la
confusione di tutto un secolo che con la sua varia precettistica ha creduto di poter
regolare ogni cosa, dando ad ogni aspetto della viuta umana, dalla politica alla lingua
all'amore alla cortigiania ecc., una serie di norme che si pretendeva fossero valide
sempre e comunque. Non a caso, infatti, nel Cinquecento troviamo precetti sull'amore (Gli
Asolani) e sulla lingua (Prose della volgar lingua ed altre opere), sulla
politica, sull'uomo pio e sull'uomo di corte (Il cortegiano, Il Galateo,
ecc.), perfino le regole (di Pietro Aretino) per fare la cortigiana (la più antica
professione della donna). Ma le regole non possono risolvere tutto e la scienza educa per
davvero solo quando approfondisce se stessa e le norme che ha ricavato dall'esperienza e
dalla lezione della quotidiana realtà. Lo stesso Machiavelli, pur propugnando norme e
precetti, all'atto pratico se ne libera, dandoci una viva rappresentazione della realtà
storica nella quale l'uomo non è il freddo esecutore delle regole, ma l'artefice della
propria 'fortuna' attraverso quella virtù, che gli ha donato Madre
Natura.
L'opera manoscritta si diffuse
rapidamente anche al di fuori della cerchia degli amici più intimi, suscitando
contrastanti sentimenti non solo in coloro che ebbero la ventura di leggerla, ma anche in
quello che ne avevano sentito parlare poco e spesso in modo falso, come sono talvolta le
cose riportate, tanto che al suo ritorno a Firenze alla cacciata dei Medici, si trova di
fronte a una generale ostilità, determinata non solo dalla sua collaborazione coi Medici,
anche se di scarsa rilevanza, ma anche dalle interpretazioni faziose che si cominciano a
dare del Principe, raccogliendo quasi una generale avversione, perché, scrive
Giovan Battista Busini in una sua lettera a Benedetto Varchi, "pareva che quel suo Principe
fosse stato un documento da insegnare al Duca di tor loro tutta la roba e a' poveri tutta
la libertà; ai piagnoni pareva che e' fosse eretico, ai buoni disonesto, ai tristi più
tristo o più valente di loro; talché ognuno lo odiava".
L'opera non viene stampata mentre
Machiavelli è ancora in vita, anche se fin dal 1523 era apparso a Napoli ad opera di un
certo Agostino Nifo,un volumetto dal titolo De regnandi peritia ad Carolum V
imperatorem, una traduzione latina con una appendice nella quale "denique
honestum regnandi genus ostenditur", cioè si mostrava infine il modo onesto
di regnare dopo aver riportato il modo poco onesto di mantenere il potere illustrato da
Machiavelli.
Il nome e l'opera del Segretario
fiorentino si diffondono assai presto anche fuori i confini italiani, e il primo a
diffonderne i concetti è il cardinale Reginald Pole, con un'opera, anch'essa rivolta
all'imperatore Carlo V, intitolata Apologia ad Carolum V Caesarem;
"sostenendo di raccogliere una voce che già circolava a Firenze, egli afferma che
l'intenzione del Machiavelli sarebbe stata quella di condurre alla rovina con i suoi
efferati consigli il casato dei Medici, svelando nello stesso tempo al popolo fiorentino
gli oscuri retroscena del loro potere (Bruscagli)": interpretazione singolare, che
tiene conto più dell'aspetto pratico dell'operetta che della sua profonda validità
universale. Comunque proprio con questa opera del Pole si può dire che comincia la fortuna
europea del Machiavelli, "inaugurando quella leggenda diabolica del Machiavelli che
poe attecchirà stabilmente anche nell'Europa protestante: il Principe è «opus digito Sathanae scriptum», un'opera
scritta col dito di Satana!!.
Già nel 1532 veniva contemporaneamente
stampato dai Giunti di Firenze e dal Blado di Roma cominciando così quell'esistenza del
tutti particolare caratterizzato da infinita ammirazione e da profonda avversione. Nel
1559 è uno dei primi libri ad essere inserito nell'Index librorum prohibitorum.
Gli elementi fondamentali dell'opera
sono:
Come si
conquista il potere: per virtù, fortuna, colle armi proprie, colle armi altrui;
come si
mantiene il potere: i provvedimenti che il principe deve adottare: rapporti coi potenti
esterni al principato, rapporti coi potenti interni al principato, rapporti col popolo
virtù,
fortuna, occasione
conquista
del potere con scelleratezza: il problema della morale
le
milizie: proprie, mercenarie, ausiliarie, miste
la verità
effettuale
le
qualità del Principe
invito a
prendere le armi per risolvere i problemi della disunione dell'Italia
Il Principe
nasce da un lato dalla viva esperienza di diplomatico e di segretario della seconda
Cancelleria della Repubblica fiorentina e dall'altro dalla cultura di lettore delle opere
dell'antichità e di interprete delle azioni dei principi sia dell'antichità che di tempi
a lui più vicini o addirittura coevi; l'opera non è da leggere tanto sul piano di una
visione morale della società e dello Stato, spesso discutibile in quanto le esigenze del
singolo individuo mal si legano in troppi casi alle esigenze dello Stato, o, meglio, del
mantenimento del potere da parte del Principe.
In un certo senso possiamo affermare che
il Machiavelli porta alle estreme conseguenze:
a) da un lato l'osservazione della realtà
storico-politica, durante il suo operato come segretario della seconda cancelleria, di cui
ci restano le relazioni, e dei fatti letti e studiati: cioè il guardare le cose sia nel
loro logico evolversi e realizzarsi che nella immutabilità storica;
b) dall'altro l'osservazione e l'analisi
dell'uomo che con i suoi stratagemmi e la sua virtù conquista ciò che si era prefisso e
lo mantiene, con facilità se la conquista è avvenuta con virtù, con difficoltà se è
avvenuta con fortuna .
È questo il primo fondamento
della teoria politica: la realtà non deve mai essere travisata o travestita,
altrimenti non si raggiungerà mai ciò che si era prefisso: è proprio la piena
conoscenza della realtà delle cose che può facilitare l'individuo nel raggiungimento dei
propri fini.
La Verità effettuale
La verità effettuale deriva direttamente dai fatti: Machiavelli, come
politico militante durante le sue missioni e nei suoi scritti politici, non va dietro alla
immaginazione delle cose, non immagina Repubbliche o Principati che non sono mai esistiti,
ma analizza la storia dei popoli e delle istituzioni che questi hanno realizzato per
ricavare quelle regole che possono essere utili ancora oggi per realizzare la conquista e
il mantenimento del potere.
Molti -
scrive Machiavelli nel cap. XV - si sono immaginati repubbliche e
principati che non si sono mai visti nè conosciuti essere in vero; perchè egli è tanto
discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si
fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua.
L'unica verità che deve esistere per il politico è quella che deriva direttamente dai
fatti, effettuale deriva da effetto ed effetto, come fenomeno, deriva
da una precisa causa, e genera una precisa norma generale. La verità effettuale diventa
la materia principale del suo insegnamento, anche se questo insegnamento viene
inevitabilmente rivolto agli uomini liberi e ai governanti, siano essi tirannici
oppressori o democratici politici. Il tiranno come l'uomo libero è una realtà storica,
eterna come l'uso buono o cattivo della libertà: solo la grandezza della virtù potrà
suggerire all'uomo di governo quella misura nell'esercizio del potere che è contraria
alla barbarie scellerata e al dispotismo.
Tutte le azioni dell'uomo devono essere
coordinate al raggiungimento dei due fini, che per il Principe sono la conquista e il
mantenimento del potere. La ricerca filosofica non si basa sulla realtà, ma sulla
capacità dell'uomo di conoscere innanzitutto la realtà e di realizzare i fini che si
propone attraverso princìpi generali e universalmente validi. In questo senso la realtà
va osservata attentamente per passare da una serie di fenomeni omogenei alle norme che li
hanno prima generati e poi regolati; la realtà deve insegnare all'uomo come deve
comportarsi nei casi della vita e al Principe nel governare.
Solo dai fatti possiamo dedurre
che uno Stato una sua intima capacità di esistere e di resistere ad agenti distruttori
esterni con l'uso di un esercito nazionale anziché mercenario. È proprio nel concetto di
verità effettuale che possiamo individuare la netta
separazione fra morale e politica perchè la verità è ciò che deriva
dalla realtà, è lo studio di effetti determinati da precise cause, mentre la morale è
l'insieme delle norme che regolano il comportamento umano, "il codice non scritto
della coscienza universale illuminato dalla rettitudine e dall'onestà insieme al senso
divino della vita", sul quale resta sempre vigile l'intelligenza umana che porta
l'individuo a volgere a proprio profitto le forze e le leggi della natura.
Nella scoperta dell'uomo rinascimentale,
come individualità assoluta e di per sè tendente all'ideale, si erge questa profonda
antinomia tra l'essere e il dover essere che nel caso di Machiavelli può essere risolta
solo nella verità effettuale che attirerà tanta esecrazione da parte degli
ipocriti ma che, da questo momento in poi, non potrà più non essere presa in
considerazione e adeguatamente valutata. Molti critici, infatti, inventeranno la massima
"il fine giustifica i mezzi". Il fine non può giustificare
i mezzi nè sul piano morale perchè l'uso di certi mezzi è comunque condannabile
(come l'uso della frode, della forza, dell'assassinio, ecc.), nè sul piano razionale, in
quanto si rovescerebbe il discorso logico delle cause che generano determinati effetti in
"effetti che giustificano l'esistenza di determinate cause.
È la causa, come il mezzo, che esiste
per sè, come norma generale che viene utilizzata solo se necessitati dal momento e dalla
realtà generale. Mutando le cause mutano gli effetti, così mutando i mezzi, mutano i
fini: il Principe non deve tener conto in primo luogo dei mezzi ma dei fini, all'interno
dei quali i mezzi trovano la loro logica collocazione, non giustificazione.
Quando parliamo, quindi, di verità
effettuale, parliamo di una verità basata sulle norme che discendono dai fatti e che
permettono di raggiungere i fini prefissati; i mezzi possono essere scelti tenendo
necessariamente conto dei fini. Quindi, mezzi adeguati per fini voluti.
I fatti sono sia le azioni
realizzate dagli individui in modo più o meno consapevole e più o meno mirate ad
ottenere determinati risultati, sia gli avvenimenti che accadono indipendentemente dalla
volontà umana e che coinvolgono gli individui. I fatti possono essere visti in
modo
generale,
quando non viene estratta l'intimaessenza: non è importane il fatto che una
persona venga uccisa, ma che sia eliminato un ostacolo per la conquista e il mantenimento
del potere, un ostacolo che può oggettivamente rovinare tutto;
particolare,
quando l'avvenimento non è inquadrato in una visione generale delle cose e quando è
visto nel suo svolgersi immediato e contingente.
GIUSTIFICAZIONE
Molto si è parlato a
proposito del Principe del fine che giustifica i mezzi,
ma questa affermazione presenta qualche inesattezza: in Machiavelli dobbiamo innanzitutto
parlare di necessità; ogni azione del Principe deve essere
necessitata dalle circostanze e deve essere proporzionata al fine da raggiungere. In
questo senso è da intendersi nel Machiavelli la giustificazione (o meglio
l'accettazione per principio) dell'uso della forza e della violenza: non è un problema
morale ma politico, da inserire nel quadro generale del raggiungimento di un obiettivo
predeterminato. Niente e nessuno obbliga un individuo a perseguire l'obiettivo della
conquista e del mantenimento del potere, ma quando si mette in moto, allora deve predere
tutti quei provvedimenti che sono adatti alla preservazione sua. Sul piano morale
l'affermazione riguarda in particolare l'uccisione dei rivali nella corsa al potere e nel
suo mantenimento: un assassinio, l'esecuzione di una condanna a morte può trovare la sua
accettazione solo nell'esigenza del mantenimento del potere; non è accettabile comunque
quando non persegue questo scopo e il suo uso diventa eccessivo.
L'analisi effettuata porta il Machiavelli
a una concezione morale della vita non di tipo religioso, ma sociale e politico. La sfera morale viene separata e tenuta distinta dalla religione e
quando viene legata alla politica, diventa l'insieme dei provvedimenti che il principe
deve prendere per conquistare e mantenere il potere. Su questo piano la religione assume
un valore più ristretto e funzionale ai fini che il Principe si pone, assumendo una
particolare importanza: è uno dei modi ausiliari per mantenere il potere sul popolo che
bisogna fare in modo che creda in un Ente superiore. Allo stesso modo serve a papi come
Alessandro VI, Leone X o Giulio II, a re come Luigi XII o a principi come il duca
Valentino o Francesco Sforza: la religione è solo uno strumento, potente perché penetra
nel profondo dell'animo umano, lontano da ogni sensibilità spirituale, che serve a
costruire il potere e a mantenere sottomesso il popolo.
Tipico è il comportamento del Duca
Valentino (Cesare Borgia), sul caso della Romagna appena conquistata, regione piena di
latrociniie di ogni insolenza, nei confronti di Remirro de Orco, "uomo crudele ed
espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica e
unita... Di poi iudicò el duca non essere necessario sì eccessiva autorità, perchè
dubitava non divenissi odiosa... E perchè conosceva le rigorosità passate averli
generato qualche odio... volle mostrare che, se crudeltà alcuna era seguita,, non era
nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E, presa sopr'a questo occasione, lo
fece a Cesena, una mattina, mettere in dua pezzi in sulla piazza, con un pezzo di legno e
un coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale spettaculo fece quelli populi in un
tempo rimanere satisfatti e stupidi". Con un solo atto Cesare Borgia ottiene due
risultati: si libera di Remirro de Orco e intimorisce i romagnoli.
L'uso della violenza non assume il valore
di una teoria fissa e immutabile, ma diventa una necessità che non va sottoposta
al vaglio della religione e della morale ma della ragione e del potere. Machiavelli della
violenza non ci dà nessuna giustificazione, ma contrappone uomo a uomo sul piano della
razionalità, non della morale, perchè "se li uomini fussino tutti buoni, questo
precetto non sarebbe buono... Bisogna, adunque, essere golpe e conoscere e' lacci e lione
e sbigottire i lupi: coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne
intendono", non capiscono cioè le regole per mantenere il potere e quindi non hanno virtù.
La violenza va usata solo se è
necessarioe se si è costretti dalla superiore ragion di Stato, anche se in qualunque
frangente il principe deve mostrare la sua potenza per incutere timore, come il leone, per
non essere facilmente attaccato.
ANALISI LINGUISTICA
Il Machiavelli
analizza i fatti della storia antica, la nascita-vita-morte delle Repubbliche e dei
Principati dell'antichità, gli avvenimenti che li hanno caratterizzati con le annesse
cause e conseguenze per trarre leggi e principi più o meno universali ai quali uniformare
il proprio comportamento e le proprie decisioni.
Il contenuto del Principe è
espresso con una logica stringente e razionale attraverso due procedimenti:
1) modello dell'antitesi o dell'antinomia -
es: |
I
Principati o sono ereditari... o sono nuovi.
Tutti gli stati... sono
stati e sono o repubbliche o principati - E' principati sono o ereditarii o nuovi - e'
nuovi o sono nuovi tutti o membri aggiunti - e acquistonsi o con le armi d'altri o con le
proprie, o per fortuna o per virtù
Gli uomini si debbono o
vezzeggiare o spegnere -
Perché li uomini offendono o per paura o per odio |
La vita stessa ci pone di fronte a una serie di aut...aut: fra due possibilità che ci vengono date, e solo due, bisogna scegliere e senza perdere eccessivamente tempo, comunque prima che un altro con la sua scelta possa vanificare la nostra scelta
2) modello dell'analisi, che
si conclude quasi sempre con una norma generale; raramente accade il contrario: partire
dalla norma per proseguire con l'analisi delle cause dei fatti e delle conseguenze che
hanno scatenato.
Un altro elemento analitico è quello
della elencazione:
es: |
Aveva
Luigi fatto questi cinque errori (cap. 3)
A volerli tenere ci sono tre modi (cap. 5) |
Una elencazione che può anche essere espressa in modo più semplice: "La prima cosa indebolì le parti ... dopo questa aspettò ... spenti adunque" (cap. 7) in cui si mettono in evidenza i due fatti principali e la conclusione che corrisponde alla realtà che si è venuta a creare.
3) Ogni capitolo può essere divisibile in due parti: una che riguarda l'analisi e un'altra che riguarda l'esemplificazione.
IMITAZIONE
Il potere si può
acquistare o per virtù o per fortuna, e tanto più a lungo e con facilità
lo si mantiene quanto più lo si è acquistato con difficoltà e in un arco di tempo non
breve. Quando lo si acquista con fortuna, e quindi in breve tempo, occorre che il
Principe agisca con virtù e apporti quei cambiamenti nell'organizzazione del
principato che più gli possono tornare utili nel mantenerlo, e primi fra tutti
l'eliminazione di coloro che potrebbero avversarlo (per riconquistare il potere perduto) e
il favorire l'ascesa di un gruppo di persone favorevoli e fedeli.
Uno dei modelli di comportamento per il
Principe è l'imitazione dei grandi dell'antichità, di quelli che, come Ciro,
Romolo, Teseo e Mosè, hanno costruito un potere durevole nel tempo. L'imitazione
non deve essere fredda, precisa e passiva, ma deve tener conto da un lato dei princìpi
comuni e generali, dall'altro della realtà concreta in cui il Principe si trova ad agire.
In questo senso possiamo capire anche la profonda avversione di Machiavelli per le
congiure, perchè lo Stato conquistato in questo modo si perde facilmente, perchè si basa
sulla violenza del momento che non garantisce mai stabilità nel tempo, in quanto il nuovo
stato manca di solide fondamenta e della concordia di comportamento dei congiurati che
pensano più al bene individuale che comune: tutte le azioni dell'uomo devono essere
coordinate al raggiungimento del fine prefissato, e nelle congiure manca solitamente
l'ubbidienza cieca e fedele a un capo.
FORTUNA
L'altro grande
elemento che ha una profonda influenza sull'esistenza umana è la Fortuna, questa dea capricciosa e mutevole che incide
spesso in modo decisivo sulle azioni umane, contro la quale però si può lottare perché
c'è sempre la speranza di un mutamento. La forza maggiore della Fortuna nasce dall'incapacità dell'uomo a modificare la
propria natura. Nella minuta della risposta a Pier Soderini a Ragusa il Machiavelli
osserva che, come gli uomini hanno diverso ingegno e diversa fantasia, così i tempi hanno
proprie caratteristiche, e fortunato è colui che "riscontra il modo del procedere
suo col tempo", "Perché i tempi e le cose universalmente
e particolarmente si mutano spesso, e gli huomini non mutano le loro fantasie nè i loro
modi di procedere, accade che un tempo uno ha buona fortuna e un tempo trista. E veramente
chi fosse tanto savio che conoscesse i tempi e l'ordine delle cose, e accomodassisi a
quelle, harebbe sempre buona fortuna, o egli si guarderebbe sempre dalla trista, e
verrebbe a essere vero che il savio comandasse alle stelle e a' fati. Ma perchè di questi
savi non si truova, havendo gli uomini prima la vista corta, e non potendo poi comandare
alla natura loro, ne segue che la fortuna varia e comanda agli uomini e tienli sotto il
giogo suo".
Ma il teorico della virtù mai avrebbe
potuto abbandonarsi a un senso fatalistico dell'esistenza e dello svolgimento delle azioni
umane: sempre per Machiavelli l'uomo ha il potere di dominare una parte delle vicende,
sempre che riesca a prevederne in qualche modo la presenza e lo sviluppo. La capacità di
previsione è una delle qualità fondamentali del politico: bisogna saper vedere le cose
al loro nascere e agire tempestivamente con decisione prima che sia troppo tardi, afferma
più volte sia nelle Lettere che nel Principe e nei Discorsi.
Di fronte agli avvenimenti non si può temporeggiare: ogni inerzia, come ogni affidamento
dela soluzione dei problemi a forze esterne, è colpevole e preannuncia la fine, la
perdita del potere, la sconfitta definitiva.
La fortuna è quella forza
misteriosa che agisce al di fuori della volontà umana, dirigendo il corso degli eventi,
fino a determinare vittorie e sconfitte dell'individuo, ed è paragonata a un fiume che
può straripare travolgendo tutto: l'uomo virtuoso sa che nulla può fare contro un fiume
che straripa, ma può costruire argini potenti ed insuperabili nei momenti in cui scorre
pacifico neil suo alveo naturale.
Metà degli avvenimenti, afferma
Machiavelli, è retta dalla fortuna, mentre sull'altra metà la fortuna può
può influire positivamente o negativamente: su questa metà l'uomo può agire con la sua virtù
fino a cambiare il corso degli eventi. La fortuna pone, quindi, dei limiti
all'agire umano e può condizionarlo pesantemente. È il caso brutale e improvviso che
può distruggere le azioni dell'uomo fino ad impedirgli di raggiungere i propri fini, come
nel caso della malattia di Cesare Borgia negli stessi giorni della morte del padre
Alessandro VI, per cui non potè assicurarsi l'elezione di un papa amico e fu costretto
dalla sua momentanea debolezza ad accettare quella di un suo mortale nemico, Giulina della
Rovere, di cui aveva in quei momenti sottovalutato l'inimicizia.
La fortuna, come elemento
modificatore assoluto, si realizza all'interno dell'occasione, la condizione
generale in cui versa una nazione, nella quale esistono le condizioni per un cambiamento
radicale del potere, dalle quali sono partiti i fondatori di Stati: la condizione generale
di schiavitù del popolo israeliano in Egitto era l'occasione sfruttata da Mosè,
anche se guidato da Dio, per realizzare la liberazione del suo popolo; l'occasionedi
Ciro è stata quella di trovare i Persiani malcontenti del dominio dei Medi e i Medi
stessi molli ed effeminati per la lunga pace.
VIRTÙ
L'imitazione, la verità
effettuale, l'uso della forza, la concezione dello stato e delle milizie cittadine al
posto di quelle mercenarie, l'occasione e la fortuna, insieme alla virtù
sono i concetti fondamentali della teoria politica machiavelliana. La virtù,
nel senso non dell'etica morale e religiosa, ma in quello di capacità di usare i mezzi
adatti per raggiungere un fine sfruttando l'occasione propizia e battendo la fortuna
avversa che tende a distruggere ciò che l'individuo crea.
Le azioni dei Principi non valgono in se
stesse, ma in quanto rivolte alla creazione dello Stato, che è il vero elemento centrale
della teoria machiavelliana. Il Principe che vuole mantenere lo Stato deve agire in modo
che le decisioni che prende siano coerenti con il fine da raggiungere e solo il fine
raggiunto può far accettare le decisioni, anche se non giustificarle sul piano morale.
La virtù è, quindi, la capacità
intellettiva del Principe, o di chi a qualunque titolo detiene il potere politico,
sociale, economico, ecc., di adottare la decisione più opportuna, il provvedimento più
idoneo per risolvere determinate situazioni. Il provvedimento deve ripondere a due
componenti:
Romolo e Ciro sono
stati virtuosi perchè le loro decisioni erano coerenti con il fine proposto, allo stesso
modo possiamo ritenere Alessandro vinto dalla fortuna in quanto la sua morte
precoce e inevitabile ha disintegrato uno Stato che non aveva ancora salde radici perchè
Alessandro Magmo non aveva avuto il tempo per prendere tutti quei provvedimenti adatti al
consolidamento dello Stato: la stessa cosa accadrà a Cesare Borgia, l'esempio più grande
ed evidente di virtù non supportata dalla fortuna.
La virtù è un elemento a
carattere universale, perchè risponde a norme comportamentali che sono
1) valide per chiunque voglia conquistare o mantenere il potere,
2) desunte dall'esperienza del passato, da analoghi fatti che hanno avuto per protagonisti
i grandi della storia.
La Religione
Machiavelli non ha uno
spirito religioso, e la sua sincerità lo fa apparire ancor più irreligioso di altri
uomini del suo tempo; ma non dobbiamo dimenticare che nel 1517 Martin Lutero affiggeva
alla porta della Cattedrale di Wittenberg le sue 95 tesi con le quali cominciava di fatto
la Riforma protestante. La cultura europea era pronta a voltare pagina, ad uscire dai
ristretti ambiti medievali, in cui prevaleva il comune con il suo contado, per distendere
lo sguardo verso spazi sempre più vasti mentre la mente si rivolgeva sempre più verso
una concezione universalistica che metteva comunque al centro l'uomo coi suoi pregi e i
suoi difetti.
Machiavelli appare più irreligioso di
tanti suoi contemporanei, perché talvolta non ha la prudenza di andare a messa e talaltra
quella di tacere soprattutto quelle cose che rappresentano i retroscena del potere. Ma non
è un ateo che si affida tutto alla ragione o un incredulo per mancanza di fede; è
piuttosto un uomo che disprezza le falsità che si sono andate mescolando con la religione
per fini politici o mercantilistici e che hanno fomentato una grossolana ignoranza non
solo nel popolino ma molto spesso anche nelle classi elevate: gli uomini vivono avendo
presente più la potenza di chi sta sopra sul piano politico-economico che il timore di
Dio, perché la paura del male che può fare il potente è presente come lontano è il
timore della condanna di Dio.
È su questa terra che gli uomini possono
fare del male e si dimostrano più inclini a fare il male che il bene; ma se Dio è
escluso dalla politica, la stessa cosa non avviene per la religione, che però non viene
sentita come atto di fede, ma declassata a evento storico e storicamente studiabile,
perché si può vedere come principi e popoli che si sono mantenuti incorrotti hanno
mantenuto incorrotte e in grande venerazione le cerimonie della religione: l'indizio della
crisi di un popolo è proprio il disprezzo del culto divino. I Prìncipi passano ma Dio
resta, e il timore verso un Dio che non passa diventa la garanzia più salda del quieto
vivere contro gli sconvolgimenti politici e sociali.
Per questo in Machiavelli diventa
veemente e profonda l'avversione per l'azione del Papato nella storia d'Italia, un Papato
che ha avuto la colpa di aver provocato in gran parte le guerre dei barbari in Italia dal
Medioevo al Rinascimento, sciupando spesso in una cattiva politica mondana la grande
potenza spirituale che solo la religione e la fede in un Dio eterno poteva garantire
(pensiamo ad esempio all'apisodio di Gregorio VII ed Enrico IV e a quello successivo di
Filippo IV il Bello e del diverso fine raggiunto dalle due scomuniche comminate dai due
Papi).
Proprio sul rapporto tra le vicende
italiane e la presenza della Chiesa così scrive Machiavelli nel XII cap. del Libro I dei Discorsi
sopra la prima deca di Tito Livio:
E perché molti sono d'opinione, che il bene essere delle città d'Italia nasca dalla Chiesa romana, voglio, contro a essa, discorrere quelle ragioni che mi occorrono: e ne allegherò due potentissime ragioni le quali, secondo me, non hanno repugnanzia. La prima è, che, per gli esempli rei di quella corte, questa provincia ha perduto ogni divozione e ogni religione: il che si tira dietro infiniti inconvenienti e infiniti disordini; perché, così come dove è religione si presuppone ogni bene, così, dove quella manca, si presuppone il contrario. Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i preti noi Italiani questo primo obligo, di essere diventati sanza religione e cattivi: ma ne abbiamo ancora uno maggiore, il quale è la seconda cagione della rovina nostra. Questo è che la Chiesa ha tenuto e tiene questa provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu mai unita o felice, se la non viene tutta alla ubbidienza d'una republica o d'uno principe, come è avvenuto alla Francia ed alla Spagna. E la cagione che la Italia non sia in quel medesimo termine, né abbia anch'ella o una republica o uno principe che la governi, è solamente la Chiesa: perché, avendovi quella abitato e tenuto imperio temporale, non è stata sì potente né di tanta virtù che l'abbia potuto occupare la tirannide d'Italia e farsene principe; e non è stata, dall'altra parte, sì debole, che, per paura di non perdere il dominio delle sue cose temporali, la non abbia potuto convocare uno potente che la difenda contro a quello che in Italia fusse diventato troppo potente: come si è veduto anticamente per assai esperienze, quando, mediante Carlo Magno, la ne cacciò i Longobardi, ch'erano già quasi re di tutta Italia; e quando ne' tempi nostri ella tolse la potenza a' Viniziani con l'aiuto di Francia; di poi ne cacciò i Franciosi con l'aiuto de' Svizzeri. Non essendo, adunque, stata la Chiesa potente da potere occupare la Italia, né avendo permesso che un altro la occupi, è stata cagione che la non è potuta venire sotto uno capo; ma è stata sotto più principi e signori, da' quali è nata tanta disunione e tanta debolezza, che la si è condotta a essere stata preda, non solamente de' barbari potenti, ma di qualunque l'assalta. Di che noi altri Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, e non con altri.
Tutte le volte che la Chiesa si è mescolata alle passioni sociali e politiche degli uomini, fondando l'autorità sulla forza materiale, smarrisce il suo fine perché costretta ad adattare i suoi princìpi con le mutevoli circostanze politiche, per cui la religiosità diventa un fatto puramente esteriore e di parata. Tutto questo l'uomo del Rinascimento, che non si faceva più educare attraverso le favole gentili che raccontavano di Numa Pompilio re-sacerdote, lo ha capito molto bene distinguendo ciò che un principe fa realmente durante l'esercizio del suo potere da ciò che appare all'esterno, quando si mette in parata davanti al suo popolo.
L'uomo
... per essere li uomini tristi
... se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono
tristi, e non la osservarebbano a te, tu etiam non l'hai ad osservare a loro.
... li uomini non sono mai sí disonesti, che con tanto esemplo di ingratitudine ti
opprimessino.
... perché li uomini sempre ti riusciranno tristi, se da una necessità non sono fatti
buoni.
... li uomini mutano volentieri signore, credendo migliorare;
... incredulità delli uomini; li quali non credano in verità le cose nuove, se non ne
veggono nata una ferma esperienza.
... li uomini offendono o per paura o per odio
... Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili,
simulatori e dissimulatori, fuggitori depericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai
loro bene, sono tutti tua, ófferonti el sangue, la roba, la vita e figliuoli, come
di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e si
rivoltano.
Sono queste le frasi più importanti
del Machiavelli sulla natura umana nel Principe. La concezione dell'uomo si pone al
di fuori della religione e della morale, perché ancora una volta importante è ciò che
si vive su questa terra, ciò che si conquista o si perde con le proprie azioni che devono
essere improntate a una lucida energia, lontano dalla rassegnazione a patire, in cui la
prudenza non è l'eccessiva cautela ma la previdenza.
L'uomo di cuore, cioè l'uomo
coraggioso e fiero devono possedere la riputazione e far di tutto per mantenerla,
sapendo che essa non deriva da una concezione morale ma dal dispiegamento della forza che
impedisce agli altri di nuocere.
L'uomo è fondamentalmente cattivo (per essere li uomini tristi), afferma anche nei Discorsi (vedi l'esordio del cap. 3 del Libro 1), per cui deve comportarsi, e
approntare anche le leggi, sapendo che tutti gli uomini sono cattivi e che useranno sempre
la malignità del loro animo ogni volta che ne avranno occasione: è questa una realtà
che il tempo, che si dice essere il padre di ogni verità, fa scoprire come profondamente
vera. Perché gli uomini sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori
dei pericoli, cupidi di guadagno (cap. 17).
Machiavelli non dice che l'uomo per
natura cerca di fare il male sempre e senza profitto (anche se questi mostri o bestie
esistono e sono molti), ma che per natura l'uomo cerca di fare il male quando vi trova o
crede di trovarvi un qualche profitto; quando l'occasione lo mette di fronte a un guadagno
o a una rivincita che non presenta pericoli, allora la bontà si rivelerà per quello che
effettivamente è: un aspetto esteriore. E chi nega questo lo fa solo per negare di essere
anche della stessa pasta: Non si dice infatti, con un certo ammiccamento, che l'occasione
fa l'uomo ladro? Approfondendo la natura dell'uomo non ne esce che una trama crudamente
vile e malvagia, e la politica rivela con maggiore frequenza e vastità o profondità
questa natura malvagia soprattutto perché la realtà vera è ammantata dai politici di
parole che crediamo venerande e sentimenti che sembrano sacri a prima vista: la politica
rivela gli uomini come sono fatti nella varietà reale dei loro vizi e dei loro desideri,
gli stessi che in scala ridotta riveliamo nella nostra esistenza quotidiana.
La Lettera al Vettori
È la famosa lettera in cui Machiavelli parla non solo del suo stato d'animo e delle sue attività di esiliato a San Casciano, dopo essere stato addirittura incarcerato e torturato perché sospettato di aver partecipato alla congiura antimedicea di Pier Paolo Boscolo; ma accenna anche alla composizione del Principe, al contenuto fondamentale (che cosa è principato, di quale spezie sono, come e' si acquistono, come e' si mantengono, perché e' si perdono) e alla consapevolezza che l'opera può essere di valido aiuto soprattutto a quei 'principi nuovi' che hanno un principato non ancora del tutto consolidato. Francesco Vettori (1474-1539) era molto amico di Machiavelli e nel 1513 si trovava in Roma come ambasciatore (o di oratore, come allora si diceva) della repubblica fiorentina presso il Papa Leone X. Tra Machiavelli e Vettori ci fu un ricco scambio epistolare, soprattutto negli anni 1513-14, nel quale i due amici si raccontavano non solo le loro avventure galanti, ma si scambiavano anche osservazioni sugli avvenimenti politici di Roma e di Firenze anche in relazione all'Italia e all'Europa.
Dopo aver considerato i Principati nuovi e misti in base alla loro costituzione etnica, linguistica e alla generale affinità, nei capp. IV e V Machiavelli tratta i Principati misti sulla base della loro costituzione giuridico-politica, e possono essere o principati assoluti (come il regno turco) o monarchie feudali (come il regno francese) o città libere e democratiche abituate a vivere con proprie leggi. Nel primo caso è più difficile è conquistare un principato assoluto, perché il principe domina su ogni elemento costitutivo dello Stato e ogni potente gli presta obbedienza illimitata e continuata, in quanto il suo potere deriva dalla concessione del principe stesso; ma sconfiggendo il principe assoluto ed eliminandolo insieme alla sua stessa discendenza, diventa facile di poi mantenere il principato non essendoci nessun altro che lo possa reclamare. Più facile, al contrario, nel secondo caso, conquistare il regno feudale in quanto i vari feudatari non prestano cieca obbedienza al loro re, in quanto il loro potere deriva dalla ereditarietà del loro feudo, per cui facilmente si può fare affidamento su qualche malcontento, che sempre e dovunque esiste, perché ambiziosamente spera di migliorare ancora di più la sua condizione; ma questa conquista comporta dopo numerose difficoltà difficili da gestire se non si possiede una grande virtù, perché è difficile contentare tutti in una volta quei nobili che hanno permesso la conquista stessa del potere. Nel terzo caso le difficoltà si incontrano sia prima, nella conquista del potere, che dopo, nel suo mantenimento, sia perché la città con tutti i suoi abitanti è gelosa delle sue leggi e dei suoi ordinamenti, sia perché il ricordo dei tempi della libertà soffocata e vinta e degli ordinamenti distrutti è sempre fonte di disordini e di ribellioni.
Dopo aver trattato l'origine storica del principato e la sua costituzione militare, con questo capitolo comincia la trattazione del problema del Governo dei popoli e del rapporto tra il Principe e il popolo. È un capitolo di grande importanza perché ci mette di fronte al grande realismo storico e politico di Machiavelli, sostanziato nel concetto della verità effettuale, fondamento del suo metodo, che è l'analisi obiettiva dei fatti storici dai quali ricavare le regole per conquistare e per mantenere il potere, al contrario dei molti che hanno immaginato repubbliche e principati che non si sono mai visti nella realtà storica. Machiavelli propone al principe un insieme di regole che trova la propria giustificazione soltanto nelle azioni e nei provvedimenti politici che i grandi del passato, anche recente, hanno messo in atto sia durante la conquista potere che nel corso degli anni in cui il potere lo hanno mantenuto: queste regole sono le "leggi della politica". Chi si è ad esse attenuto, ha trionfato; chi invece le ha disattese, ha perso tutto.