Giovanni Ipavec
Docente di Italiano e Latino
presso il Liceo classico Carlo Alberto di Novara

Introduzione
alla
Gerusalemme Liberata
di
Torquato Tasso

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1. LA PRIMA IDEA DEL POEMA

         Nel 1558 Torquato Tasso aveva appena compiuto quattordici anni e si trovava col padre ad Urbino, quando gli giunse la notizia che una scorreria di pirati saraceni* aveva toccato le coste della Campania e messo a ferro e fuoco la natìa Sorrento. La sorella Cornelia, che viveva assistita dai parenti dopo la morte della madre, avvenuta due anni prima, era riuscita a salvarsi a stento.
         La notizia turbò l’animo dell’adolescente, generando in lui, forse per la prima volta, un sentimento misto di timore e di sdegno nei confronti del mondo islamico. Erano quelli, del resto, anni carichi di tensioni per l’Europa: i Turchi minacciavano l’Occidente cristiano; la Chiesa di Roma, che proprio in quel periodo era impegnata a fronteggiare la Riforma protestante* e avvertiva con crescente preoccupazione il pericolo di una perdita irreparabile di credito e di prestigio all’interno del mondo cristiano, guardava con apprensione ad Oriente, giudicando tutt’altro che remota l’eventualità di un’invasione musulmana dell’Europa.
         Sull’onda dell’emozione suscitata in lui da questi avvenimenti, Torquato si interessò alla storia dei rapporti tra Cristianità e Islam, approfondendo in particolare lo studio delle crociate*. Era ancora vivo in lui il ricordo della visita fatta da fanciullo al monastero di Cava dei Tirreni dove era custodito il sepolcro di Urbano II, il papa che aveva bandito la prima crociata. La sua formazione letteraria, inoltre, gli aveva già fatto conoscere le opere più illustri della tradizione canterina*, dall’Orlando Innamorato del Boiardo al Furioso dell’Ariosto, nelle quali i nemici da combattere erano appunto i Mori, sempre pericolosi e temibili, anche se votati alla sconfitta nella fantasia degli autori. Soprattutto lo appassionò la Historia Belli Sacri di Guglielmo di Tiro, cronaca medievale della prima crociata.
         L’anno successivo Torquato si trasferì a Venezia, la città da sempre più attiva di ogni altra in Europa nei rapporti con l’Oriente, sui quali aveva fondato gran parte della sua fortuna. Essa appariva tuttora agli occhi degli Europei come il più importante baluardo della civiltà cristiana; i suoi ambienti culturali si facevano interpreti presso il mondo intellettuale dell’esigenza di mantenere desta la vigilanza contro il pericolo turco.
         Non fu dunque per un caso che proprio a Venezia il Tassino – così era chiamato il poeta nella sua adolescenza – componesse la prima opera sull’argomento che gli stava tanto a cuore, il Gierusalemme, abbozzo (116 ottave in tutto) di un poema epico che avrebbe dovuto celebrare la conquista cristiana della città santa. Ma il progetto era ambizioso e al quindicenne Torquato mancavano ancora la tecnica poetica e la maturità intellettuale necessarie per portarlo a termine. Così lo accantonò, ripromettendosi di rimettervi mano in età più matura.
         L’operetta, dedicata al duca di Urbino Guidubaldo II Della Rovere, pur presentando difetti strutturali e compositivi, testimonia un ingenuo entusiasmo e un’ispirazione sincera. Si leggano, ad esempio, le ottave che descrivono il risveglio dell’accampamento cristiano all’alba del giorno nel quale i crociati riprenderanno, dopo la pausa invernale, la marcia verso Gerusalemme:        

      Allor ch’a Febo in oriente sono
del ciel dischiuse l’indorate porte,
di trombe udissi e di tamburi un suono,
ond’al camino ogni guerrier s’essorte.
Non è sì grato a mezzo agosto il tuono
che speranza di pioggia al mondo apporte,
come fu grato a l’animose genti
l’alto romor de’ bellici strumenti.

      Tosto ciascun, da gran desio compunto,
veste le membra de l’usate spoglie,
e tosto appar di tutte l’arme in punto,
tosto sotto i suoi duci ognun s’accoglie,
e l’ordinato stuolo in un congiunto
tutte le sue bandiere al vento scioglie:
e nel vessillo imperiale e grande
la trionfante Croce al ciel si spande.
                                                          (I, 8-9)

O quelle che presentano l’inarrestabile avanzata della flotta e dell’esercito, i quali procedono di conserva e senza incontrare resistenza alcuna, come un fiume straripante:

      Geme il vicino mar sotto l’incarco
di mille curvi abeti e mille pini,
e per esso omai più sicuro varco
in luogo alcun non s’apre a i saracini;
ch’oltra quei c’ha Georgio armati e Marco
ne i veneziani e liguri confini,
altri Inghilterra e Scozia ed altri Olanda,
ed altri Francia e Grecia altri ne manda.

      E questi, che son tutti insieme uniti
con saldissimo laccio in un volere,
s’eran carchi e provisti in vari liti
di ciò ch’è uopo a le terrestri schiere,
le quai, trovando liberi e sforniti
i passi de’ nimici a le frontiere,
in corso velocissimo sen vanno
là ‘ve Cristo soffrio mortale affanno.

      Non v’è gente pagana insieme accolta,
non muro cinto di profonda fossa,
non monte alpestre o gran torrente o folta
selva, che ‘l lor viaggio arrestar possa.
Così de gli altri fiumi il re talvolta,
quando superbo oltra misura ingrossa,
fuor de le sponde ruinoso scorre,
né cosa è mai che se gli ardisca opporre.
                                                      (I, 14-16)

2. I SUCCESSIVI SVILUPPI

         2.1. L’Amadigi di Bernardo Tasso
         Mentre Torquato abbandonava temporaneamente il progetto del Gierusalemme, il padre Bernardo riusciva finalmente a pubblicare a Venezia il suo Amadigi, un lunghissimo poema di cento canti in ottave, costato anni di lavoro e portato a termine dopo non pochi dubbi e ripensamenti. Il soggetto era ripreso da un romanzo spagnolo, l’ Amadis de Gaula di Garci Ordonez di Montalvo, che a sua volta aveva rielaborato un precedente portoghese.
         L’opera di Bernardo Tasso riproponeva i classici ingredienti del medievale ciclo bretone*, quel binomio amore-avventura che si era rivelato una formula di successo con il Boiardo prima e l’Ariosto poi, ma con una sostanziale differenza: la presenza dell’intento moralistico. Già nel romanzo di Garci Ordonez Amadis appariva come l’eroe perfetto, senza macchia, campione di una moralità che non scende a compromessi. Nella rielaborazione di Bernardo Tasso, nonostante l'inserimento di una maggior varietà di episodi e situazioni romanzesche, non veniva meno la finalità moralistica, seppure ricercata attraverso un forzato allegorismo.
         Non erano più i tempi del Boiardo e dell’Ariosto. Nello spazio di due sole generazioni avevano fatto la loro comparsa nel mondo culturale due novità destinate ad influenzare in modo determinante l’attività di artisti e letterati: l’azione della Controriforma* e la pubblicazione di autorevoli saggi sulla poetica dei generi letterari. Al clima di relativa libertà nel quale l’Ariosto aveva potuto attendere alla stesura del suo capolavoro erano subentrati tempi più difficili e problematici, nei quali gli autori erano sottoposti a condizionamenti e limitazioni talora pesanti.
         Consideriamo distintamente queste due importanti novità, cercando di capire in quale misura abbiano influenzato l’attività letteraria del giovane Torquato.

         2.2. La Controriforma
         L’età dei Tasso apriva la lunga stagione della Controriforma, che si proponeva di orientare in senso morale e religioso l’impegno degli intellettuali. Lo sforzo prodotto dalla Chiesa nella rigorosa difesa dell’ortodossia cattolica contro le confessioni riformate non poteva non avere ripercussioni sulla cultura: perché esso risultasse efficace era necessario il pieno controllo di ogni canale di diffusione della cultura e di ogni mezzo idoneo ad orientare la sensibilità della gente e ad influenzarne le idee in ambito morale e religioso. Di qui l’istituzione, o l’impiego più severo che in passato, di strumenti, quali il Tribunale dell’Inquisizione e l’Indice dei libri proibiti, atti ad inquisire, censurare, reprimere qualsiasi manifesta o anche solo sospetta deviazione dall’ortodossia. A farne le spese furono soprattutto il pensiero umanistico e, conseguentemente, la produzione artistica e letteraria che a quel pensiero si richiamava: l’uno e l’altra, infatti, essendo improntati ad una profonda fiducia nelle capacità dell’uomo, esaltavano ideali, valori e comportamenti connessi ad una concezione antropocentrica ritenuta ormai incompatibile con il nuovo orientamento. Questo dunque, sovrapponendosi all’ottica tutta laica e mondana del Rinascimento e spesso entrando in conflitto con essa, stimolò atteggiamenti diversi: se alcuni scrittori fecero proprie le istanze controriformistiche e impressero alle loro opere il marchio di una religiosità sincera, più numerosi furono coloro che aderirono al nuovo indirizzo in maniera ipocrita e conformistica. In entrambi i casi venne a disgregarsi a poco a poco quel sentimento di equilibrio e di sicurezza che aveva caratterizzato l’epoca precedente; soprattutto venne meno quella condizione di libertà intellettuale che si era dimostrata terreno fertile per la grande fioritura dell’arte rinascimentale.

         2.3. La nuova poetica
         Quanto al dibattito sulla questione estetica, fattosi particolarmente acceso verso la metà del secolo nei circoli letterari e nelle accademie, ci si rifaceva molto più rigorosamente che in passato all’autorità, considerata indiscutibile, dei classici, di Platone, Aristotele e Orazio su tutti.
         Platone sostiene l’origine irrazionale dell’ispirazione poetica: il poeta non è che un tramite tra Dio e gli uomini, giacchè, quando egli compone, è in realtà il dio che, sostituendosi alla sua mente, gli detta i versi.
         Aristotele, nella sua Poetica, attribuisce alla tragedia tre funzioni fondamentali: quella edonistica, mirante cioè al diletto dello spettatore; quella euristico-didascalica, per la quale il fruitore dell’opera doveva essere istruito sulla natura e sui meccanismi di funzionamento di sentimenti e passioni; quella morale, infine, rispondente allo scopo di indirizzare il pubblico ad una condotta virtuosa.
         Orazio, infine, riprendendo nell’Ars poetica le teorie dello Stagirita, individua l’essenza dell’arte poetica nel miscere utile dulci, ovvero in un giusto contemperamento della funzione pedagogica (docere) e di quella edonistica (delectare).
         Gli umanisti del Cinquecento vollero estendere i precetti della poetica classica ad ogni genere di componimento in versi e li rielaborarono soggettivamente, senza troppi riguardi verso le enunciazioni originali. Così, da un’interpretazione piuttosto arbitraria di alcuni passi della Poetica di Aristotele (in particolare 5,3 e 8,1-3) nacque la regola delle cosiddette unità aristoteliche di luogo, di tempo e d’azione, che obbligavano l’autore rispettivamente ad ambientare lo svolgimento dell’azione nello stesso luogo, a limitare ad un giorno la durata della medesima, rispettando l’ordine cronologico dei fatti, e a rappresentare o raccontare una vicenda semplice, incentrata su un unico protagonista affiancato da pochi personaggi. Le tre unità, che rispondevano all’esigenza di conferire all’opera il massimo di verosimiglianza, acquistarono proprio nel tempo del Tasso la forza e la rigidità di norme vincolanti.
         Il trentennio che seguì la morte dell’Ariosto (1533) e precedette la pubblicazione dell’Amadigi fu caratterizzato da un intensificarsi del dibattito sui problemi estetici, con esiti che dovevano influire in modo determinante sulle scelte del Tasso. Nel 1536 fu pubblicata la Poetica di Aristotele nella traduzione latina di Alessandro de’ Pazzi. Il testo fu ben presto considerato un riferimento obbligato per qualsiasi studio di poetica e alimentò di fatto una copiosa produzione: nel 1548 uscirono le Explicationes de arte poetica in librum Aristotelis di Francesco Robortello, il quale estendeva anche ad altri generi, in primo luogo all’epica, i canoni che riguardavano la tragedia; inoltre definiva compiutamente il principio di imitazione e le funzioni edonistica e catartica che Aristotele aveva attribuito alla poesia; nel 1550 Vincenzo Maggi pubblicò le In Aristotelis librum "De poetica" explicationes, il primo e più autorevole testo nel quale si fissava in modo rigido la norma delle cosiddette tre unità aristoteliche di luogo, tempo e azione. Meritano appena un cenno i saggi, tutti della seconda metà del Cinquecento, di Piero Vettori, Giovanni Antonio Viperano e Leonardo Salviati, nei quali si discute in particolare del rapporto tra le due funzioni fondamentali della poesia, la pedagogica e l’edonistica, con la conclusione, quasi unanime, che la ricerca del dilettevole, come mezzo per suscitare l’interesse del lettore, va subordinata all’esigenza di trasmettere un insegnamento che educhi al culto dei valori morali.
         Nel tempo della maturità del Tasso vennero dati alle stampe i lavori del trentino Giulio Cesare Scaligero e del modenese Ludovico Castelvetro. Il primo, nei Poetices libri septem (pubblicati postumi nel 1561) interpreta in senso rigorosamente moralistico il testo aristotelico; il secondo è autore di una Poetica d’Aristotele vulgarizzata et sposta, pubblicata nel 1570, nella quale, privilegiando la dimensione del piacevole, definisce la dottrina del verosimile, sulla quale, in quegli stessi anni, il Tasso fonda la sua poetica. Nel verosimile, sostiene il Castelvetro, si realizza il principio classico dell’ imitazione poetica della natura. La poesia deve distinguersi sia dalla storia, che ha per oggetto la realtà documentata, sia dalla filosofia, che ha compiti speculativi; essa può e deve avvalersi del meraviglioso (una delle componenti d’obbligo del poema epico nell’età umanistico-rinascimentale), prodotto dalla facoltà immaginativa del poeta, e mira innanzitutto al diletto del pubblico.
         Non va dimenticata, infine, tra le voci più autorevoli in tema di poetica, quella del ferrarese Giovan Battista Giraldi Cinzio. Nel Discorso intorno al comporre de’ romanzi (1554) egli fornì della regola pseudoaristotelica dell’unità d’azione un’interpretazione che fu accolta con favore da molti scrittori: persuaso della necessità di incentrare l’opera su un unico protagonista, secondo il modello dell’epica classica, ma affascinato nel contempo dalle scelte del Boiardo e dell’Ariosto, che avevano introdotto nei loro poemi diverse trame e più protagonisti, trovò un compromesso tra le due istanze, proponendo un solo protagonista autore di più azioni.
         Tra i primi poeti che vollero applicare le teorie del Cinzio ci fu il padre del Tasso. Inizialmente orientato a comporre il suo Amadigi seguendo il modello del Trissino, cambiò idea dopo aver conosciuto le proposte poetiche del Cinzio. Ma la sua opera non ebbe miglior fortuna di quella del poeta vicentino.

         2.4. Il Rinaldo
        
L’esempio del padre e il desiderio di cimentarsi in un genere regolato da una normativa tanto elaborata stimolarono di nuovo le ambizioni del Tassino, che nel giro di appena un anno riuscì a progettare, a stendere e a dare alle stampe un poema in dodici canti di ottave, il Rinaldo, la cui pubblicazione a Venezia nell’aprile del 1562 lo riempì d’orgoglio.
         Nel Rinaldo, evitato il terreno insidioso dell’epica storica, Torquato si librava con le ali della fantasia nel mondo leggendario dei cavalieri e delle loro avventure, immortalato dai romanzi cortesi del ciclo bretone*, nei quali la materia eroica era strettamente intrecciata a quella amorosa. La regola dell’unità d’azione era rispettata: la narrazione è infatti incentrata in un unico protagonista, Rinaldo, l’eroico paladino cugino di Orlando, di cui il Tasso racconta la giovinezza attraverso una serie di avventure in verità non sempre strettamente connesse tra di loro. Al pari del bretone Perceval* Rinaldo abbandona la casa materna e la città di Parigi per darsi ad una vita errante per il mondo, in cerca di avventure che possano procurargli gloria. Come Perceval conosce l’amore; ma la donna amata, Clarice, sorella del re di Guascogna, benchè ricambi il sentimento, ostacola con le sue maliziose schermaglie il raggiungimento di una felice unione. I due amanti vengono poi separati da un capriccioso destino, che li conduce qua e là per il mondo. La guerra con i Saraceni compare saltuariamente, ma si capisce che interessa poco al poeta, che si appassiona assai di più al racconto di storie d’amore intessute di elementi meravigliosi, quali interventi di maghi e prodigiosi riconoscimenti. Nelle sue peripezie Rinaldo conosce errori e sbandamenti, che gli fanno uscire di mente Clarice. Giunto nel regno di Media, è cortesemente accolto e ospitato a palazzo dalla regina Floriana, alla quale racconta, come Enea a Didone, le proprie peregrinazioni: mentre lo ascolta commossa, la donna sente accendersi nel cuore il fuoco della passione. Rinaldo si lascia sedurre dalla bella Floriana, con la quale sperimenta l’ebbrezza dell’amore sensuale, nella meravigliosa cornice di lussureggianti giardini posti su un’isola incantata. Così è narrato l’episodio della rivelazione d’amore:

      Nel palagio reale era un giardino,
ove ogni suo tesor Flora spargea;
da le stanze ivi sol del Paladino
e da quelle di lei gir si potea.
Quivi sovente il fresco matutino
Floriana soletta si godea;
la porta uscendo e entrando ognor serrava;
ché star remota a lei molto aggradava.

      Mentre una volta al crin vaga corona
tesse ella quivi d’odorate rose,
e presso un rio, che mormorando suona,
sen giace in grembo all’erbe rugiadose,
e seco intanto e col suo ben ragiona,
dicendo in dolci note affettuose:
"Ahi, quando sarà mai, Rinaldo, ch’io
appaghi ne’ tuoi baci il desir mio?",

      sorgiunge il Paladino, ed ode appunto
i cari detti de la bella amante.
Ahi, come allora in un medesmo punto
cangiar si vede questo e quel sembiante!
Ben ciascun sembra dal desio compunto,
e mira l’altro tacito e tremante;
lampeggia, come ‘l sol nel chiaro umore,
ne gli umidi occhi un tremulo splendore.

      L’un nel volto de l’altro i caldi affetti,
e l’interno voler lesse e comprese:
rise Venere in cielo, e i suoi diletti
versò piovendo in lor larga e cortese;
e forse del piacer de’ giovinetti
subita e dolce invidia il cor le prese,
tal che quel giorno il suo divino stato
in quel di Floriana avria cangiato.
                                     (IX, ottave 77-80)

         E’ il preannuncio del mondo di Armida, che nella Gerusalemme Liberata terrà avvinto a sé l’eroe in una inebriante prigione d’amore nelle Isole Fortunate (canti XIV-XVI). Alla fine Rinaldo e Clarice, ritrovatisi, coronano il loro sogno d’amore col matrimonio. Il poema, benchè contenga già diversi motivi che confluiranno nel capolavoro, è ancora acerbo: appare povero di quella tensione drammatica e di quella complessità psicologica che caratterizzeranno rispettivamente le vicende e i personaggi della Liberata; l’amore è sì presente come forza ineluttabile ed è connotato da un’accesa sensualità, ma si risolve in commedia, mentre nel poema maggiore si accompagnano costantemente ad esso la sofferenza e la delusione. Nei vari episodi, semplicemente giustapposti, solo le scene idilliche e i duelli presentano un vivace colore poetico.
         C’è tuttavia una caratteristica che lega intimamente il Rinaldo alla Gerusalemme Liberata: la propensione dell’autore a trasferirsi nei suoi personaggi. Nell’eroe che va in cerca di gloria, che vive intensamente il suo apprendistato di cavaliere e di amante, che trova nelle raffinate atmosfere della corte il suo ambiente ideale, c’è il Tasso con tutte le sue ambizioni di poeta cortigiano, così come nell’amore di Rinaldo per Clarice si riflettono sicuramente le prime esperienze amorose del giovane poeta con le belle dame di corte.
         Altro elemento comune ai due poemi è la perizia nella rappresentazione delle scene d’armi, in particolare degli spettacolari duelli, minuziosamente descritti con la competenza di chi conosce a fondo le regole della cavalleria e la nobile arte della scherma.
         Va segnalato, infine, nel Rinaldo, un certo gusto, che si può definire romantico ante litteram, nella rappresentazione della natura, che in alcuni episodi non appare come uno sfondo inerte e indifferente allo svolgimento dell’azione, bensì come una forza animata e partecipe delle vicende dei personaggi: i diversi aspetti di essa – dall’idillico al tempestoso, dal luminoso al tenebroso – sono chiaramente allusivi all’alternarsi delle vicissitudini e dei sentimenti umani.
         Per tutti questi motivi è lecito pensare che il Rinaldo fosse considerato dal Tasso un valido banco di prova per misurare le proprie capacità poetiche in vista di un ritorno alla sublime materia del Gierusalemme.

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© 1998 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 17 novembre, 1999