Giuseppe Bonghi
Introduzione generale
alla poetica
di Luigi Pirandello
6. Il personaggio pirandelliano
Occorre innanzitutto fare una distinzione fra persona e personaggio.
a) - La persona è l'individuo
libero, non ancora sottoposto alle norme di qualsiasi provenienza esse siano; vede la
realtà in maniera oggettiva e fonda la propria vita sulla convinzione, o perlomeno
sull'opinione, che la realtà stessa venga vista e sentita allo stesso modo anche dagli
altri. La persona, libera ed informe, può assumere una forma, costretta
dall'esterno o spinta da un impellente bisogno interno. Una caduta da cavallo provocata da
un rivale (costrizione esterna) fa assumere a una persona, senza nome nella realtà, la
figura di Enrico IV, ch'essa stava accidentalmente rappresentando durante una festa
carnevalesca in costume medievale; una volta guarita, rendendosi conto della realtà e del
comportamento di coloro che aveva ritenuto amici e che avevano agito e tramato contro di
lui, assume definitivamente e volontariamente la figura di Enrico IV (bisogno interno),
non tanto per sfuggire alle norme e alla comune giustizia (dopo aver smascherato e ucciso
Belcredi, suo rivale in amore ma anche amico di gioventù e di bagordi), quanto per vivere
un'esistenza finalmente in linea con i bisogni del suo spirito, dopo il riconoscimento del
fallimento e del tramonto stesso della sua esistenza.
b) - Il personaggio, invece, nella vita come nella fantasia
creatrice dello scrittore, è l'individuo fissato in una forma, che
compie sempre gli stessi gesti per l'eternità o finché non entra in un'altra forma.
Il personaggio, sottoposto a norme fisse ed inderogabili, porta una tragica maschera,
recita sempre le stesse battute, portando un mondo di sentimenti che gli altri non avranno
mai la forza di penetrare e di rivelare: sono i personaggi vivi della fantasia
creatrice. Sulla creazione del personaggio, così dice il dott. Fileno al
Pirandello nella novella La tragedia di un personaggio:
Nessuno può sapere meglio di lei che noi siamo esseri vivi, più vivi di quelli che respirano e vestono panni; forse meno reali, ma più veri! Si nasce alla vita in tanti modi, caro signore; e lei sa bene che la natura si serve dello strumento della fantasia umana per proseguire la sua opera di creazione. E chi nasce mercé di quest'attività che ha sede nello spirito dell'uomo, è ordinato da natura a una vita di gran lunga superiore a quella di chi nasce dal grembo mortale d'una donna. Chi nasce personaggio, chi ha la ventura di nascere personaggio vivo, può infischiarsi anche della morte. Non muore più! Morrà l'uomo, lo scrittore, strumento naturale della creazione; la creatura non muore più. E per vivere eterna non ha mica bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Mi dica lei chi era Sancho Panza! Mi dica lei chi era don Abbondio! eppure vivono eterni, perché - nati vivi germi - ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire per l'eternità.
Dal discorso di Fileno possiamo capire due cose:
1) - la vera forma dell'esistenza
è quella del personaggio, anche se nell'opera pirandelliana abbiamo un fluire continuo
dalla persona al personaggio e viceversa. Tipico esempio è il dramma Sei personaggi in
cerca d'autore, nel quale troviamo la netta distinzione tra i sei personaggi e gli
attori, persone che non sono ancora entrati nella parte, che nulla rappresentano e che,
soprattutto, non hanno alcuna forma. In generale possiamo affermare, anche se un po'
schematicamente, che nell'opera pirandelliana a una prima parte in cui vediamo agire
individui che sono ancora persone, corrisponde una seconda parte, in cui le persone
assumono tutte le caratteristiche dei personaggi;
2) - La fantasia creatrice dello scrittore domina sui
personaggi, e non viceversa, come la natura domina sugli esseri umani e crea uomini e
cose. Per questo molti critici hanno parlato di una ostilità di Pirandello nei
confronti dei suoi personaggi, come se questi gli scatenassero dentro un senso di
ripugnanza, perché visti nelle loro miserie e debolezze.
Il contrasto fra Pirandello e i suoi personaggi nasce dalla volontà dello scrittore di mettere a nudo l'anima dei personaggi, di scomporne l'apparente impassibilità e indifferenza di fronte ai casi della vita e di capirne l'intima composizione per metterne in mostra la loro vera forma che si concretizzerà una volta per tutte. Ed è contro questo atteggiamento dell'artista che i personaggi tendono a ribellarsi, a mostrarsi insofferenti, per impedire la spietata analisi che inevitabilmente ne metterà a nudo miserie e grandezze, ma anche per essere descritti così come essi si sentono e sono veramente dentro.
L'uomo non ha della vita un'idea, una nozione assoluta, bensì un sentimento mutabile e vario, secondo i tempi, i casi la fortuna. Ora la logica, astraendo dai sentimenti le idee, tende appunto a fissare quel che è mobile, mutabile, fluido; tende a dare un valore assoluto a ciò che è relativo. E aggrava un male già grave per se stesso. Perché la prima radice del nostro male è appunto in questo sentimento che noi abbiamo della vita. (154)
Pirandello ha colto questa illusione e la mette a nudo, scatenando non di rado vive reazioni nei suoi personaggi e nei suoi lettori, che in alcuni casi diventeranno aperta contestazione durante le rappresentazioni teatrali.
7. Rapporti tra personaggi
Il personaggio non
ha nessun'àncora di salvezza, nessuno scoglio cui aggrapparsi per mutare la propria maschera
o per andare oltre i limiti imposti dalla fantasia creatrice dello
scrittore: non ha nessuna possibilità di instaurare rapporti umani con gli altri
personaggi, perché ciascuno è obbligato a recitare la sua parte indefinitamente e
indipendentemente da quella rappresentata dagli altri: deve accontentarsi,
rassegnarsi a recitare la propria parte e capire che solo nella rappresentazione della
propria parte può diventare personaggio vivo.
Proprio sul piano di questo rapporto si
verifica la disintegrazione fisica e spirituale dei personaggi che possiamo riassumere in
tre punti essenziali che sono la teoria della triplicità esistenziale:
1) - come il personaggio vede se stesso;
2) - come il personaggio è visto dagli altri;
3) - come il personaggio crede di essere visto dagli altri.
Le conseguenze della triplicità sono tre:
1) - il personaggio è uno quando
viene messa in evidenza la realtà-forma che lui si dà;
2) - è centomila quando viene messa in evidenza la realtà-forma
che gli altri gli danno;
3)- è nessuno quando si accorge che ciò che lui
pensa e ciò che gli altri pensano non è la stessa cosa, quando la propria realtà-forma
non è valida sia per sé che per gli altri, ma assume una dimensione per sé e un'altra
per ciascuno degli altri
La triplicità è un elemento tecnico che serve al Pirandello per esaminare come i personaggi sono fatti veramente dentro e capire come essi si vedono. } UNO-CENTOMILA-NESSUNO~ sono le tre dimensioni dell'essere e della realtà del personaggio, nelle quali possiamo trovare l'origine dell'alienazione e della forma:
¨ - abbiamo l'alienazione
quando la dimensione UNO lascia il posto alla dimensione NESSUNO,
e il personaggio si rende conto di dover vivere non per come si crede di essere ma per
come gli altri credono che lui sia;
¨ - abbiamo la forma
quando la dimensione UNO si concretizza in una delle CENTOMILA
dimensioni che gli altri danno al personaggio.
La conseguenza della
disintegrazione del personaggio nelle tre dimensioni è la profonda coscienza nel
personaggio sia di non poter conoscere se stesso e gli altri, sia di non poter superare la
condizione di solitudine, determinata dall'evidente impossibilità di comunicazione, in
quanto ognuno possiede non solo UNA ma CENTOMILA dimensioni, non solo UNA
ma CENTOMILA forme, nelle quali realizzare il gioco delle parti.
La molteplicità delle condizioni
esistenziali si presenta al personaggio come una drammatica scoperta, nella quale tutto
diventa inutile, perché il personaggio non è più UNO, ma tanti quanti sono
quelli che lo vedono, addirittura tanti quanti sono gli stati d'animo di coloro che lo
vedono, lo conoscono o credono di conoscerlo; ed è anche NESSUNO, perché nessuna
di quelle forme che gli altri gli danno corrisponde a quellla che lui si dà. E il dramma
diventa ancor più profondo quando ci si rende conto che ciascuna di quelle forme è come
un'ombra estranea, e come le ombre provengono dal corpo ma non sono il corpo, così le
forme ci fanno vedere il personaggio ma non sono il personaggio stesso.
8. I personaggi e la forma
La forma è la maschera,
l'aspetto esteriore che l'individuo-persona assume all'interno dell'organizzazione
sociale per propria volontà (come Enrico IV nell'epilogo del dramma) o perché gli altri
così lo vedono e lo giudicano: è nella forma che l'individuo-persona
diventa personaggio.
La forma è determinata dalle
convenzioni sociali, dalla ipocrisia, che è alla base dei rapporti umani, regolati più
dall'egoistica valutazione di vantaggi e svantaggi o da meschine preoccupazioni per i
propri interessi, che da un vero attaccamento ai grandi valore. L'illusione nella quale
vivono i personaggi viene scoperta e messa a nudo attraverso una riflessione che
scompone ogni cosa fin nei suoi aspetti più nascosti e che i personaggi stessi non
oserebbero confessare.
Più rigida è la forma-maschera,
più l'uomo si allontana dalla verità, dalla realtà, dalla normalità. Esiste una forma,
nella tematica pirandelliana, che
a) - l'individuo-personaggio dà a se
stesso;
b) - gli altri danno all'individuo-personaggio;
c) - l'individuo-personaggio crede che gli altri gli diano;
d) - gli altri danno all'individuo-personaggio
e) - ciascuno individuo e ciascun personaggio crede di darsi nei rapporti con gli
altri.
È questo il ragionamento di Moscarda in Uno nessuno centomila:
In astratto non si è. Bisogna che s'intrappoli l'essere in una forma, e per alcun tempo si finisca in essa, qua o là, così o così. E ogni cosa, finché dura, porta con sé la pena della sua forma, la pena d'essere così, e di non poter più essere altrimenti...
E come le forme gli atti.
Quando un atto è compiuto, è quello; non si cangia più. Quando uno, comunque, abbia agito, anche senza che poi si senta e si ritrovi negli atti compiuti, ciò che ha fatto resta: come una prigione per lui. Se avete preso moglie, o anche materialmente, se avete rubato e siete stato scoperto; se avete ucciso, come spire e tentacoli vi avviluppano le conseguenze delle vostre azioni; e vi grava sopra, attorno, come un'aria densa, irrespirabile, la responsabilità che per quelle azioni e le conseguenze di esse, non volute o non previste, vi siete assunta.
Quando il personaggio scopre di essere calato in una forma determinata da un atto accaduto una sola volta e di essere riconosciuto attraverso quell'atto e identificato in esso, come può essere identificato in centomila altri atti diversi ma tutti ugualmente soffocanti, cade in una condizione angosciosa senza fine, perché si rende conto che
¨ - la realtà di un
momento è destinata a cambiare nel momento successivo,
¨ - la realtà è un'illusione perché
non si identifica in nessuna delle forme che gli altri gli hanno dato.
Accanto alle centomila
forme, che cambiano in continuazione, a seconda delle circostanze nelle quali
agisce, esiste una forma che incatena il personaggio per tutta la vita
determinandone gli atti: una forma che non cambia mai se non quando scompare il
personaggio stesso.
È quanto accade, ad esempio, nella
novella La carriola al personaggio principale, del quale l'autore non ci dice
nemmeno il nome, perché potrebbe essere chiunque, caratterizzato soltanto dai suoi titoli
onorifici, scientifici e professionali. Un giorno, mentre torna a casa in treno, stanco e
un po' annoiato, si appisola e comincia a sentire piano piano che gli è estraneo tutto
ciò che fino a quel momento ha vissuto, tutto ciò che ha creato e gli altri hanno creato
per lui sulla base delle convenzioni che legano i rapporti sociali.
Scopre all'improvviso di non aver mai
vissuto per sé e di non poter riconoscere come sua quella vita; il suo spirito non si
ritrova più in colui che tutti ricercano, rispettano, ammirano, "di cui tutti
volevan l'opera, il consiglio, l'assistenza, senza mai dargli un momento di requie".
Scopre, insomma, la forma, quel modo di vivere che si era trascinato dietro fino a
quel momento senza saperlo, subendolo come una cosa morta.
Perché ogni cosa è una morte.
Pochissimi lo sanno; i più, quasi tutti lottano, s'affaticano per farsi, come dicono, uno stato, per raggiungere una forma; raggiuntala credono d'aver conquistato la loro vita, e cominciato invece a morire. Non lo sanno, perché non si vedono; perché non riescono a staccarsi più da quella forma moribonda che hanno raggiunta; non si conoscono per morti e credono d'essere vivi. Solo si conosce chi riesca a veder la forma che si è data o che gli altri gli hanno data, la fortuna, i casi, le condizioni in cui ciascuno è nato. Ma se possiamo vederla, questa forma, è segno che la nostra vita non è più in essa... Possiamo dunque vedere e conoscere soltanto ciò che di noi è morto. Conoscersi è morire.
Quando si conosce il personaggio si sente soffocato e schiacciato dalla forma, da questo modo di essere che noi chiamiamo vita e che, invece, rappresenta la morte.
9. Forma uguale maschera
Abbiamo già detto che
i concetti di forma nelle novelle e nei romanzi e di maschera nella
produzione teatrale sono equivalenti.
È nella maschera che ritroviamo
un contrasto più profondo fra illusione e realtà, fra l'illusione che la
propria realtà sia uguale per tutti e la realtà che si vive in una forma, dalla
quale il personaggio non potrà mai salvarsi.
La maschera è la rappresentazione
più evidente della condanna dell'individuo a recitare sempre la stessa parte, imposta
dall'esterno, sulla base di convenzioni che reggono l'esistenza della massa.
Nella società l'unico modo per evitare
l'isolamento è il mantenimento della maschera: quando un personaggio cerca di
rompere la forma, o quando ha capito il gioco, inevitabilmente viene allontanato,
rifiutato, non può più trovare posto nella massa in quanto si porrebbe come elemento di
disturbo in seno a quel vivere apparentemente rispettabile, in quanto sottomesso alle
norme, ma fondamentalmente condannabile, in quanto affossatore dei bisogni basilari
dell'uomo.
La maschera, comunque non può essere
presa come un elemento negativo in modo assoluto, perché come rileva anche C. Alvaro,
sotto di essa il personaggio cerca di } riguadagnare il
senso vero della personalità umana, e qualcosa che supera la stessa personalità e
volontà dell'uomo~ .
La maschera è il simbolo, in
negativo del rifiuto delle false convenzioni sociali, dello sfruttamento dei pochi
sulle masse e della schiavitù dell'uomo sottomesso a norme che lo costringono a
un'esistenza disumanizzata; in positivo del tentativo di un ritorno alla verità,
riconquistata dopo averla sezionata nelle sue mille sfaccettature e nelle mille
impressioni che da essa ciascuno riceve. Sotto la maschera l'uomo si rivolta, come
Enrico IV, come tutti i personaggi che, sfuggendo alle norme, vogliono riconquistare un
proprio spazio vitale e un valore morale dei sentimenti.
10. La forma e l'accidente
Sia nella struttura
dell'opera teatrale che in quella narrativa, troviamo spesso un elemento tecnico di grande
importanza che tende a rompere la forma.
La rottura della forma, se da un
lato ridona nuova vita al personaggio, dall'altro provoca la perdita di quella
rispettabilità di cui aveva goduto fino a quel momento agli occhi della massa che compone
il mondo variopinto e indistinto delle persone che credono di vivere e invece non
sanno che anch'esse recitano una parte.
Nella novella Il treno ha fischiato
Pirandello rappresenta con chiarezza entrambi i concetti:
forma
Circoscritto... sì; chi l'aveva definito così? Uno dei suoi compagni d'ufficio. Circoscritto, povero Belluca, entro i limiti angustissimi della sua arida mansione di computista, senz'altra memoria che non fosse di partite aperte, di partite semplici o doppie o di storno, e di defalchi e prelevamenti e impostazioni... casellario ambulante: o piuttosto vecchio somaro, che tirava zitto zitto, sempre d'un passo, sempre per la stessa strada la carretta, con tanto di paraocchi.
Orbene, cento volte questo vecchio somaro era stato frustato, fustigato senza pietà, così per ridere, per il gusto di vedere se si riusciva a farlo imbizzire un po', a fargli almeno, almeno drizzare un po' le orecchie abbattute, se non a dar segno che volesse levare un piede per sparar qualche calcio. Niente! S'era prese le frustate ingiuste e le crudeli punture in santa pace, sempre, senza neppur fiatare, come se gli toccassero, o meglio, come se non le sentisse più, avvezzo com'era da anni e anni alle continue e solenni bastonature della sorte.
Inconcepibile, dunque, veramente, quella ribellione in lui, se non come effetto d'un'improvvisa alienazione mentale.
accidente
Cammin facendo verso l'ospizio ove il poverino era stato ricoverato seguitai a riflettere per conto mio:
- A un che viva come Belluca finora ha vissuto, cioè con una vita 'impossibile', la cosa più ovvia, l'incidente più comune, un qualunque lievissimo inciampo impreveduto, che so io, d'un ciottolo per via, possono produrre effetti straordinarii, di cui nessuno si può dar la spiegazione se non pensa appunto che la vita di quell'uomo è 'impossibile'. Bisogna condurre la spiegazione là, riattaccandola a quelle condizioni di vita impossibili, ed essa apparirà allora semplice e chiara.
Nella poetica pirandelliana l'accidente
serve a distruggere la forma, che fa esistere il personaggio nell'alienazione e a
fargli riscoprire l'originaria personalità repressa.
L'accidente è usato soprattutto
nella novella a struttura binaria aperta, e serve a ristabilire, secondo norme di
giustizia derivanti dalla Natura, quell'equilibrio spirituale nell'uomo e
nell'organizzazione sociale e statuale, che è stata messa in crisi da un'errata
valutazione delle qualità umane.
L'elemento dell'accidente è
rappresentato da qualsiasi cosa: il fischio d'un treno; un sasso urtato per via, che
all'improvviso si trasforma in un mondo pieno di vita e di creatività; la frase di una
donna (come nel romanzo Uno nessuno centomila, la rivelazione del naso che pende
verso destra fatta a Moscarda dalla moglie Dida); lo strappo di un filo d'erba nella
novella Canta l'epistola:
Ora, da circa un mese egli aveva seguito giorno per giorno la breve storia d'un filo d'erba, appunto: d'un filo d'erba tra due grigi macigni tigrati di musco, dietro la chiesetta abbandonata di Santa Maria di Loreto.
Lo aveva seguito, quasi con tenerezza materna, nel crescer lento tra altri più bassi che gli stavano attorno, e lo aveva veduto sorgere dapprima timido, nella sua tremula esilità, oltre i due macigni ingrommati, quasi avesse paura e insieme curiosità d'ammirar lo spettacolo che si spalancava sotto, della verde, sconfinata pianura; poi, su, su, sempre più alto, ardito, baldanzoso, con un pennacchietto rossigno in cima, come una cresta di galletto.
E ogni giorno, per una o due ore, contemplandolo e vivendone la vita, aveva con esso tentennato a ogni più lieve alito d'aria; trepidando era accorso in qualche giorno di forte vento, o per paura di non arrivare a tempo a proteggerlo da una greggiola di capre...
Ebbene, quel giorno venendo alla solita ora per vivere un'ora con quel suo filo d'erba, quand'era già a pochi passi dalla chiesetta, aveva scorto dietro a questa, seduta su uno di quei due macigni, la signorina Olga Fanelli... La signorina era sorta in piedi, forse seccata di vedersi spiata da lui: s'era guardata un po' attorno: poi, distrattamente, allungando la mano, aveva strappato giusto quel filo d'erba e se l'era messo tra i denti col pennacchietto ciondolante.
Tommasino Unzio s'era sentito strappar l'anima e irresistibilmente le aveva gridato: - Stupida! -.
L'accidente serve a portare l'individuo-personaggio alla scoperta dell'originario se stesso e trasforma il personaggio circoscritto nella forma in persona libera che la massa non può più comprendere né accogliere, perché questa crea una propria mutevole condizione di vita, mutevole come l'aria, il vento: tutto ciò che non si rapprende o assume forma, libera da ogni aspetto di quell'alienazione che abbrutisce.
11. Follia e alienazione
Ogni personaggio ha una sua realtà dipendente fondamentalmente da tre fattori:
1) - tempo,
2) - ambiente geografico,
3) - rapporto con gli altri personaggi, coi quali si crea spesso un insanabile contrasto.
La forma
rappresenta la realtà fissata per sempre, tanto che quando interviene l'accidente che
libera il personaggio, tutti pensano che la diversità di comportamento sia dovuta
all'improvvisa alienazione mentale del personaggio, a una sua forma di follia che scatena
in tutti il riso, perché non è comprensibile da parte della massa.
La follia, o alienazione mentale, è la
condizione nella quale i fatti commessi sono caratterizzati dalla a-normalità,
dall'uscire dalle norme che regolano i comportamenti della massa.
Solo la follia o la a-normalità
assoluta, e incomprensibile per la massa, permette al personaggio il contatto
vero con la natura, (quel mondo esterno alle vicende umane nel quale si può trovare la
pace dello spirito) e la possibilità di scoprire che rifiutando il mondo si può scoprire
se stessi. Ma questi contatti sono solo momenti passeggeri, spesso irripetibili perché
troppo forte il legame con le norme della società.
Così accade a Belluca, quando si ribella
al capufficio in modo tanto furioso, pronunciando parole sconnesse, poetiche e
incomprensibili, da essere portato all'ospizio per i matti.
Così accade a Enrico IV, un nobile del
primo Novecento fissato per sempre nella rappresentazione del personaggio storico da cui
prende il nome, dopo aver battuto la testa per una caduta da cavallo. In Enrico IV
troviamo l'esasperazione del conflitto fra apparenza e realtà, fra normalità e a-normalità,
fra il personaggio e la massa, fra l'interiorità e l'esteriorità. Per superare questo
conflitto il personaggio tende sempre più a chiudersi in se stesso, per cui la
a-normalità diventa sistema di vita.
Enrico IV è il personaggio più
disperato e tragico di Pirandello, e racchiude i temi di una poetica e di una visione
della vita che porta all'isolamento e alla disgregazione, alla rottura drammatica e totale
non solo con la storia contemporanea e con la cronaca quotidiana, ma anche con la realtà
del passato e con l'illusione del futuro. È il personaggio-maschera che
personifica la scoperta del grigiore e dell'invecchiamento delle cose e dell'uomo, insieme
alla coscienza dell'irrecuperabilità del tempo passato, che non può più ritornare
neppure nello spazio riservato alla fantasia, perché la vigile e riflessiva ragione
avverte che le cose mutano e non ritornano mai ad essere le stesse di una volta.
La guarigione di Enrico IV dalla pazzia,
improvvisa e fisicamente inspiegabile, proietta il personaggio nelle vicende quotidiane,
ma lo rende anche consapevole di non poter più recuperare i 12 anni vissuti 'fuori di
mente', per cui non gli resta che fingersi ancora pazzo dopo aver constatato che nulla era
rimasto ormai della sua gioventù, del suo amore, e che molti lo avevano tradito.
È in questa consapevolezza che la persona
diventa personaggio e prende definitivamente le sembianze di Enrico IV, assumendo
una forma immutabile agli occhi di tutti, ma non di se stesso, rifugiandosi nel già
vissuto, dove ogni effetto obbediente la sua causa, con perfetta logica, nella quale ogni
avvenimento si svolge 'preciso e coerente' in ogni suo particolare, proprio perché,
essendo già vissuto, non può più mutare.
Ogni uomo nasce dotato di una personalità che la Natura gli ha dato:
¨ - è normale quando questa
personalità si sviluppa secondo le norme della Natura stessa;
¨ - è a-normale, invece, quando,
attraverso le norme sociali, l'uomo non sviluppa più la sua originaria personalità, ma
ne acquista un'altra, secondo le norme che la società si è imposta per sopravvivere.
L'alienazione,
quindi, è composta da una personalità espressa non secondo natura, ma secondo le regole
della società, e può essere identificata con la maschera-forma, l'esistenza nelle
centomila forme che si creano nel corso dell'esistenza; l'accidente, distruggendo
la maschera-forma, distrugge l'alienazione, riportando il personaggio alla
sua condizione originaria, ma impedisce alla massa di capire il personaggio e le fa
pensare che questi è uscito di senno.
D'altra parte, proprio nell'alienazione,
come nel caso di Belluca, e in quello più tragico di Enrico IV, il personaggio riesce a
risolvere la condizione esistenziale, mentre la riflessione serve per mettere a
nudo le contraddizioni del mondo nel quale si trova a vivere, a mettere in risalto quel
senso di solitudine che un mondo fatto di finzioni, e ormai anche di macchine, porta con
sé.
Alienazione, quindi, non tanto come
elemento negativo, ma come elemento fondamentale della condizione umana, nella quale,
appunto stemperare la propria angoscia e il proprio dramma. Per questo, Pirandello cerca
nella propria opera il continuo contatto con i lettori, e approda al teatro come
definitiva ricerca del dialogo con gli spettatori, un dialogo senz'altro più immediato e
caldo di quello che si può realizzare con i lettori, coi quali il contatto è più
artificioso ed incontrollabile, anche perché mentre il lettore si può rifiutare di
continuare a leggere, chiudendo il libro, lo spettatore è costretto a restare seduto
sulla propria poltrona fino alla fine della rappresentazione, se non altro per educazione
verso gli altri spettatori.
Ma proprio in questo contatto, l'autore
scopre l'ennesima e più grande delusione, perché l'atto della parola diventa solo una
forma di confessione e di espiazione dei propri errori. I drammi si compiono parlando, ma
l'intima essenza di ciascuno rimane sepolta nella coscienza e nella consapevolezza di una
incomunicabilità di natura esistenziale per la quale egli non sa né può trovare una
soluzione che dia alla sua arte il carattere di compiutezza e di definitiva riabilitazione
dell'uomo, al di là di un profondo senso di condanna.
Alienazione, quindi, come soluzione
estrema e follia come estremo rifugio, per potersi salvare dal dramma
dell'esistenza.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi - E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 05 febbraio, 1998