Giovanni Ipavec
Docente di Italiano e Latino
presso il Liceo classico Carlo Alberto di Novara

Introduzione
alla
Gerusalemme Liberata
di
Torquato Tasso

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3. GLI STUDI DI POETICA E L’ELABORAZIONE DEL PROGETTO

         Nel 1565, all’età di 21 anni, Torquato Tasso riprese il progetto del poema eroico, rimettendovi mano con lo scrupolo di chi aveva elaborato una norma poetica rigorosa e intendeva attenervisi. E’ significativo che, parallelamente alla stesura dei primi canti del Goffredo – questo il titolo primitivo scelto dall’autore per il proprio poema – egli attendesse ai Discorsi dell’arte poetica, nei quali definiva la sua teoria del poema epico: creazione poetica e riflessione teorica procedevano dunque di pari passo.
         Col rigoroso rispetto delle nuove norme poetiche il Tasso prendeva le distanze dalla tradizione ferrarese dell’epica cavalleresca e in esso faceva consistere la maggior differenza strutturale della Gerusalemme Liberata rispetto all’Orlando Furioso.

         3.1. La regola delle tre unità
         Come procedette il poeta? Il primo punto nodale era costituito dall’esigenza di tener fede alla norma delle cosiddette unità aristoteliche, in particolare al principio dell’unità d’azione, che per il Tasso era scontato si dovesse applicare anche all’epica.
         I tentativi finora compiuti di un’applicazione rigorosa di questa norma, nel senso di una rinuncia a priori a rendere mobile e varia la trama della vicenda, erano ingloriosamente falliti. Tasso aveva davanti agli occhi la mediocrità di un’opera come l’Italia liberata dai Goti di Giangiorgio Trissino, al quale rimproverava cordialmente di non aver saputo percepire i gusti del pubblico e di non aver sentito il bisogno di introdurre nel proprio poema il criterio della varietà.
         Per non correre il rischio di offrire al pubblico un’opera insopportabile, egli ricercò una conciliazione tra unità e varietà, e la trovò semplicemente contemplando la natura del mondo creato. Come nel mondo è dato osservare un’incredibile varietà di climi e di paesaggi, di piante e di animali, pur mantenendo il mondo una sua indefettibile unità di costituzione, di forma, di essenza e di struttura, così la molteplicità dei fattori che entrano in un poema (eventi naturali e azioni umane, espressioni di sentimenti e interventi del Cielo…) fa capo ad una trama unitaria e compatta, nella quale i diversi elementi si combinano in una fitta rete di rapporti e di corrispondenze. Non era più proponibile un poema come il Furioso dell’Ariosto, la cui trama è frantumata in una miriade di episodi e di personaggi che non si inseriscono in una storia unitaria. Era necessario che la vicenda si sviluppasse attorno ad un centro ideale (unità di luogo), che fosse compatta nel suo svolgimento temporale, escludendo salti e discontinuità, limitando al massimo le prolessi* e le analessi* (unità di tempo) e soprattutto fosse incentrata su un unico tema fondamentale (unità d’azione). Quest’ultimo, perché fosse evitato il rischio della monotonia o della prevedibilità, poteva essere arricchito da numerosi episodi secondari (unità nella varietà), purché fosse sempre evidente la relazione con il tema fondamentale.

         3.2. Il rapporto storia-invenzione
         Il secondo problema che l’autore si pose riguardava non tanto la scelta del tema, che doveva essere storico, quanto il rapporto tra storia e invenzione poetica. Il problema, che avrebbe appassionato nell’Ottocento i cultori del romanzo storico, a cominciare da Scott e Manzoni, venne risolto dal Tasso con la scelta del verosimile. Ciò che distingue lo storico dal poeta è proprio questo: il primo deve ricercare e raccontare i fatti, nel rispetto assoluto dell’obiettività; al secondo spetta il compito di arricchire il racconto di tutte quelle invenzioni che possano suscitare il diletto del lettore. L’arte non deve imitare i fatti realmente accaduti, ma quelli che sarebbero potuti accadere; il poeta può attingere perciò liberamente alla sua fantasia, mescolando senza scrupoli realtà e finzione, fatti documentati e leggende, avvenimenti reali e prodotti dell’immaginazione, purché sia rispettato il principio di verisimiglianza nella globalità della storia. In altre parole il poeta può travestire liberamente la verità storica con la sua immaginazione, purché base della favola sia sempre il vero; se nei singoli episodi dell’opera può anche spaziare in una dimensione del tutto fantastica, l’insieme deve risultare storicamente plausibile, rispettare cioè lo spirito degli avvenimenti storici.

         3.3. Il fine educativo
         Il Tasso visse, come si è detto, in un’epoca nella quale era molto forte l’esigenza di un richiamo ai valori religiosi, come mezzo per un autentico rinnovamento dei costumi. Se la teoria delle tre unità aveva ubbidito nel primo Cinquecento ad una tendenza propria del classicismo rinascimentale, quella cioè a fissare in norme rigide e vincolanti il principio di imitazione dei modelli, nel clima moralistico della Controriforma essa rispondeva invece alla necessità di educare i lettori ai princìpi della morale cristiana.
         Il tragediografo, così come il poeta epico, non dovevano più scrivere unicamente per il diletto dei cortigiani né rivolgersi soltanto ad un pubblico dotto e letterato: destinataria dell’opera diventava l’intera società moderna e cristiana, che avrebbe dovuto trovare in essa, più che una mera fonte di diletto, un ammaestramento morale, che illuminasse il significato e il fine stesso della vita.
         Delle due funzioni assegnate alla poesia da Orazio nel suo già ricordato precetto miscere utile dulci venne senz’altro privilegiata la prima, l’utile, che afferma il primato del docere, rispetto alla seconda, il dulce, che contempla l’esigenza di delectare, cioè di procurare piacere al lettore.

         3.4. Il disegno del poema
         Il Tasso, una volta definita la sua poetica di base – rispetto delle unità cosiddette aristoteliche, scelta della materia storica rielaborata secondo il criterio del verosimile, intento pedagogico -, poetica che sarebbe andato ulteriormente definendo e perfezionando nel corso della stesura del poema, si dedicò all’elaborazione del grandioso progetto della Liberata.
         L’opera avrebbe avuto per argomento l’atto finale della prima crociata, la conquista della città santa (tema storico; unità d’azione); lo svolgimento della vicenda doveva esaurirsi nello spazio di pochi giorni e avere carattere continuativo (unità di tempo); centro dell’azione e costante punto di riferimento sarebbe stata Gerusalemme (unità di luogo). Quanto al messaggio religioso e morale (fine pedagogico), esso risultava evidente dalla scelta stessa dell’argomento, che invitava i cristiani a riscoprire la propria unità e a trovare il coraggio di combattere per la propria fede contro le minacce interne ed esterne. Il tema era di grande attualità, se si considera il pericolo allora incombente di un’espansione dei Turchi in Europa, ma non è escluso che il Tasso si proponesse altresì di difendere l’integrità della Chiesa di Roma contro le spinte disgregatrici della Riforma luterana.

4. LA STESURA DEL POEMA. LE EDIZIONI

4.1. Il tempo della scrittura

         Nell’estate del 1575 la prima stesura del Goffredo o Gottifredo era terminata e il trentanovenne autore si affrettò a spedirne diverse copie a dotti di ogni parte d’Italia, ai quali chiedeva che, letta l’opera, gli fornissero consigli, esprimessero critiche sul contenuto e sullo stile, proponessero correzioni e modifiche, soprattutto ne verificassero la conformità all’ortodossia morale e religiosa e l’aderenza ai canoni estetici, prima che egli si accingesse ad un’accurata revisione del testo.
         La ricerca del consenso dei dotti è sicuramente uno dei tratti che maggiormente distinguono l’età del Tasso da quella dell’Ariosto. Essa infatti non fu dettata tanto da insicurezza o da scarsa fiducia nel proprio talento, quanto da un’esigenza avvertita nel secondo Cinquecento, un’epoca "intensamente votata – come osserva il Caretti - all’esercizio critico e alla teorizzazione estetica, a differenza della precedente, che aveva veduto gli artisti risolvere ogni loro problema nello stesso momento creativo con una naturalezza e felicità mai più recuperate". E’ certo, comunque, che il Tasso non era soddisfatto del proprio lavoro, per ragioni sia stilistiche sia etico-religiose, ma tale insoddisfazione era profondamente radicata nella sua indole sensibile e umorale.
         Non sappiamo con esattezza a quanti letterati Tasso rivolse la richiesta di una revisione della propria opera: si fa innanzitutto il nome del mantovano Scipione Gonzaga, il destinatario delle Lettere poetiche, colui che avrebbe provveduto alla copiatura del poema e ne avrebbe curato la pubblicazione dopo averla sottoposta ad una rigorosa censura. Altri studiosi interpellati furono sicuramente gli amici padovani Vincenzo Pinelli, Domenico Veniero e Celio Magno e gli insigni professori del Collegio Romano Sperone Speroni, Flaminio de’ Nobili, Pietro Angelio da Barga, Silvio Antoniano e Vincenzo Gonzaga.
         Dal carteggio che Tasso intrattenne con questi suoi revisori si deduce uno stato d’animo alquanto tormentato: ora il poeta si rimetteva con totale arrendevolezza alle censure dei suoi dotti corrispondenti (particolarmente dure e rigide quelle del Collegio Romano, le cui sentenze in merito all’ortodossia morale e dottrinale erano considerate inappellabili); ora invece cercava disperatamente di difendere le proprie scelte tematiche e poetiche dagli interventi di una critica che, benché da lui stesso sollecitata, gli appariva troppo severa. Se si considera che questa era rivolta in particolare all’intera tematica erotica del poema, si capiscono appieno le apprensioni dell’autore, che affidava soprattutto agli episodi amorosi la fortuna del proprio lavoro. Contemporaneamente il Tasso incominciava a leggere l’opera ai suoi protettori, il duca Alfonso II, dedicatario del poema, e sua sorella Lucrezia, dai quali pure egli sollecitava giudizi e osservazioni.
         Il duca, pur non pronunciando giudizi di merito sulla poesia, si mostrò particolarmente interessato ai passi in cui erano celebrati i fasti della casa d’Este ed espresse il desiderio che l’opera venisse immediatamente pubblicata, ma l’autore era risoluto ad attendere il parere degli "esperti" e il placet delle autorità religiose.
         Il quadriennio 1576-79 fu forse il periodo più difficile della vita del Tasso. Delle varie critiche, che giungevano da ogni parte in risposta alle sue lettere, egli cercava di tener conto, impegnandosi senza esitare in un complesso lavoro di capillare revisione del testo; ma certe pretese dei suoi censori, che egli trovò del tutto assurde e ingiustificate, finirono con lo scatenare la sua insofferenza e contribuirono probabilmente all’insorgenza di quelle turbe psichiche che avrebbero costretto il duca ad internarlo in manicomio.
         In quegli anni copie manoscritte della Gerusalemme liberata circolavano liberamente negli ambienti intellettuali e venivano sottoposte dai solerti revisori ad arbitrarie integrazioni e spregiudicate correzioni. Alla corte estense crescevano le invidie e le gelosie nei confronti del giovane poeta di talento. Questi, un giorno del 1576, scoprì che dal suo scrittoio erano sparite importanti carte, tanto più preziose in quanto egli non ne aveva tratto alcuna copia, e diede in escandescenze. Torquato era sicuro che si trattava di un furto e giunse a sospettare perfino di un caro amico, Orazio Ariosto, pronipote del grande Ludovico e mediocre poeta. Decise pertanto di restare lontano per qualche tempo da Ferrara. Viaggiò, fece nuove esperienze; tra il ’78 e il ’79 attraversò le terre del Novarese e del Vercellese, riportandone graditi ricordi; soggiornò a Torino, alla corte di Emanuele Filiberto di Savoia. Ma la lontananza non giovò alla sua salute psichica: il senso di crescente sfiducia negli uomini, la mania di persecuzione dalla quale già da tempo era affetto, l’incomprensione e l’indifferenza da cui si sentiva circondato a corte e infine il timore di non riuscire a veder pubblicato il proprio capolavoro causarono nell’infelice poeta un grave squilibrio mentale, che rese necessaria, al suo rientro a Ferrara nel 1579, la reclusione nell’Ospedale di Sant’Anna.
         Sette anni durò la prigionia del Tasso e proprio in quel lasso di tempo si moltiplicarono le edizioni della Liberata. A due prime edizioni mutile, uscite con il titolo di Goffredo a Genova nel 1579 e a Venezia nel 1580 (quest’ultima curata da Celio Malaspini) seguì nel 1581 a Parma la prima pubblicazione integrale dell’opera a cura di Angelo Ingegneri col titolo definitivo di Gerusalemme liberata. Nello stesso anno a Ferrara Febo Bonnà, un letterato amico del Tasso, curò altre due edizioni integrali dell’opera, che furono approvate dall’autore stesso. Ciò proverebbe con una certa sicurezza che il lavoro di correzione del poema era stato portato a termine. Nel 1584 uscì a Mantova presso lo stampatore Osanna una nuova edizione curata da Scipione Gonzaga, il più autorevole tra i revisori del poema. Proprio in virtù di questa autorevolezza l’edizione mantovana fu considerata fino agli inizi del nostro secolo la più attendibile, ma i più recenti studi filologici hanno evidenziato, in molti passi, la mano del Gonzaga e riproposto, quale testo più vicino alla redazione ultima dell’autore e comunque anteriore al rifacimento della Conquistata, la seconda edizione ferrarese del Bonnà.

         4.2. Il successo e le polemiche
         La Gerusalemme liberata conobbe una rapida diffusione grazie al moltiplicarsi delle edizioni e divenne ben presto un caso letterario, riscuotendo un successo pari solo a quello ottenuto sessant’anni prima dall’ Orlando furioso. Ma il successo non fu incontrastato: il 1584, l’anno dell’edizione mantovana, segnò anche l’inizio delle polemiche intorno all’opera, altra croce per lo sventurato recluso del Sant’Anna.
         Era inevitabile il confronto con il capolavoro ariostesco: le simpatie e le predilezioni dei lettori si divisero equamente tra i due poeti, non solo nell’ambito delle semplici persone colte, ma anche in quello degli intellettuali (oggi si direbbe degli addetti ai lavori), che presero posizione in modo reciso a favore dell’uno o dell’altro dei due autori, giustificando le loro scelte con solide argomentazioni. Cominciò un frate di Capua, Camillo Pellegrino, che nel dialogo Il Carrafa ovvero della poesia epica (così intitolato perché Luigi Carrafa, principe di Stigliano, vi svolge il ruolo di principale interlocutore e sostenitore delle idee dell’autore) difese la superiorità della Gerusalemme liberata rispetto all’Orlando furioso, in quanto il poema del Tasso si presentava aderente ai canoni della poetica aristotelico-oraziana ed era senz’altro preferibile per il tema scelto e le relative implicazioni etico-religiose.
         Al Pellegrino rispose, l’anno successivo, un accademico della Crusca, Leonardo Salviati, con la Difesa dell’"Orlando furioso" dell’Ariosto contra ‘l "Dialogo dell’epica poesia" di Camillo Pellegrino, nella quale la superiorità dell’Ariosto veniva sancita in nome della fedeltà di questo autore al canone linguistico di Pietro Bembo. Analoghe motivazioni si ritrovano nell’intervento di un altro accademico della Crusca, Bastiano de’ Rossi. Ad essere messa sotto accusa era soprattutto la lingua impiegata dal Tasso, giudicata non confacente all’ importanza del soggetto epico per l’uso frequente di parole ed espressioni appartenenti all’idioma corrente, plebeo e dialettale, non in linea quindi con la nobile tradizione fiorentina. Ma la polemica si trasferì ben presto dal piano puramente linguistico e stilistico a quello ideologico, investendo la persona stessa dell’autore, al quale fu rinfacciata una pregiudiziale avversione alla conclamata superiorità della tradizione toscana e perfino alla signoria dei Medici; né fu risparmiato Bernardo Tasso, accomunato al figlio dalle medesime accuse. Era facile, d’altra parte, rivolgere critiche più o meno gratuite e spesso infondate ad un uomo che l’opinione pubblica giudicava non sano di mente e che non poteva agevolmente difendersi dall’angusto spazio di una cella.
         Il Tasso non tardò, tuttavia, a far sentire la sua voce. Nel 1585 scrisse un’Apologia in difesa della "Gerusalemme liberata", nella quale, ribadendo le ragioni delle proprie scelte, ripeteva nella sostanza le idee già espresse negli scritti di poetica e nelle lettere inviate ai suoi revisori. Rispose anche espressamente a Bastiano de’ Rossi con una lettera a lui indirizzata.
         Di là dalle polemiche dei dotti e dalle motivazioni che le informarono restava il dato inconfutabile della novità e dell’importanza dell’opera del Tasso, la quale incontrò subito il favore di determinate cerchie di lettori, di due in particolare, molto diverse tra loro: gli oratori e i giovani. Ai primi piacque immediatamente quella commistione di poesia e di oratoria che costituisce il tratto più caratteristico dello stile della Liberata ed è ravvisabile soprattutto nei discorsi, molti dei quali sono costruiti alla maniera classica, con tanto di esordio e di perorazione. I secondi trovavano senz’altro più congeniale alla loro sensibilità e alle loro tendenze idealistiche e sognatrici il poema del Tasso rispetto a quello dell’Ariosto. Mentre l’Orlando furioso, per il superiore spirito critico che vigila sulla materia trattata servendosi di quel formidabile strumento della razionalità che è l’ironia, sembrava destinato ad un pubblico adulto e disincantato, la Gerusalemme liberata, come è stato giustamente osservato, viveva della forza di un sogno e della potenza del sentimento.

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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 17 novembre, 1999