Giuseppe Bonghi
Introduzione
a
Il ritorno dalla villeggiatura
di
Carlo Goldoni
Commedia in tre atti in prosa
Rappresentata per la prima volta in Venezia
il 28 Novembre dellanno 176
Introduzione
PERSONAGGI Filippo La scena si rappresenta, come nella prima, parte in casa di Filippo, e parte in casa di Leonardo. |
Presentazione
La commedia Il
ritorno dalla villeggiatura viene rappresentata per la prima volta il 28 novembre 1761
e replicata per sole quattro sere nonostante avesse ricevuto un discreto concorso di
pubblico, ed è la terza della trilogia della villeggiatura: in un ritmo un po' lento, con
un fondo di rassegnazione che aleggia sui personaggi che ubbidiscono alle ragioni del
mondo e alle regole della società più che ai loro istinti e ai loro desideri (è questo
un eterno dilemma che agitano i piccoli cuori degli uomini) i casi personali dei vari
personaggi si sciolgono e trovano il loro logico accomodamento nel grigiore delle
decisioni prese sulla base di imprescindibili opportunità che rimettono comunque in sesto
patrimoni dissestati anche se i matrimoni non sono d'amore.
La trilogia non ebbe un grande successo per una
serie di motivi:
l'equivoco iniziale: da un lato
abbiamo la rappresentazione unitaria di tre sfaccettature di un unico argomento, la
smania della villeggiatura:
1° - la smania per i pazzi preparativi,
2° -
l'avventura durante la villeggiatura,
3° -
la folle condotta dei personaggi, quel che resta al ritorno con tutte le conseguenze
dolorose del folle atteggiamento tenuto durante la vacanza in campagna); dall'altro lato
la rappresentazione singola di ogni commedia;
è una commedia in nove atti o
tre commedie in tre atti? La prima rappresentazione è avvenuta tenendo conto della
compiutezza in sè di ciascuna commedia, ma le prime due, annunciando la seguente,
creavano già una sorta di suspence, e questo di per sè rende incompiuta un'opera
strutturalmente compiuta;
la partenza, l'anno successivo
(1762), di Goldoni per Parigi, per cui in generale la rappresentazione delle sue commedie
seguirà soprattutto le esigenze dei promotori locali che decidono secondo i loro gusti
quasi sempre e secondo quelli del pubblico qualche volta;
la concomitante uscita nei mesi
successivi di tre commedie che ebbero un grande successo:
Sior
Todero brontolon,
Una
delle ultime sere di carnovale, la cosiddetta commedia-congedo,
Le
baruffe chiozzotte,
che sono comunque tre grandi capolavori in assoluto del teatro goldoniano e del teatro in
genere; e poichè sono state le ultime cose di Goldoni a Venezia, inevitabilmente hanno
focalizzato l'attenzione degli spettatori, che sapevano dell'imminente partenza; il
successo non fu scalfito nemmeno dalla polemica di Carlo Gozzi che stava riscuotendo un
grande successo con la rappresentazione delle sue Fiabe (25 gennaio 1761 con L'amore
delle tre melarance, 24 ottobre 1761 Il corvo, 5 gennaio 1762 Re Cervo,
tutte di grande successo);
l'incompiutezza stessa del finale
della terza commedia: Giacinta si sposa con l'uomo che non ama e parte per Genova
allontanandosi dall'uomo che è l'oggetto del suo 'colpevole' amore, ma parte "con
animo risoluto di non rammentarmi che il mio dovere": il finale, insomma, non è il
classico lieto fine.
Il finale
Il finale della
commedia non scioglie compiutamente e felicemente i casi delle due coppie di sposi; anzi,
li lascia quasi sospesi. Giacinta è combattuta fra l'amore e il dovere: addolorata per
l'amore perduto e risoluta a compiere un dovere sentito come ineluttabile; ma in entrambi
i casi manca quel pizzico di felicità che è generata da ogni conclusione favorevole. Per
una volta prevale il senso del dovere sul diritto a vivere una vita: è questo un
moralismo troppo facile per un uomo del Settecento che sta assistendo al crollo di ideali
secolari e alla disintegrazione di un modello sociale che sta vivendo i suoi ultimi anni e
che verrà spazzato dalla Rivoluzione francese e dall'affermarsi delle idee
illuministiche.
Di tutto questo Goldoni è solo uno
spettatore sorridente ma non del tutto consapevole. Giacinta nel 1761 nelle mani del
commediografo Goldoni e in quel tipo di società non avrebbe potuto diventare un'eroina,
magari oscura, come la madre di Teresa dell'Ortis foscoliano, che abbandona il marito
perché questi aveva promesso sua figlia in sposa ad Odoardo che non amava come lei a sua
volta era stata promessa e sposata a un uomo che non amava.
Giacinta si assoggetta al suo
dovere, ma chiede almeno un po' di compatimento da parte degli altri perché la sua
consolazione risiede tutta nella coscienza di aver agito con prudenza, cioè, direbbe Bono
Giamboni, con saggezza e scaltrezza "in su le cose c'hae a fare, in conoscere il bene
dal male per diritta ragione, e aleggere il bene nelle sue operazioni, e fuggire il male
c'ha conosciuto". E questo male non è che l'amore per Guglielmo, che andava un po'
troppo contro le convenienze.
Comunque, proprio la virtù della
Prudenza, secondo i canoni del tempo che sono ancora quelli medievali, distingue l'uomo
dalla bestia, ed è ancora più importante nelle donne tanto che proprio per la prudenza
sono paragonate agli angeli: la donna prudente sa esaminare bene le cose distinguendo le
buone dalle cattive, ne sa conservare buona memoria. Ognuno quando agisce deve saper
guardare dentro di sè.
riassunto
Giacinta
manterrà la promessa fatta a Leonardo, Guglielmo da parte sua, dopo aver capito che la
decisione di Giacinta di sposare Leonardo e di andare a vivere a Genova, è irremovibile,
rispetterà le convenienze e le usanze della buona educazione in società e sposerà
Vittoria, la sorella del suo rivale in amore, le due coppie andranno a vivere lontane per
evitare quei putelezi femminili che avevano dato pepe alle due commedie precedenti
ma qui sarebbero state solo un po' di sale sulle ferite causate dall'amore irrealizzato.
La commedia si apre con Leonardo,
tornato precipitosamente a Livorno dalla villeggiatura a Montenero dopo aver ricevuto una
lettera di Fulgenzio che annunciava una grave malattia dello zio Bernardino, che pensa a
Giacinta e a Filippo ai quali ha scritto ma non ha ancora ricevuto risposta e nel
frattempo viene assediato dai creditori fino a metterlo davanti alla cruda realtà: la
villeggiatura quell'anno gli era costata più del solito e alla fine non resta che guai,
citazioni e ricorsi. È Vittoria che vorrebbe incontrare i creditori, ma desiste. La
lettera è comunque un falso: è stata una trovata di Leonardo per sfuggire ai numerosi
creditori: e Fulgenzio rimprovera Vittoria che, come il fratello, cerca di nascondersi
dietro un atteggiamento ingiusto e ingrato.
Intanto Giacinta confessa a Brigida
di non pensare più a Guglielmo ("grazie al cielo me ne son liberata. Parmi di
avere avuto una malattia, ed essere perfettamente guarita." I,5) e di attendere
solo ai preparativi delle sue nozze con Leonardo, ma lo fa con un atteggiamento che indica
che nel suo cuore c'è tutt'altro sentimento ("Non ho ragione di parlar di lui con
disprezzo, con astio, con villania? Potea far peggio di quel che ha fatto? Tirarmi giù a
tal segno? Innamorarmi sì pazzamente? Che vita miserabile non ho io menata per causa sua?
Che spasimi, che timori non mi ha egli fatto provare? Non ho goduto un'ora di bene. Ha
principiato a insidiarmi sino dal primo giorno. Ah! con qual arte si è egli insinuato
nell'animo mio, nel mio cuore! Che artifiziose parole! Che sguardi languidi traditori! Che
studiate attenzioni! E come sapea trovare i momenti per esser meco a quattr'occhi, e che
soavi termini sapeva egli trovare, e con che grazia li pronunciava! [Con passione.]
- I,5). E per lo sposo? solo qualche parola di convenienza e la speranza di amarlo un
giorno teneramente. Quando comunque viene annunciato l'ingresso di Guglielmo, dapprima si
fa forza, ma poi tremando e con la paura di rivelare tutta la sua passione denuncia un
improvviso dolor di stomaco ed esce dalla scena.
Così si incontrano i due rivali
nell'amore per Giacinta ed è subito scontro, fine da parte di Guglielmo, impacciato da
parte di Leonardo che non sa mai trovare la misura dei suoi interventi né col rivale né
colla donna amata e nella sua impotente difficoltà cerca di convincersi che, se i due si
sposeranno, con grave danno della sua onorabilità, visto che Guglielmo aveva solennemente
promesso di sposare Vittoria, avrebbe comunque trovato il modo di vendicarsi (I,10). Il primo
atto finisce così come era cominciato: col disastro economico nel quale Leonardo
versa fino ad accusarsi di essere il nemico si "se medesimo" (I,11).
L'arrivo di Fulgenzio, all'inizio
del secondo atto, è proprio quel che ci vuole per il povero Leonardo, giunto ormai
ai limiti della follia. Fulgenzio è la ragione: quale miglior persona cui chiedere
assistenza? Il vecchio saggio, dopo avergli detto che se fosse stato suo figlio lo avrebbe
riempito di bastonate, promette il suo aiuto intercedendo presso lo zio Bernardino, un
vecchio sordido e avaro che non darebbe un quattrino nemmeno se lo impiccassero, ma anche
l'unico in grado di aiutarlo.
Fulgenzio raggiunge a casa lo zio
Bernardino e lo mette a conoscenza della situazione difficile Leonardo, in una scena
(II,5) piena di ironia che raggiunge punte di sarcasmo (II,6), ma anche di imbarazzo,
quando lo stesso Leonardo lo prega col cappello in mano e lo zio gli dice di coprirsi, di
mettersi il cappello in testa, ma non lo ascolta, si congratula ma non sente la richiesta
d'aiuto; tra zio e nipote non c'è intesa: e il vecchio, ancorato ai princìpi di una
volta non può ascoltare un nipote scapestrato che colle sue mani si crea la rovina e la
miseria. Lo zio Bernardino chiude qui la sua presenza sulla scena.
Intanto si incontrano Guglielmo e
Vittoria in una scena che possiamo definire della pura apparenza: sono promessi
sposi, dovrebbe cogliere l'occasione per dichiararsi eterno amore, ma mentre Vittoria
dichiara un amore dolce e mieloso oltre che poco reale, Guglielmo finge solo per poter
restare e avere l'occasione di incontrare Giacinta (Quanto mai ho dovuto fingere e
faticare, per cogliere l'opportunità di rivedere Giacinta).
Nel frattempo l'agitazione smaniosa
di Giacinta per il suo amore impotente sta raggiungendo il parossismo, sta per esplodere,
come nella scena II,8 in cui, alla presenza di tutti i protagonisti, rivolgendosi
apparentemente a Ferdinando, ma in effetti a Guglielmo, gli dice delle cose che rivelano
tutto il suo stato d'animo: "Che cosa le avete fatto? Tutto quel peggio che far le
poteste. (Durante questo discorso, Giacinta va guardando Guglielmo.) Avete
conosciuto la sua debolezza. L'avete tirata giù, l'avete innamorata perdutamente. E un
uomo d'onore non ha da fare di queste azioni; un galantuomo non ha da cercar d'innamorare
una persona vecchia, o giovane ch'ella sia, quando l'amore non può avere un onesto fine;
e quando sa di poter essere di pregiudizio agl'interessi, o al buon concetto di una donna,
sia vedova o sia fanciulla, ha da desistere, ha da ritirarsi, e non ha da seguitare a
insidiarla, a tormentarla con visite, con importunità, con simulazioni. Sono cose
barbare, pericolose, inumane."
A complicare la situazione, siamo
ormai alla fine del secondo atto, arriva a Giacinta una lettera di Guglielmo in cui questi
le fa intuire le difficoltà economiche in cui versa Leonardo: "Si dice
pubblicamente, e si sa di certo, essere in tale sconcerto ed in tale rovina il signor
Leonardo, che egli non potrà assolutamente supplire ai pesi di un maritaggio, né vostro
padre vorrà vedervi precipitata.", e si dichiara disposto a sposarla in caso
dovesse andare a monte il matrimonio progettato e lei ridiventasse libera come era lui che
non aveva ancora firmato nulla: sembra il colpo finale, la donna vacilla tra cuore e
ragione, che parlano due diversi linguaggi, ma alla fine è la ragione a cominciare a
vincere e il senso del decoro ad imporsi: le regole della società sono ancora troppo
forti nel suo cuore e nella sua mente. (fine II atto)
Siamo nel terzo atto:
Fulgenzio e Leonardo si recano da Filippo, il padre di Giacinta, un vecchio buono a nulla
sul piano degli affari: si ripete la scena iniziale del secondo atto, quando gli stessi si
recano dallo zio Bernardino. Mentre Leonardo aspetta fuori dalla stanza, Fulgenzio parla
con Filippo e lo convince a dare in dote alla figlia i beni che ha in Genova, dai quali
negli ultimi anni non ha ricavato nulla perché è arraffato tutto dall'amministratore che
vive sul posto; quindi convince Leonardo ad accettare la nuova sistemazione facendosi dare
una procura e promettendogli di pagare i debiti che ha con i fornitori di Livorno. Non
resta che convincere Giacinta, non tanto del matrimonio, quanto della nuova sistemazione e
del trasferimento da Livorno a Genova.
Giacinta è andata a trovare la
signora Costanza, che nella commedia rappresenta proprio quel mondo "bene",
depositario di quelle regole e di quei convincimenti morali ai quali si informano tutte le
azioni umane. Andare da Costanza è come una dichiarazione di accettazione di quelle
regole e un principio di rifiuto dell'amore per Guglielmo che quelle regole tende a
rompere. Anche Costanza ha una figlia da maritare, ma in casa sua tutte le cose sembrano
filare per il verso giusto. Da Costanza arrivano anche Vittoria e Guglielmo, che trova
modo di rimproverare Giacinta per non aver ancora ricevuto risposta alla sua lettera,
dicendole che "Qualunque lettera costringe le persone civili a rispondere; molto
più se è una lettera onesta, scritta con sincerità e con amore." Ma la
risposta dio Giacinta è già una dichiarazione precisa della sua futura condotta: "L'amore
non è lecito in tutti, e l'onestà si confonde talvolta coll'interesse."
Intanto in casa di Costanza arrivano
anche Leonardo, Fulgenzio e Filippo, che chiede licenza alla padrona di casa per poter
parlare con sua figlia. Finito il colloquio, che dura solo pochi minuti, tornano insieme
agli altri e c'è il grande annuncio: Giacinta in giornata si sarebbe sposata con Leonardo
e il giorno dopo sarebbe partita per Genova, perché, confessa: "lo stato mio lo
richiede, la mia virtù mi sollecita, l'onore a ciò mi consiglia. Chi mi ascolta,
m'intende." Presenta quindi a tutti il suo sposo, colui che il fato le ha
destinato e che suo padre le ha assegnato: d'ora in avanti non le resta che fare il suo
dovere, come gli altri faranno il loro. E nell'annuncio fatale ("Senza perdere
molto tempo in cosa che si può far sul momento, alla presenza del padre mio, della
padrona di questa casa, di tutti questi signori, vi esibisco la mano, e vi ridomando la
vostra.") è colta da un leggero svenimento, perché il passaggio dallo stato di
nubile a quello di maritata non si può fare senza emozione, "senza una interna
commozione di spiriti e di pensieri" E può concludere il suo monologo: "La
ragione mi scuote. La mia virtù mi soccorre, ecco la mano: son vostra sposa".
i personaggi
Giacinta |
Figlia di Filippo, è la vera
protagonista della commedia; promessa sposa a Leonardo, si innamora segretamente di
Guglielmo, dai modi sicuramente più raffinati rispetto a Leonardo. Il personaggio è
combattuta tra l'amore e il dovere; tra il rispetto delle regole e dell'onore e il senso
di ribellione a quelle regole che le impongono un marito che non ama, ma al quale ha dato
la sua promessa di matrimonio; tra l'impegno formale col promesso sposo e un uomo che
solletica il suo cuore facendone suonare tutte le corde e scatena un'attrazione tutta
sentimentale che nessuno può capire (ognuno capisce le proprie questioni d'amore e non
quelle degli altri) e nessuno deve capire, altrimenti sarebbe diventata la favola di tutta
Livorno. Alla fine vince il dovere e il senso dell'onore e l'amore viene accantonato con
dolore, ma anche con la coscienza di aver fatto il suo dovere di fronte alla società. |
Guglielmo | Damerino che ama Giacinta. È attraente, sa parlare, sa trovare le parole giuste al momento giusto, ma è anche superficiale: il suo amore è più di facciata che di sostanza. La lettera che scrive a Giacinta, svelandole le difficoltà in cui versa Leonardo, non ottiene l'effetto sperato; anzi, si ritorce contro di lui, perché gli altri sono ancora ancorati a un mondo fatto di regole e di principi morali, di rispetto e di doveri ai quali non si può mancare: un mondo nel quale la parola data vale ancora molto. Il personaggio non prende mai in mano la situazione, incapace per educazione e per una certa vuotezza morale che gli impedisce di andare al di là della superficialità del comportamento. Sono sempre gli altri a decidere per lui, soprattutto Giacinta; il suo stesso matrimonio con Vittoria è deciso dagli altri e dalle convenienze sociali, anziché da una precisa volontà che resta troppo assservita al sentimento amoroso che riteniamo sincero ancorché troppo cerimonioso e di maniera. D'altronde, avere a che fare con una donna (Giacinta) è già difficile, avere a che fare con due per un uomo diventa spesso troppo complicato, e come molti Guglielmo si perde, anche quando focalizza le sue attenzioni solo su Giacinta. Alla fine non resta che un uomo sciatto e irresoluto, che nulla può aggiungere alla commedia e perde una certa simpatia a favore di Leonardo, che pur con tutti i suoi problemi, o casini come si suol dire oggi con una parola più espressiva ma un po' troppo popolare, colla sua istintività non si aliena le simpatie di Giacinta e degli altri spettatori. |
Vittoria | Sorella di Leonardo, promessa sposa a Guglielmo, non può soffrire la vista di Giacinta, anche se mostra il contrario in sua presenza, perché non ne riesce ad imitare i toni e la vita sociale anche perché non ben provvista di denari e priva di una efficace tutela, come potrebbe essere quella di un padre. È un personaggio passivo, nel senso che mai prende l'iniziativa, e questa caratteristica caratteriale è tanto più evidente quanto più è messa in relazione con Giacinta. È un personaggio che vive nell'apparenza, che non capisce bene le esigenze altrui, che è troppo legata al ben vivere senza preoccuparsi da dove provengono le cose di cui quotidianamente gode. I suoi sentimenti sono provati, come li può provare chiunque, ma mai sentiti profondamente, perché si preoccupa più di se stessa che degli altri e del rapporto tra se stessa e gli altri. |
Leonardo | Fratello di Vittoria; in difficoltà economiche, potrebbe essere salvato solo sposando Giacinta che colla sua dote risolleverebbe le sue sorti; molto geloso, non tanto di Giacinta quanto di Guglielmo. È un personaggio indeciso e intimidito dalla situazione: vorrebbe prendere lui le decisioni che servono, ma da un lato non ne è capace o non ne ha il coraggio sia per non sfigurare davanti a Giacinta, sia per non far soffrire sua sorella Vittoria, dall'altro è ancora troppo giovane per poter prendere decisioni importanti. Gli manca una vera guida: non a caso gli viene in soccorso Fulgenzio, esperto e tutto sommato anche amorevole, che sostituisce quella figura paterna che nella commedia viene spesso a mancare per motivi tecnici. |
Filippo | Vecchio cittadino gioviale, padre di Giacinta, legato a un vecchio modo di vivere e di sentire le cose quotidiane simile a quello dei patrizi, con una certa noncuranza, interessandosi abbastanza poco dei propri affari: basta vedere come tratta le sue proprietà fuori di Livorno, come quelle di Genova. Proprio su questo disinteresse si poggia la possibilità di soluzione escogitata da Fulgenzio: togliendo l'amministrazione al fattore furbo e arraffatutto di Genova e dandola in dote a Giacinta, ci avrebbero guadagnato tutti, lo stesso Filippo, che cerca solo di non essere impegnato e di vivere tranquillo. |
Bernardino, zio di Leonardo |
Compare sulla scena una sola volta: è l'unico parente di Leonardo, avrebbe potuto essere un valido aiuto, ma fa finta di non capire, si congratula, si dice convinto che il nipote saprà risolvere la sua situazione perché fa apparire i denari anche dove non ci sono, ritenendolo ironicamente troppo intelligente, visto che si diverte tanto in villeggiatura spendendo un sacco di soldi, mentre lui campa stentatamenteanche. Bernardino non risolve, perché da un lato avrebbe ricordato troppo altri personaggi importanti, tutti avari ma talvolta con un gran cuore, e dall'altro avrebbe tolto spessore al sacrificio finale di Giacinta. |
Fulgenzio | Attempato amico di Filippo e amico-consigliere di Leonardo, è il personaggio che riesce a trovare la soluzione logica sia alle smanie amorose di Giacinta che alla disastrosa situazione economica di Leonardo. È colui che rappresenta l'esperienza rivolta al bene e trova la soluzione opportuna al momento opportuno, prima che scoppi lo scandalo. Cerca prima di coinvolgere Bernardino, ma non ci riesce, perché questi è veramente egoistico e sordo ad ogni richiamo, poi intuisce la soluzione parlando con Filippo. La trovata è tanto semplice quanto geniale, perché riesce a risolvere due grossi problemi, quello economico e quello amoroso. Ma il vero nodo resta irrisolto: Se Vittoria non fosse stata sorella di Leonardo, forse si sarebbe potuta ipotizzare una soluzione diversa; ma così si capisce che la situazione non può che andare avanti in questo modo, generando una conclusione che non conclude, per cui questa commedia si conclude quasi come un dramma. |
Per approfondire meglio
L'autore a chi legge
Non trovo che gli Autori antichi, né gli Autori moderni, si siano
molto divertiti a comporre più di una Commedia sullo stesso soggetto. Non conosco che il Menteur
e la Suite du Menteur, due Commedie che Cornelio ha in parte tradotte ed
in parte imitate dallo spagnuolo Lopez de Vega. Ma mi sia permesso di dire che il Seguito
del Bugiardo non ha niente che fare colla commedia che lo precede. È vero che Damone,
il Bugiardo, e Clitone suo servitore sono i medesimi personaggi nell'una e
nell'altra, che si parla nella seconda di qualche avventura della prima, ma il soggetto è
differentissimo, e il carattere dello stesso Bugiardo è cangiato: poiché nella prima
commedia Damone mente per difetto, e nella seconda mente per generosità, e quasi per una
indispensabile necessità. Io non ho inteso dunque d'imitare alcuno, allora quando ho
cominciato a tentare una seconda Commedia in seguito di una prima, ed anche una terza in
seguito delle altre due. La prima volta che ciò mi accadde, fu dopo l'esito fortunato
della Putta onorata, Commedia Veneziana, alla quale feci succedere la Buona
Moglie. Pamela e Pamela maritata sono due Commedie che hanno la stessa
continuazione. Animato dalla buona riuscita di due Commedie consecutive, ho tentato le
tre. Ciò mi è riuscito felicemente nelle Tre Persiane, di modo che il pubblico
attendeva e domandava la quarta, e sempre più incoraggiato dall'esito fortunato, ho
composto collo stesso legame le tre Commedie presenti; con questa differenza però, che le
altre le ho immaginate una dopo dell'altra, e queste tutte e tre in una volta.
Qual difficoltà (dirà forse taluno) è
il compor tre Commedie sullo stesso soggetto? Quelle che ora tu doni al Pubblico, non
formano che una sola Commedia, in nove atti divisa. Calisto e Melibea è una
Commedia Spagnuola in quindici atti; non è maraviglia che tu ne abbia composta una in
nove. Risponderei a chi parlasse in tal guisa, che Calisto e Melibea non potrebbe
rappresentarsi in una sera, e non potrebbe dividersi in tre rappresentazioni; poiché
l'azione di questa Commedia, irregolare e scandalosa, non è suscettibile di divisione
alcuna. Ciascheduna delle mie tre Commedie principia all'incontro, e finisce, di maniera
che se uno ne vede la seconda, e non ha veduto la prima, può esser contento, trovando una
Commedia intelligibile, principiata e finita, e lo stesso si può dir della terza.
Egli è vero che alla fine della seconda
questa terza è promessa, ed ho lasciato ad arte qualche cosa indecisa per continuare il
soggetto nella seguente; ma con dieci righe di più si poteva nella seconda terminare
l'azione perfettamente. Ho voluto lasciarmi libero il campo per una terza Commedia, la
quale servisse come di conclusione alle due precedenti, per provare la follia delle
smoderate villeggiature. Figurano in questa tutti i Personaggi della prima e della
seconda, alla riserva di Sabina, che resta a Montenero, ma non è scordata del
tutto, poiché una lettera arriva a tempo per farcela risovvenire.
Questa continuazion dei caratteri,
degl'interessi e delle passioni non dovrebbe sembrare indifferente e di poca fatica a chi
ha qualche tintura di questa sorta di Componimenti teatrali.
Mi resta a dir qualche cosa sul
personaggio di Bernardino, novellamente in questa Commedia introdotto. Un
personaggio che non ha che una scena sola, se non è un Servitore, un Notaro, un Messo, o
cosa simile, pare debba essere un personaggio o inutile, o mal introdotto. Vedrà il
Lettore che non è inutile, e comprenderà facilmente che un carattere odioso, come quello
di Bernardino, può essere sofferto e anche goduto in una Scena; ma diverrebbe noioso ed
insopportabile, se una seconda volta si rivedesse.
Dalle Memorie
CAPITOLO XXIX
Séguito dei due capitoli precedenti.
Il ritorno dalla campagna, commedia in tre atti, in prosa,
ultima delle tre commedie consecutive sullo stesso soggetto.
Tornati a Livorno, Leonardo e sua
sorella erano carichi di debiti, si vedevano assediati dai creditori; bisognava o pregare
o pagare; non facevano né l'uno né l'altro. Orgogliosi nella loro situazione disperata,
mandavan via in brutto modo i mercanti e questi perseguivano i debitori con la giustizia.
Leonardo non aveva altra risorsa che di
ricorrere a suo zio Bernardino, e di pregarlo di dargli qualche acconto sul beni di cui si
stimava erede presuntivo; ma il carattere dello zio è duro, inflessibile; Leonardo non
ardisce esporsi da solo, prega Fulgenzio di accompagnarlo: ci vanno insieme.
Il personaggio di Bernardino non sarebbe
tollerabile sulla scena, se ci comparisse più di una volta nello stesso lavoro. Tradurrò
per intero la scena che faceva rabbia a me stesso intanto che la componevo:
BERNARDINO: Buongiorno, caro amico, come state? A tanto che non vi vedo.
FULGENZIO: Grazie al cielo, sto bene quanto è permesso alla mia età; bisogna
sopportare gli acciacchi inevitabili della vecchiaia.
BERNARDINO: Fate come me, non ci badate. Io mangio quando ho fame, mi corico quando ho
voglia di dormire, vado a spasso quando mi annoio, non bado ai piccoli mali, non do retta
agli affanni. Questo è il mio regime, e me ne trovo bene. (Sempre ridendo.)
FULGENZIO: Che il cielo conservi la vostra felicità e allegria! Non tutti possono essere
felici; vengo a parlarvi per un uomo che non lo è, e devo dirvi qualche cosa di gran
momento.
BERNARDINO: Dite su, amico, sono ai vostri ordini.
FULGENZIO: Il motivo della mia visita è vostro nipote, il signor Leonardo.
BERNARDINO: (in tono ironico) Il signor Leonardo? Il mio signor nipote? Come sta il
signor nipote?
FULGENZIO: Per la verità confesso che non ha avuto molto giudizio.
BERNARDINO: Oh! cosa dite mai! Mi pare che abbia più giudizio di noi. Noi fatichiamo per
vivere stentatamente, e il signor Leonardo si diverte, scialacqua con gli amici, si dà
all'allegria e non fa nulla.
FULGENZIO: Caro amico, fatemi la grazia di ascoltarmi, non scherziamo.
BERNARDINO: Bene, vi ascolto seriamente.
FULGENZIO: Vostro nipote è precipitato.
BERNARDINO: È precipitato! È forse caduto da cavallo? Il suo cavallo l'ha buttato di
sella?
FULGENZIO: Voi ridete, signore, ma la cosa non è da ridere. Vostro nipote è precipitato
nel debiti e non sa più da che parte voltarsi.
BERNARDINO: Non fa niente. La cosa è noiosa soltanto per i creditori.
FULGENZIO: Non ha più né roba né credito, come farà a vivere?
BERNARDINO: Non fa niente, non ha che andare a mangiare dalle persone che lui ha mantenuto
in villa.
FULGENZIO: Vi burlate di me, signor Bernardino.
BERNARDINO: Caro amico, sapete quanto vi stimo e vi voglio bene.
FULGENZIO: Dunque state a sentirmi, vi prego, e rispondetemi per bene. Il signor Leonardo
sta per contrarre un matrimonio vantaggioso.
BERNARDINO: Me ne rallegro, me ne consolo.
FULGENZIO: Ma non ha modo di pagare i debiti, e rischia molto di perdere quest'ottimo
affare.
BERNARDINO: Ma come? Un uomo come lui batte i piedi per terra e saltano fuori quattrini da
tutte le parti.
FULGENZIO: (a parte) Non ne posso più. (A Bernardino, sdegnato) Vi ripeto,
signore, che vostro nipote è rovinato.
BERNARDINO: (fingendo serietà) Peccato. Se lo dite, bisogna che sia così.
FULGENZIO: Ma ci si potrebbe rimediare.
BERNARDINO: Benissimo, se c'è rimedio, benissimo.
FULGENZIO: Ed è per questo che Leonardo ricorre a voi.
BERNARDINO: Oh! il signor Leonardo! non è possibile, lo conosco, è troppo alto, troppo
orgoglioso, non è possibile.
FULGENZIO: È in colpa verso di voi; ma lo vedrete sottomesso, verrà a domandarvi
perdono.
BERNARDINO: Perdono! di che? Non m'ha fatto niente. Non pretendo niente da lui, non
m'impiccio nei suoi affari, né lui nel miei; siamo parenti, siamo amici, e basta!
FULGENZIO: Se Leonardo vi viene a trovare, lo riceverete?
BERNARDINO: Certamente.
FULGENZIO: Se me lo permettete, lo farò venire.
BERNARDINO: Quando volete.
FULGENZIO: Se è cosi, lo faccio entrare subito.
BERNARDINO: Bene! ma dove è?
FULGENZIO: t là in sala. (Fa entrare. Leonardo, lo presenta a Bernardino.) Caro
amico, ecco il signor Leonardo.
LEONARDO: Mio caro zio.
BERNARDINO: Ah! buon giorno, mio caro nipote, come state? Come sta la mia cara nipote? Vi
siete divertiti bene in villa? Siete tornati tutt'e due in buona salute? Sì? Tanto
meglio; me ne rallegro.
LEONARDO: Se la vostra accoglienza è sincera, caro zio, non ne sono degno, sono confuso;
temo che sotto la maschera della benevolenza non si nascondano l'odio e il disprezzo che
mi sono meritato.
BERNARDINO: Bene, bene; cosa ne dite, amico Fulgenzio? È un giovane non senza spirito.
FULGENZIO: Basta con gli scherzi; ricordatevi di quello che v'ho detto sul suo conto. Il
signor Leonardo ha bisogno di voi, e vi supplica di
interessarvi alla sua situazione.
BERNARDINO: Sì... se posso... per quanto potrò... se posso giovare in qualche cosa...
Sediamoci. (Si siede e anche Fulgenzio.)
LEONARDO: (in piedi) Ah! mio caro zio ...
BERNARDINO: Sedetevi.
LEONARDO: Confesso che la mia condotta...
BERNARDINO: Favorite sedervi.
LEONARDO: È la mania della campagna che m'ha rovinato.
BERNARDINO: Avevate parecchia gente quest'anno; c'era una società allegra, divertente?
LEONARDO: Riconosco la mia pazzia, e ne son ben punito.
BERNARDINO: Mi dicono che state per sposare.
LEONARDO: Sì, caro zio, sarebbe un affare fortunato per me, molto redditizio; ma se non
mi aiutate a pagare una parte dei miei debiti...
BERNARDINO: (a Fulgenzio) Conoscete la promessa sposa di mio nipote?
FULGENZIO: È la figlia del signor Filippo.
BERNARDINO: (a Leonardo) Bene. Lo conosco; è un galantuomo, un uomo agiato. Me ne
rallegro con voi.
LEONARDO: Ma non ho modo di far smettere le persecuzioni dei creditori...
BERNARDINO: (a Leonardo) Vi prego di salutare il signor Filippo da parte mia...
LEONARDO: E se non mi tiro fuori dall'abisso dove mi trovo...
BERNARDINO: E ditegli che sono contentissimo di quest'alleanza.
LEONARDO: (in tono offeso) Ma voi non mi ascoltate, signore.
BERNARDINO: Ma certo che vi ascolto; state per sposare, condivido la vostra soddisfazione.
LEONARDO: Posso lusingarmi che mi verrete in aiuto?
BERNARDINO: Come si chiama la sposa?
LEONARDO: (incollerito) Basta, basta, zio. Vi capisco, non tornerò più a
importunarvi. (A Fulgenzio) Andiamocene.
(Esce.)
FULGENZIO: (sdegnato) Servo suo, signor Bernardino.
BERNARDINO: Addio, caro amico Fulgenzio.
FULGENZIO: Se avessi potuto prevedere la vostra durezza, non sarei venuto a importunarvi.
BERNARDINO: Ma come! Siete padrone di venirci di giorno, di notte, sarete sempre ben
accolto.
FULGENZIO: Vi domando scusa; ma in questo momento... siete un barbaro. (Esce.)
BERNARDINO: (verso le quinte, in tono allegro) Pasquino, Margherita, Carlotto;
presto, preparatemi Il pranzo. (Esce.)
Questa scena, che in sé non è
interessante, produce tuttavia un effetto mirabile nella commedia. Offeso dal rifiuto di
Bernardino, e dolente di aver esposto l'amico Leonardo agli insulti, Fulgenzio s'interessa
al giovane e fa per lui quello che nemmeno lo zio avrebbe potuto fare.
Filippo possiede a Genova rendite
amministrate male da un corrispondente negligente o birbone. Fulgenzio persuade Filippo a
dare in dote alla figlia tutti i beni che possiede in quella città, con procura generale
per incassarne i proventi.
Fulgenzio persuade nello stesso tempo
Leonardo ad affidare a lui l'amministrazione delle sue rendite di Livorno, e si incarica
di pagargli i debiti in Toscana.
Questa combinazione è tanto più
benefica per tutti, in quanto l'allontanamento di Giacinta e di Guglielmo era l'unico
mezzo per assicurare la pace alle due coppie, che la vicinanza non poteva che rendere
infelici.
(N.B. La scena riportata corrisponde a una stesura delle scene V e VI del secondo Atto)
© 2000 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 23 giugno 2000