Giuseppe Chiarini
Introduzione al Foscolo
DELLE POESIE LIRICHE E SATIRICHE
DI UGO FOSCOLO
E DI QUESTA EDIZIONE DELLE "GRAZIE"
PARTE SECONDA.
LE " GRAZIE ".
(Prima sezione)
Parliamo delle Grazie.
Il 2 d'agosto 1812 il Foscolo scriveva
all'Arrivabene, e il 5 al Giovio, che di lì a pochi giorni sarebbe partito per la Toscana
a curarvi la sua salute. Era da qualche tempo malato di febbri, e malato, come sempre ma
ora più forte che mai, d'amore. Se non che fortunatamente portava con sè, cioè, entro
di sè, una gran medicina ai mali d'amore, l'amore. Nel viaggio da Milano a Firenze si
fermò a Bologna, ove rivide la Martinetti, la bella e famosa
Cornelia, la rivide nel suo giardino, fece con lei chi sa che pazzi o malinconici e
galanti discorsi dei quali ella rise; ed appena arrivato a Firenze le scrisse in breve
tempo sette lettere. In una di esse le dice: "tutto quello che
può essermi caro mi s'accosta e mi fugge; e voi fuggirete dinanzi a me di tal guisa che
io, poveretto, malinconico e infermo non potrò raggiungervi mai; e vi vedrò pur sempre.
Vi dilungherete da me, e vi vedrò; vi perderò dagli occhi, e pur gli occhi miei vi
vedranno. Davvero vi voglio bene, davvero; e quando penso di scrivervi, cerco di rimanermi
tutto solo, e chiudo a chiave la porta, e spalanco le finestre, acciocchè la vista amena
de' colli e l'aria vivace che sorge dall'Arno mi rallegri alquanto, onde la mia lettera
non m'esca dall'animo tutta tinta di quella melanconia taciturna, che da più dì si
corica a letto e s'alza all'alba con me. Nè so perchè. - Dio t'ajuti, povero Foscolo! se
tu fossi qui, mia Cornelia, forse il cielo mi parrebbe assai più sereno: ma chi sa forse?".
E presso a poco nello stesso tempo scriveva all'amico suo Sigismondo Trechi: "Dopo la pallida persona (la Bignami) la Martinetti,
che le somiglia moltissimo, è la donna più pericolosa ch'io m'abbia veduto mai. Se non
che il suo troppo buon umore e quegli occhi, che dardeggiano con certa prepotenza, son men
da temersi da noi". A Firenze il poeta rivide la Nencini,
quella ch'era stata confidente degli amori suoi con la Roncioni, bella donna anch'essa, se
narra il vero la fama, e come tale cara al poeta, e per alcuni indizi nelle lettere di
quel tempo corteggiata da lui.
Le immagini di queste tre donne, tutte
tre belle di varia, signorile e matura bellezza, e la dimora del poeta a Bellosguardo,
dove si stabilì non molto dopo il suo arrivo a Firenze, determinarono io credo, il
concetto del Carme Alle Grazie, al quale fino allora
il poeta aveva pensato un po' vagamente, e del quale era venuto scrivendo qualche
frammento, senza mai tesserne la tela. Il Pecchio e il Carrer sono, come accennai, d'altra
opinione. Il Carrer scrive: "In siffatto soggiorno sul lago (il
soggiorno del Foscolo nell'autunno del 1808 sul lago di Como) vi aveva alcun che di simile
a quello già fatto sulle Colline vicino Brescia; e come ivi furono composti i Sepolcri, qui si condussero molto
innanzi o poco meno che si terminarono le Grazie".
Dopo ciò il Carrer entra a parlare dell'amore del Foscolo per la
Giovio e della lettera da lui scrittale il 19 d'agosto e conclude: "Tanta soavità di passione era naturale che alimentasse versi soavi e e
quand'anche trovassi testimonianze in contrario, mi ostinerei a credere composti a questo
tempo, e nel conflitto fra l'amore e il dovere, i più belli tra' bellissimi versi dello Grazie".
L'opinione del Carrer è confutata dal
Foscolo stesso, il quale scriveva il 12 ottobre 1814 da Milano alla Contessa
d'Albany: "attendo a una certa operetta in versi ch'Ella
ha veduto nascere, consacrata alle Grazie". A questa testimonianza se ne può
aggiungere un'altra: le parole seguenti, pure indirizzate all'Albany, nel secondo abbozzo
di dedica del Carme "io vorrei potere presentarle in Firenze,
dove fu scritto, piuttosto chemandarle di Lombardia, questo libricciuolo". Ma
anche senza di ciò il concetto stesso generatore del Carme basta a provare che il
pensiero di cantare le Grazie, concepito dal Foscolo fino dal tempo dei Carmi, non si concretò in un vero e proprio disegno di
poema se non durante la dimora di lui a Firenze fra l'agosto 1812 e il luglio dell'anno
dipoi.
Il Foscolo modificò più volte, come
vedremo, il disegno e la tessitura del Carme; ma, nonostante le molte modificazioni, il
concetto generatore rimase immutato. Quale era nella prima redazione, tale rimase
nell'ultima. Il poeta finge di inalzare un'ara alle Grazie sul poggio di Bellosguardo,
dove era andato a villeggiare, e di guidarvi sacerdotesse le tre belle donne di cui
abbiamo parlato, Eleonora Nencini, Cornelia
Martinetti, Maddalena Bignami. Assegna alla prima
"le grazie che spirano d'un animo temprato di dolce pietà, e
lo simboleggia negli effetti della musica; alla seconda le grazie della fantasia espresse
dall'amabilità della parola; e alla terza giovane le grazie apparenti al guardo
dall'eleganza delle forme nei moti del ballo". Il Carme, fino dalla prima
redazione in un solo Inno, è indirizzato al Canova, e ispirato dalla statua di Venere,
che lo scultore aveva terminata per la Galleria degli Uffizi, quando Ugo arrivò a
Firenze:
E tuo, Canova, è l'inno; al cor
men fece |
versi che in una variante dicono,
la bella Dea che tu sacrasti |
Qui su l'Arno a le belle arti custode; |
cioè, qui dove io poeta scrivo il mio Carme.
[Il Mestica nel Discorso premesso alla sua edizione delle Poesie del Foscolo espresse l'opinione che l'idea dell'ara alle Grazie e del velo il poeta la derivasse dal gruppo del Canova, nel quale "le tre Dee sono rappresentate vicino a un piccolo altare che serve anche di appoggio al gruppo; tutte e tre ignude [...] con solo un leggerissimo volubile velo che ne copre appena ciò che la verecondia vuol più celato". A conferma della quale, opinione aggiunge che Ugo nella "sua dimora a Firenze vide e ammirò più volte il gruppo delle Grazie mentre il sommo scultore lo lavorava". Ma la signorina Eugenia Montanari in un recente studio sulle Grazie del Foscolo, pubblicato nella Rassegna nazionale di Firenze (Fasc. 1 dicembre 1903), dimostra che il Foscolo non potè mai vedere scolpire le Grazie, le quali, secondo affermano gli amici e biografi del grande artista, ed è confermato da alcune lettere, furono scolpite a Roma nel 1814. "Anzichè ispirarsi all'ara e al velo del gruppo canoviano, osserva giustamente la Montanari, ebbe il Foscolo la speranza d'ispirare egli stesso lo scultore". Ciò appare abbastanza chiaro da questi versi, che seguono, all'invito ch'egli fa al Canova di assistere al vago rito e agli inni ispirati dalla sua Venere.
Forse (o ch'io spero) artefice
di Numi, |
Che il Foscolo scrivesse a Como alcuni dei versi i quali poi si sono ritrovati tra i frammenti delle Grazie, è molto probabile; ma non questi che il Carrer crede ispirati dall'amore per la Giovio, e che io credo scritti a Firenze:
Lunghe gioje promette, e a duol
più lungo |
i quali furono poi ridotti ad un solo verso nella redazione ultima del Carme:
Gioja promette e manda pianto amore. |
Credo piuttosto che scrivesse a Como i bellissimi versi sul Lario; e che siano inspirati dalla Giovio questi altri:
Come nel chiostro vergine
romita, |
Il Foscolo introdusse poi nell'ultima redazione delle Grazie soltanto tre versi di questo frammento, adattandoli
alla suonatrice d'arpa. Se, e dove e come ci avrebbe introdotto gli altri, chi sa! Ma ove
bastasse la introduzione nel Carme di questi ed altri pochi frammenti simili, forse
composti a Como nel 1809, per dire che il Carme fu incominciato o condotto molto innanzi
in quel luogo ed in quel tempo; bisognerebbe con più ragione dire che esso fu cominciato
fino dal 1803, quando il poeta pubblicò nelle note alla Chioma di Berenice, i primi
frammenti della Grazie come frammenti di un antico
Inno greco tradotti.
A Firenze le aure alfieriane che il poeta
respirava in casa della contessa d'Albany, alle cui
conversarzioni era assiduo, lo richiamarono disgraziatamente alle tragedie. Riprese la Ricciarda cominciata in Lombardia e ne cominciò un'altra,
della quale il 10 giugno 1813 scriveva al Trechi: " or sono al terzo atto di un'altra
tragedia, men passionata forse ma più affettuosa e più nobile della Ricciarda".
Oltre che alla Ricciarda
e all'altra tragedia, attendeva alla correzione e alla stampa del Viaggio
sentimentale e si metteva di proposito alle Grazie.
Non so dire quando precisamente ci si mettesse; crederei nell'aprile, o poco avanti: certo
nell'aprile ci lavorava, come apparisce da questi versi de' Frammenti
della prima redazione in un solo inno:
Già bello è Aprile. Or negli
aerei poggi |
Nei mesi di primavera questa prima redazione dovè, a mio avviso,
essere condotta molto innanzi. I frammenti di essa che io ho potuto rimettere insieme non
sono, probabilmente, tutto quello che il poeta ne scrisse, ma bastano, mi sembra, a dare
un' idea di ciò che doveva essere il Carme, secondo il primo disegno. Nel giugno, finita
la Ricciarda e speditala a Milano, il poeta si
occupò anche più di proposito del Carme: e la Contessa d'Albany,
che ai primi di luglio andò a fargli una visita a Bellosguardo, lo trovò che ci
lavorava.
Credo che appunto nel giugno, o poco
innanzi, gli venisse e cominciasse a mettere ad effetto l'idea di modificare il primo
disegno, e dividere il Carme in tre Inni. Il primo accenno di questa modificazione è in
uno dei manoscritti dell'Inno unico (Fasc. VI), dove la prima
intitolazione Inno fu corretta sostituendo al singolare il plurale.
*
* *
I tre Sommarii da me pubblicati possono dare un'idea delle modificazioni alle quali il disegno del Carme andò soggetto nel secondo periodo di elaborazione al quale si riferiscono, il periodo milanese: ma il primo disegno del Carme diviso in tre inni bisogna cercarlo, secondo me, nel Frammento dell'Archivio di Stato di Milano pubblicato dal Corio e nei brevi Avvertimenti che vi sono promessi. E da questi e dal Frammento mi par di desumere che il primo Inno doveva celebrare le lodi della suonatrice d'arpa, il secondo della donna delle api, il terzo della danzatrice. Il Frammento, mandato dal poeta a Milano nel luglio per essere sottoposto all'approvazione reale, dovè probabilmente esser composto nel mese innanzi, subito dopo una sciagura gravissima che aveva colpito la famiglia Bignami [cioè il fallimento del vecchio Bignami, e il suo suicidio). In proposito di questa sciagura il Foscolo scriveva il 10 giugno al Trechi: "io m'aspettava per lei (la Bignami) tutte le disgrazie, da questa ultima in fuori che colse anche i suoi figliuoletti ... Se mai tu la vedessi, dille che so tutto: niente altro. Due giorni dopo scriveva a Marianna Venèri: "La recente disgrazia di Casa Bignami, e i funestissimi effetti che ne sono seguiti e l'avvenire poco lieto per quella giovane madre di famiglia e per cinque suoi figliuoletti mi fanno amari i pensieri quando li volgo verso Milano". Chi sa che proprio in quei giorni egli non scrivesse i versi coi quali comincia il Frammento, versi che poi andarono a finire nella chiusa dell'Inno terzo!
A questa prima divisione del Carme in tre Inni ne successe una seconda, nella quale il primo Inno doveva probabilmente finire con la suonatrice d'arpa. Il secondo cominciava con la danzatrice e l'offerta del cigno, e precisamente col verso "Torna, deh! torna al suon, donna dell'arpa", col quale nella redazione ultima comincia la terza parte dell'Inno secondo. Le tre varianti di questo frammento, hanno ciascuna in principio del ms. la intitolazione "Inno secondo". Come l'Inno secondo dovesse seguitare e finire, e come cominciare e di quali parti essere composto il terzo, non apparisce dai manoscritti.
Il poeta lavorando s'innamorava ogni giorno più dell'opera sua; e la tela di essa gli si veniva allargando a mano a mano che pensava e scriveva. Tutti i concetti e fantasmi intorno alle Grazie, ch'egli aveva per tanto tempo metafisicamente e poeticamente accarezzati, gli si affollavano nella mente; e intorno ad essi si veniva a poco a poco raccogliendo tutto o quasi tutto quello ch'egli aveva pensato e scritto degli altri Carmi. E con ciò gli accadeva, senza avvedersene, di dare all'opera sua una estensione, alla quale gli doveva poi esser difficile assegnare dei limiti.
Mentre egli lavorava alacremente alle Grazie, e quasi gli pareva d'averle finite, un complesso di fatti, che qui sarebbe fuor di luogo enumerare lo indusse ad abbandonare il dolce soggiorno di Firenze e tornare a Milano. Partì ai 24 di luglio, ma il pensiero della partenza gli ronzava per la testa assai prima. Il 10 giugno scriveva al Trechi: "Io ho una ragione capitale, che tu non sai, per cui almeno per ora non voglio nè sosterrei di stare a dimora in quella città (Milano), e tornando nel regno, mi starò gran parte del verno a Venezia, e la state in campagna sul lago, o altrove. Vedi dunque ch'io sto più di qua che di là con tutte le probabilità: potrebbe nondimeno anche darsi che un unico impulso di un attimo mi facesse passar l'Appennino.
Prima di partire scrisse all'Albany che andava a Milano per isventare le trame dei malevoli i quali avevano fatto proibire la Ricciarda, accusandola di essere una tela tessuta d'impolitico e di atrocità: e certo nella sua andata c'entrò per qualche cosa anche questo fatto; ma non era il solo, e forse neanche il principale motivo della partenza. Appena arrivato, scrisse all'Albany, che la Ricciarda era stata ribenedetta, e che sarebbe tornato a Firenze a sagrificare alle Muse, alle Grazie e a lei: e qualche giorno dopo: "le Grazie lombarde non mi compensano: alcune di quelle alle quali io aveva nel dolce tempo della prima etade sacrificato, o sono in campagna o villeggiano a Monza; ed una sola che in Milano mi piangerebbe, e sola m'amerebbe vecchio e infelice, la vedo, è vero, ogni giorno, ma per doverla compiangere amarissimamente, e non potere, quand'anche io fossi sterminatamente ricco, aiutarla". Il poeta, vedemmo, aveva fino dal luglio 1809 fatto proposito di esiliarsi da casa Bignami; era tre anni dopo andato a Firenze e da Firenze mandava a dire pel Trechi alla donna amata: "non sono sicuro se ci rivedremo; ma sono sicurissimo che non ci guarderemo mai più [...] omai, omai da gran tempo io ho coperto la vostra divina bellezza d'un velo nero e [...] se talvolta ritorno a guardarla rifuggo tristo ed atterrito da un certo ribrezzo, e da una avversione mista di pietà, da una perturbazione insomma che io sento, e che non posso descrivere". Propositi e sentimenti, che saranno anche stati sinceri; ma la sventura è una terribile alleata d'amore: e il poeta appena arrivato a Milano andò subito e tutti i giorni in casa Bignami. Ai primi di settembre, fatta una visita alla sua famiglia a Venezia, si dispose a tornare in Toscana. Fermatosi a Bologna, scrisse di là il 12 all'Albany: "Poche ore prima d'uscir di Milano ebbi un lungo colloquio con la B., e mi parve più infelice e più virtuosa e più bella che mai". E due giorni dopo: "Non so com'io mi sia deliberato a partire; nè so se potrò stare, bench'io lo tenterò con ogni mia forza, star immobile per alcuni mesi a Firenze". Ci stette, ma come sulle spine men di due mesi. Egli era, lo scrisse poi alla Magiotti, funestamente impazzito. Tornato a Milano, .... quel che avvenne lasciamolo raccontare a lui stesso.
"Appena giunsi, fui ben accolto anche dal marito, ma tre giorni dopo il maggiore de' figliuoletti ebbe una specie d'apoplessia, prodotta da una febbre perniciosa, mal conosciuta da' medici che dissanguarono quella innocente creatura a salassi, e lo consegnarono a' preti; se non che lo salvò la disperazione, e fu con contrario metodo trattato ad oppio, a muschio ed a china per sottrattivi, per cui quel ragazzo riebbe la parola dopo quattro giorni di letargo, e la vita; ed era convalescente [...] Che notti amare, che lunghe veglie e quante lagrime disperate! Ma come fu guarito il ragazzo, la mia assiduità e il vedere ch'io per ora stava risolutamente in Milano e presso il ministro della guerra, inferocì l'antica gelosia del marito, che divenne muto, vigilante ed in uno stato deplorabile: e l'essere egli infelicissimo o imprigionato volontariamente in casa dalla sua passata calamità accrebbe i rimorsi, i doveri e le angosce della moglie; e con le angosce un tremendo terrore perpetuo che s'è immedicabilmente innestato nelle mie viscere. Ho dunque dovuto rassegnarmi al partito di non rivederla mai più; di parlarne io stesso al marito, che mi confessò la sua fatal gelosia o parve acquetato dalla mia promessa di esiliarmi perpetuamente dalla casa per ora, e poscia, quando potrò, dalla città ch'egli abiterà.
Che cosa c'era di vero in questo che il Foscolo scriveva all'Albany? È difficile dirlo; perché la donna per la quale egli era funestamente impazzito e tornato a Milano non era la Bignami, ma Lucietta Battaglia.
Pochi poeti ebbero, credo io, animo più bollente ed impetuoso del Foscolo, pochi furono agitati da più violente passioni; ma pochi anche trovarono nella poesia e nell'arte quella calma ch'ei vi trovava anche nei momenti più terribili. Si levavano sereni nella sua mente i fantasmi poetici, e le nubi della tristezza e delle procellose passioni via tosto si dileguavano. Pure in questo periodo di tempo, fra la prima e la seconda andata a Milano, ho ragione di credere che non si occupasse, o almeno si occupasse ben poco, delle Grazie. Quando vi andò la prima volta, era già alla seconda modificazione del primo disegno, e gli pareva d'avere quasi finito il Carme, come accennai, e come apparisce da ciò che ne scriveva al Grassi pochi giorni dopo il suo arrivo a Milano. Se questa seconda modificazione appartenga interamente al primo periodo di elaborazione (il periodo fiorentino, cominciato, come vedemmo, verso l'aprile 1812, e finito nel luglio 1813) io non ho potuto accertarlo; ma lo credo: ad essa riferiscesi, secondo me, il primo abbozzo di Dedica all'Albany.
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Il secondo periodo di elaborazione del Carme cominciò probabilmente verso la metà del 1814 a Milano, con un nuovo disegno, rappresentato dal Sommario primo. In questo disegno le tre sacerdotesse delle Grazie sono riunite nell'Inno secondo, mantenendo l'ordine che avevano nella seconda modificazione, cioè, 1a la suonatrice, 2a la danzatrice col cigno, 3a la donna dei favi. Appariscono in questo Sommario primo i nomi di Venere, Vesta e Pallade, dai quali poi s'intitolarono nella ultima redazione i tre Inni. So non che, chi dà nome all'Inno secondo non è Vesta, ma la Tre donne; Vesta chiude l'Inno. Il Sommario secondo, che comprende i due primi Inni soltanto, è più che altro un indice della disposizione dei pezzi già fatti e di quelli che restavano da fare. Non so se sia caso che ciascuno dei due Inni risultasse composto di venti paragrafetti, segnati con numeri progressivi. Con questo nuovo sommario la tela del Carme si veniva allargando sempre più, e anche la disposizione delle parti si veniva mutando. Per non dire di tutte le mutazioni, noterò soltanto che l'ordine delle tre sacerdotesse è mutato: rimane prima la suonatrice; ma la danzatrice, che nel Sommario primo era seconda, cede il suo luogo alla donna dell'api, e diventa terza. E Vesta, che nel Sommario primo chiudeva l'Inno secondo, qui viene in principio dell'Inno, al N. 6. Il poeta doveva, io credo, lavorare alle Grazie secondo questo disegno, quando il 22 luglio, scrivendo a tre amici suoi, il Cicognara, il Pindemonte, l'Ugoni, parla a tutti tre del Carme. Al Cicognara dice: "A voi, oratore delle Grazie, manderò fra non molto il Carme delle Grazie, se pure avrò alcuni momenti d'ilarità da potergli dare l'ultima mano". Al Pindemonte: "s'io avrò pace e salute, [...] potrò forse fra non molto mandarvi il Carme intitolato alle Grazie, nel quale ho tentato di affratellare la poesia lirica alla didattica, e di idoleggiare le tradizioni storiche e mitologiche e le sentenze morali e le teorie metafisiche intorno alle Grazie, in guisa che il poema riesca di utilità al cuore dei lettori ed all'ingegno degli artefici". E all'Ugoni: "vi manderò in dono il Carme delle Grazie, che, se pur non m'illudo riuscirà tutto nuovo, e spirante amabile fantasia e melodia secreta, ed imagini da giovare agli alunni delle belle Arti. Ma benchè sia quasi finito per me, non è finito né poco né molto per chi dovrà leggerlo: però sto e starò lavorandoci ancor per un pezzo; e darà meraviglia che sì fatta poesia possa essere uscita in sì fatti tempi, e da un'anima angariata dalla fortuna, e per decreto di natura nutrita sempre dalla pensosa melanconia".
Il fatto di queste tre lettere ove si parla delle Grazie, scritte tutte tre nello stesso giorno, è per me una prova che il poeta vi stava allora lavorando, come del resto è attestato chiaramente da alcune parole della lettera all'Ugoni. Ma è singolare, e mostra quanto il disegno del Carme si fosse modificato e allargato da quel ch'era un anno innanzi quando il poeta partì da Firenze la prima volta, è singolare, dico, che mentre allora gli pareva d'averlo quasi finito, e sperava di mandarlo al Grassi entro l'anno 1813, ora dica che dovrà lavorarci ancora per un pezzo. Il secondo abbozzo di dedica si riferisce, credo, al Sommario primo il terzo abbozzo al Sommario secondo. L'essere adombrato nel secondo abbozzo di dedica, ed espresso chiaramente nel terzo, il concetto che il Carme gioverà agli artefici, somministrando loro soggetti nuovi, o il trovarsi poi questo medesimo concetto nelle lettere al Pindemonte e all'Ugoni è per me una prova di quello ch'io dissi, che cioè le tre lettere furono scritte quando il poeta lavorava alle Grazie sopra il disegno del Sommario secondo. A questo medesimo tempo appartengono, credo, gli abbozzi del Sistema degl'Inni e dell'Architettura del Carme, che leggonsi pure nel ms. del Sommario secondo.
Anche questa volta il lavoro patì una breve interruzione. Il 20 agosto 1814 il Foscolo scriveva alla Magiotti:
"Rimasto è a mezzo il grazïoso canto,
Secca è la vena dell'usato ingegno,
E la cetera mia rivolta in pianto".
Il poeta alternava al lavoro delle Grazie altri lavori, fra i quali la traduzione dell'Omero, di cui fra la metà d'agosto e la metà d'ottobre aveva fatto uno squarcio di altri due libri. Quando riprese le Grazie, probabilmente verso la fina di settembre, ne modificò o allargò ancora, per l'ultima volta, il disegno. Questo ultimo disegno è rappresentato dal Sommario terzo, o meglio dal disegno degl'Inni secondo e terzo di quel sommario; poichè in esso l'Inno primo differisce di poco o niente da ciò ch'era nel Sommario secondo, e la compilazione del detto Inno primo è certo anteriore a quella degli altri due Inni, e doveva certo venire modificata. E come il disegno dell'Inno primo così tutti quasi i frammenti di esso composti corretti e copiati dal poeta nel manoscritto stesso dov'è il sommario, appartengono ad un tempo anteriore al sommario degli altri due Inni, probabilmente al tempo del Sommario secondo. La diversità fra l'inchiostro con cui sono scritti il sommario e i frammenti dell'Inno primo e quello con cui sono scritti i sommarii e i frammenti degli altri due, e gli accenni di modificazioni al sommario dell'Inno primo scritti con inchiostro posteriore sono una prova materiale di ciò ch'io dico.
In quest'ultimo tempo del secondo periodo di elaborazione del Carme il poeta lavorò più che altro all'Inno secondo, che diviso in tre parti, assegnandone una a ciascuna delle tre sacerdotesse, nell'ordine che già avevano nel Sommario secondo; e della ultime due parti dell'Inno fece o rifece il disegno, sempre allargandolo. Dell'Inno terzo fece, o meglio abbozzò il disegno allora per la prima volta, dividendo l'Inno in tre parti, come credo avrebbe fatto anche dell'Inno primo se avesse potuto compiere il Carme. Egli lavorava alacremente a finirlo nella prima metà dell'ottobre, com'è attestato da ciò che ne scriveva il 12 alla Contessa d'Albany: "Attendo (ed oggi con tutte le forze, e in tutti i minuti, quando pur dovessi morire sotto il lavoro) a una certa operetta in versi ch'Ella ha veduto nascere, consacrata alle Grazie. La tela mi s'è allargata nel tessere; ma perchè la larghezza poteva nuocere al disegno, ho reciso molto parti già belle e tessute; o la composizione sì delle parti sì dell'architettura di tutto il poema è pienamente perfetta secondo me. Mi manca solamente la verseggiatura qua o là; e chi sa forse? Mi sarei spicciato a quest'ora, e avrei tutt'al più la poca pena di ridipingere il tutto; se non che m'è venuto tra capo e collo il maggiore de' guai che possa mai cogliere un pover uomo che fantastica versi [...] m'è convenuto lasciare la mia verdeggiante solitaria casetta".
Con la stessa lettera dice all'Albany che in altra le parlerà del suo progetto su l'edizione delle Grazie. Le scrisse di fatti tre giorni dopo: "sto per finire le Grazie; e quando il demonietto del verseggiare, che per ora se n'è ito improvvisamente di casa mia, tornerà a visitarmi o a farmi suonare l'armonia pittrice dei versi, darò al poema l'ultima mano. Frattanto chi ne intese alcune parti, ne dice le meraviglie; alle quali io non credo: credo bensì alla commozione ed all'entusiasmo che vado spesso vedendo nel viso di chi m'ascolta, bench'io reciti con quella mia tal cantilena di salmodia. Ma di queste Grazie e di non so che mia intenzione, le scriverò un'altra volta". Circa un mese dopo, il 13 novembre, riscriveva alla Contessa: "Le Grazie fanno pur le ritrose; e vedo che dovrò contentarmi di ripigliarlo a primavera".
Ma a primavera non le riprese; anzi dovè lasciarle affatto e per sempre, e lasciar con esse l'Italia. Cioè, proprio per sempre, no: ritornò più volto ad esse col pensiero, riprese in mano que' cari e preziosi scartafacci, ne corresse e fece copiare qualche frammento per mandarlo in Italia alla Quirina Magiotti, e scrisse, forse, nell'esilio l'epilogo dell'Inno terzo, dov'è suggellato splendidamente il suo amore per la Bignami.
Intanto, o belle,
O dell'arcano vergini custodi
Celesti, un voto dei mio core udite.
Date candidi giorni a lei che sola,
Da che più lieti mi fioriano gli anni,
M'arse divina d'immortale amore.
Sola vive al cor mio cura soave,
Sola e secreta spargerà le chiome
Sovra il sepolcro mio, quando lontano
Non prescrivano i fati anche il sepolcro.
Vaga e felice i balli e le fanciulle
Di nera treccia insigni e di sen colmo,
Sul molle clivo di Brianza un giorno
Guidar la vidi; oggi le vesti allegre
Obliò lenta e il suo vedovo coro.
E se alla Luna e all'etere stellato
Più azzurro il scintillante Eupili ondeggia,
Il guarda avvolta in lungo velo, e plora
Col rosignuol, finchè l'aurora il chiami
A men soave tacito lamento.
A lei da presso il più volgete, o Grazie,
E nel mirarvi, o Dee, tornino i grandi
Occhi fatali al lor natio sorriso.
So non proprio tutto l'epilogo, almeno qualche variante di esso fu scritta dopo elio il poeta abbandonò l'Italia; questa, per esempio, nella quale alla figura della Bignami si aggiunge, nei versi quarto e quinto, una circostanza che certo non appartiene a lei.
Date candidi giorni e queti sonni
A lei che amai di verecondo amore
Quando più lieti mi fioriano gli anni;
Nè dal mio labbro mai nè dalla cetra
Volò il suo nome, e fia celato il pianto
Ch'esule io verso.
È noto che il Foscolo non nascose a nessuno, anzi propalò egli stesso il suo amore per la Bignami, mentre tenne segretissimo quello per la Lucietta Battaglia.
Nelle lettere scritte dalla Svizzera alla Magiotti il poeta parla più volte delle Grazie. Il primo gennaio 1816 dice all'amica sua che, prima di lasciar Milano, le aveva messe al sicuro; il 9 febbraio che, se il freddo non irrigidisse le sue povere dita, la ne avrebbe già copiati o mandati molti squarci (da ciò si vede che in quel tempo egli aveva già recuperato i manoscritti); finalmente il 12 marzo le scrive: "Non passerà mezz'aprile, che tu avrai i versi fatti delle Grazie, con le lacune ai loro luoghi, e i ricordi delle cose che mancano da farsi; insomma tutta l'architettura in disegno, e quanto si è già murato in fabbrica". Nelle lettere successive torna ben quattro volte a parlare delle Grazie o degli squarci che voleva mandarne alla Magiotti, finchè il 24 luglio l'assicura che fra pochi giorni le avrebbe spedito lo squarcio del Velo. Ma che veramente lo spedisse non mi resulta, e ne dubito: certo è che la Magiotti non ricevè nè quello nè alcun altro dei promossi frammenti del Carme. Che il poeta non spedisse altrimenti il frammento del Velo è fatto probabile da ciò, che mentr'egli diceva di volerlo mandare era quasi sulle mosse per l'Inghilterra; e i preparativi del viaggio lo dovevano molto preoccupare. Nell'agosto lasciò di fatti la Svizzera, e il 12 settembre era a Londra.
[La Magiotti nell'Avvertimento da lei premesso alla copia dei frammenti delle Grazie, ch'essa la prima tentò di riordinare, afferma che il Foscolo finì il Carme, e lo mandò copia in Toscana ad una persona, che mai non lo ricevè; la qual persona è evidentemente lei stessa. Riferisco per intero l'avvertimento, che l'Orlandini riportò incompiutamente nell'Arvertenza alla sua edizione delle Grazie (a pag. 199 del volume delle Poesie): "Chi si adoprò a mettere un ordine ai tanti frammenti o squarci dei tre Inni alle Grazie e della Ragione poetica del Carme, non presume d'aver colto nel segno: bensì ha creduto di soddisfare al proprio desiderio di vederli riuniti in un tutto insieme per saggio della squisitezza d'un lavoro che, sebbene imperfetto, mostra evidentemente di qual bellezza o perfezione andrà fastoso quello che il Poeta credè degno del suo nome, o che finito e limato, da quell'incontentabile ingegno, Egli stesso mandò in Toscana ma disgraziatamente non mai ricevuto (sic) dalla persona a cui era conceduto l'onore". Questa medesima cosa la Magiotti la ripete in una lettura al Niccolini, di cui io trovai la minuta fra le carte di lei; e non posso nascondere che la cosa mi parve e mi pare assai strana. In tutte le lettere del Foscolo che fin qui si conoscono non c'è segno di quella spedizione alla quale la Magiotti accenna; e d'altra parte tutta la vita del poeta dal giorno ch'egli abbandonò l'Italia, e i manoscritti delle Grazie, stan là ad attestare ch'gli non solo non finì mai il Carme, ma da quel giorno, non vi fece più altro, o così poco che è come niente. nda.]
Coll'arrivo a Londra (sia che il rigido clima e il cielo nebbioso mortificassero la calda fantasia del poeta, sia piuttosto che egli, costretto a fare della letteratura per vivere, non avesse pur tempo di pensare ai versi, dai quali non poteva cavare danaro), coll'arrivo a Londra la vita poetica del Foscolo riman chiusa. Non gli restarono più per la poesia che delle aspirazioni, dei desiderii insodisfatti. Due volte nelle lettere ch'ei scrisse da Londra in Italia è fatto cenno delle Grazie; e tutte e due le volte cotesto cenno è l'espressione di un desiderio accompagnato dal tristo presentimento che non potrà essere fatto pago. Il primo cenno è in una lettera del 3 marzo 1818 alla Magiotti. "Stando nel 1814 a Milano, ei le scrive, io aveva quasi finito il Carme alle Grazie in tre inni; ed erano riesciti oltre ogni mia speranza; ma non sono finiti; nè so se avrò quiete nè vita da vederli stampati mai". Il secondo cenno è in una lettera del 30 settembre dello stesso anno al Pellico: "Certo è, Silvio mio, che s'io avrò costanza e salute da finire questo noioso lavoro (un Corso di letteratura italiana per gl'inglesi a cui allora attendeva) forse potrò raggranellare in pochi anni tanto da consolare poi la mia vita, ed avere tanta quiete d'animo ed ozio da vedere finite le Grazie, le care mie Grazie".
La quiete e l'ozio desiderato non vennero, e le Grazie restarono com'erano, cioè incompiute. Che restassero tali è attestato dal Foscolo stesso nella Dissertazione Di un antico inno alle Grazie; ed è confermato dai manoscritti del Carme, che si trovarono fra le carte del poeta dopo la sua morte, e che ora si conservano nella biblioteca labronica.
© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 11 dicembre 1998