Giuseppe Bonghi
Introduzione
a
Le baruffe chiozzotte
di
Carlo Goldoni
La
commedia, popolare e plebea come la definisce lo stesso Goldoni nelle sue
Memorie, anticipata da un annuncio di Piero Chiari pubblicato il 23
gennaio 1762 sulla Gazzetta Veneta, venne rappresentata per la prima
volta al teatro San Luca alla fine di gennaio del 1762, allestita subito dopo Sior
Todero brontolon, con l’attrice Bresciani nella parte di madonna Pasqua,
un’attrice toscana che aveva “bene penetrato il modo e la pronincia
veneziana che riusciva bene sia nelle commedie di tono sostenuto che in quelle
volgari”.
Le baruffe chiozzotte, dette anche sinteticamente Le chiozzotte,
ebbero (come dice Goldoni) “fece un mirabile effetto … ed ebbe un esito
brillantissimo”; la commedia fu recitata per sette sere di seguito e replicata
due volte ancora prima della fine del carnevale. Secondo i critici posteriori la
rappresentazione dell’opera non fu travolgente, ma ebbe sicuramente un
successo discreto, anche se non eccellente: oggi è ormai concordemente
considerata tra le migliori dell'arte goldoniana. La sua fortuna rimase discreta
e un po’ in ombra fino alla fine dell'Ottocento, soprattutto perché, si
pensa, pesava sugli allestitori e sugli attori un dialetto (quello di Chioggia)
assai difficile e la necessità di dare coralità ad un'esecuzione che richiede
un cast d'interpreti tutti di pari talento, in modo che non ci fosse un
primattore o una primattrice che catalizzasse l’attenzione su di sè. Inoltre
sull’esito non poteva non pesare, almeno al momento dell’esordio, il
difficile momento che attraversava Goldoni di fronte all’aspro e astioso
atteggiamento che Carlo Gozzi manifestava nei suoi confronti.
La commedia venne molto ammirata da Goethe durante il suo viaggio in Italia nel
1786, che sottolineava l’entusiasmo degli spettatori che si vedevano
rappresentati con tanta naturalezza e verità sul palcoscenico. Nel corso del
Novecento ha riscosso sicuramente un maggiore successo; le più grandi compagnie
l’hanno spesso messa nel proprio repertorio, favoriti anche da un più deciso
espandersi del livello culturale generale nel nostro paese, che permetteva una
maggiore e migliore comprensione della recitazione, che ha impegnato celebri
attrici come Lina Volonghi e Ave Ninchi. Grandiosa la rappresentazione del 1964
diretta da Giorgio Strehler con Carla Gravina e Corrado Pani, Tino Scotti e
Ottavia Piccolo, Lina Volonghi e Mario Valdemarin, per ricordare alcuni di
quelli che conosco meglio.
Le Baruffe chiozzotte rappresentano il ritorno a quel mondo popolare e
reale, pittoresco per gli altri, così lontano dal mondo borghese e nobiliare da
sembrare perfino assurdo e irreale, già rappresentato nelle commedie Le
massere, I pettegolezzi delle donne e soprattutto Il campiello.
I personaggi occupano la scala più bassa del vivere sociale; dopo la piccola
nobiltà dei conti e dei marchesi , la media borghesia delle locandiere e dei
Cavalieri, ecco il mondo variegato di coloro che vivono senza pretese di
ricchezze o di vita da gran mondo: “ogni aspetto della loro vita può
diventare commedia, essi sono registrati nelle loro effettive condizioni di
lavoro e di vita, in una precisa tradizione di costumi” (Sironi), e,
aggiungeremo, anche di modelli di pensiero e di espressione delle condizioni
esistenziali e degli affetti che trovano la loro più precisa estrinsecazione e
manifestazione nello stesso dialetto chioggiotto misto di veneziano, o dialetto
veneziano misto di parole e accenti chioggiotti.
Proprio la diversità dai personaggi borghesi e “nobili” li rende
interessanti e vivi: può diventare commedia ogni aspetto della loro vita
insieme alle effettive condizioni esistenziali e alla tradizione dei costumi che
vivificano il loro vivere quotidiano. La scena si sposta dalle quattro mura
domestiche, in cui la famiglia trova le sue sicurezze, al riparo da ogni
pettegolezzo, al campiello in cui bisogna innanzitutto avere il coraggio di
ammettere che nessun personaggio può permettersi di ritenersi il centro della
vita e della società ma è uno come gli altri, che deve rispettare le regole
come tutti altrimenti il danno potrebbe distruggere le fondamenta stesse della
società. Nel campiello (la piazza) come nelle strade si mettono in mostra i
destini umani, più ancora che nel segreto delle case: ma ogni destino non è
mai una sorpresa assoluta; è piuttosto la conseguenza o la risultante di un
insieme di cause che sorreggono la stessa organizzazione sociale. Niente avviene
per caso.
L’argomento centrale della vicenda è ancora una volta di natura amorosa, e si
svolge a Chioggia, mentre gli uomini sono in mare da alcuni giorni per la pesca.
Nel paese deserto le donne si stringono vicine, lavorano al tombolo fuori
dell'uscio e attendono il ritorno delle tartane. Ma il vuoto delle ore le rende
irrequiete, pronte ad andare dietro un nonnulla, a civettare con un ragazzo
intraprendente, fra i pochi a non essere uscito in mare o comunque a non
lavorare, unico ragazzo presente e rappresentante il sesso maschile, ad
ingelosirsi, urtarsi e accapigliarsi apparentemente senza serie ragioni. E dico
apparentemente perché le ragioni serie della vita non sono mai quelle che uno
vive in prima persona, ma sempre quelle che il destino e/o coloro che hanno
nelle mani il destino degli uomini del
campiello impogono. E il mondo è un grande campiello.
Di una piccola baruffa è stata occasione, all'inizio della commedia, il
battellaio Toffolo, con il quale hanno civettato tutte insieme alcune ragazze
per qualche minuto. Lucietta, che sta ricamando con la madre e qualche amica,
fidanzata del pescatore Titta Nane, accetta da Toffolo, giovane barcaiolo, una
fetta di zucca arrostita. L’offerta e la successiva accettazione irritano
Checca, che è corteggiata da Toffolo: le basi della baruffa sono tutte qui.
All’improvviso viene annunciato l'arrivo della tartana di padron Toni, sulla
quale sono imbarcati due innamorati delle ragazze; e le putte si
affrettano a promettere il segreto su quanto è avvenuto.
Nella quinta scena abbiamo il ritorno dei pescatori, soddisfatti del guadagno,
felici di tornarsene a casa; l'approdo delle barche pescherecce al canale; e i
primi discorsi degli uomini, i primi contatti con la gente di terra per la
vendita del pesce, per la sistemazione degli interessi; ma sopraggiungono (nella
sesta scena) le donne ad abbracciare i mariti e i fratelli, e subito ricomincia
il sussurrio, il pettegolezzo, il preludio dei litigi, il trapasso dal pesce,
dagli interessi, dal mondo del mare a quello dei putelezi, dei chiacolare. Una
delle ragazze, Lucietta, timorosa che qualcosa venga detto dalle altre, si
affretta ad accennare alle avventure di Toffolo Marmottina, alle confidenze che
le putte si sono permesse di avere con lui. Lo stesso fa un'altra delle
ragazze con un altro dei pescatori: dal pettegolezzo si arriva alla baruffa, che
coinvolge mariti, fratelli e amici. Beppo e Titta Nane dichiarano di rompere il
loro fidanzamento, e minacciano di fracassare le ossa a Toffolo. Conseguenza
della minaccia è una gran baruffa tra Toffolo e i pescatori dinanzi alla
casa delle ragazze.
Toffolo, conformemente alle usanze del popolo minuto di Chioggia, si va a
lamentare in Cancelleria. Il coadiutore Isidoro interroga le ragazze; e si
accorge ben presto che si tratta solo di putelezi, di cose da nulla, e
che sarà facile mettere a posto, anche se le donne si affannano
inconsapevolmente a render sempre più grave il litigio. Si ricorre alla
giustizia e il Coadiutore del Cancelliere criminale deve approntare la causa; la
questione gli pare così insignificante che, con molto buon senso, decide di
accomodare il litigio fuori del tribunale.
Il Coadiutore riesce infatti a metter d'accordo gli uomini, e a trovare persino
una sposa per Toffolo; ma al momento di brindare sull'accordo giunge notizia che
le donne si accapigliano di nuovo, e minacciano di trascinare nella baruffa
tutto il paese. Alla fine abbiamo i nuovi tentativi del coadiutore,
questa volta non più con gli uomini ma con le putte; per cui, prima che
la giornata si concluda, ci sono per tutti rinfresco e suonatori per celebrare
insieme tre matrimoni: quelle di Lucietta con Titta Nane, quelle di Orsetta con
Beppo e quelle di Checcha con Toffolo. La pace è fatta; e dovrà durare a tutti
i costi fin che la se rompe, perché non vada fuori la diceria che le
Chiozzotte xe baruffante.
Pettegolezzi, baruffa, sinfonia di gesti e di parole, ritmo del dialogo (alcune
parti sono in versi), vere e proprie pantomime, testimoniano la continuità con
le cosiddette « tabernarie » precedenti. Ma provano anche la perfetta aderenza
tra gli schemi teatrali goldoniani e la naturale dinamica della realtà
popolare, dato che qui non si trova lo scarto dell'ironia e del grottesco
quotidiano che aveva delimitato i personaggi comici del patriziato o della
borghesia: i pescatori chiozzotti agiscono soprattutto, le loro battute sono
brevissime, casuali quasi, concatenate senza pause; non per questo si
appiattiscono i caratteri che sempre risultano dal mosaico delle parti.
Libertà linguistica e psicologica, quindi, per il mondo popolare. Unico
personaggio non popolare è il Coadiutore Isidoro, estraneo alla vita dei
pescatori, alle loro gioie e ai loro tormenti. Goldoni forse lo ha costruito per
indicare la distanza fra i protagonisti oggettivi e se stesso come autore. Alla
fine « Isidoro-Goldoni, che, fuori dell'ambito della giustizia, ha fatto la
maggior fatica per combinare le faccende, li vorrebbe (con una sua malizietta di
conquistatore) festeggiare nel suo ridotto: " V'ho parecchià, un poco de
rinfresco ... Ma il gran Goldoni artista si fa rispondere dal suo popolo: "
Qua qua, balemo qua ". In calle. Così sa ritirarsi moralmente innanzi al
suo gran protagonista » (Baratto).
Le Baruffe costituiscono la punta estrema della produzione goldoniana,
uno spettacolo in cui il popolo minuto dei pescatori entra vittoriosamente come
protagonista, ed è avvicinato con un gusto, una simpatia, una vivacità umana
che non si rinviene in alcun’altra commedia: veramente l'espressione di quel
momento felice della borghesia europea («non ancora padrona dello stato ma già
egemone culturalmente ed economicamente» in cui era ancora ignoto il timore
delle classi popolari, in cui il popolo non appariva ancora come una forza in
antagonismo, ma un tutto unico col terzo stato. Il « borghese » Goldoni volle
comporre un dramma non più per i borghesi facoltosi ma per i popolani, i
pescatori, il popolo minuto, che aveva facile accesso ai teatri per la tenuità
della spesa, e tuttavia non si riconosceva affatto nei personaggi delle altre
commedie. L'entusiasmo che suscitarono tra il popolo le Baruffe è a
sufficienza testimoniato da Wolfgang Goethe (Non ho mai veduto la gioia che
mostrò il popolo vedendosi dipinto al naturale: risa e grida d'allegria dal
principio alla fine); e la diffidenza dei ceti conservatori dal giudizio di
Carlo Gozzi, che accusò il Goldoni di far oggetto di rappresentazione cordiale
le «bassezze» del popolo.
Nelle Baruffe (per le quali il Goldoni si richiamava all'antica
definizione latina di commedia tabernaria) giungeva all'estremo della parabola
anche l'invenzione dei personaggi: la quale dai «caratteri» assoluti e
tipizzati delle prime commedie era giunta sino alla individualizzazione concreta
e compartita in quattro figure dei Rusteghi; ed ora, perveniva sino alla
immersione delle singole figure nella coralità multiforme e vastissima di una
popolazione usa a vivere all'aperto, tutt'una col colore locale delle strade dei
canali delle reti delle barche: una vera folla rumorosa di pescatori, popolani,
bottegai, e soprattutto donne e fanciulle, coi loro litigi, i sussurri, le
malizie d'ogni giorno.
E questa più matura esperienza teatrale si incontrava con un moto più sottile
e lirico dell'animo goldoniano, la nostalgia per la giovinezza trascorsa a
Chioggia in qualità di coadiutore della Cancelleria criminale. Non a caso tra i
personaggi della commedia è Isidoro, il coadiutore veneziano, al quale è
affidato sulla scena il compito di accordare i popolani dopo le baruffe, di
porre di nuovo in armonia gli innamorati e le putte. Isidoro è il Goldoni
medesimo, e il compito a lui affidato è lo stesso che il poeta riconosce a sé
stesso, in ognuna delle sue commedie: il compito di sciogliere felicemente le
fila, di condurre in porto con un sorriso le avventure dei personaggi.
Nelle Baruffe «Mondo» e «Teatro», realismo e gusto delle voci, dei
suoni, del movimento, del ritmo, si fondono come raramente l'autore riuscì a
fare in altre commedie; e difficilissima appare una scelta antologica, il
distacco di un episodio, di una sola scena.
Quanto al dialetto usato dal Goldoni bisogna osservare che non si tratta del
chiozzotto autentico, ma di un chiozzotto in gran parte poetico, di invenzione,
reso più accessibile con le parole e la sintassi del veneziano, e con i
frequenti italianismi; di un adeguamento insomma della parlata locale alle
esigenze pratiche della scena e alla fantasia dell'artista.
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L’AUTORE A CHI LEGGE
Il termine Baruffa è lo stesso in
linguaggio Chiozzotto Veneziano, e Toscano. Significa confusione, una mischia,
un azzuffamento d'uomini o di donne, che gridano, o si battono insieme. Queste
baruffe sono comuni fra il popolo minuto, e abbondano a Chiozza più che
altrove; poiché di sessanta mila abitanti di quel Paese ve ne sono almeno
cinquanta mila di estrazione povera e bassa, tutti per lo più Pescatori o gente
di marina.
Chiozza è una bella e ricca Città venticinque miglia distante da Venezia,
piantata anch'essa nelle Lagune e isolata, ma resa Penisola per via di un
lunghissimo ponte di legno, che comunica colla Terraferma. Ha un Governatore con
titolo di Podestà, ch'è sempre di una delle prime Case Patrizie della
Repubblica di Venezia, a cui appartiene. Ha un Vescovo, colà trasportato
dall'antica sede di Malamocco. Ha un porto vastissimo, e comodo, e bene
fortificato. Evvi il ceto nobile, il civile ed il mercantile. Vi sono delle
persone di merito e di distinzione. Il Cavaliere della città ha il titolo di
Cancellier Grande, ed ha il privilegio di portare la veste colle maniche lunghe
e larghe, come i Procuratori di San Marco. Ella in somma è una Città
rispettabile; e non intendo parlare in questa Commedia che della gente volgare,
che forma, come diceva, i cinque sesti della popolazione.
Il fondo del linguaggio di quella Città è Veneziano; ma la gente bassa
principalmente ha de' termini particolari, ed una maniera di pronunziare assai
differente. I Veneziani pronunziando i verbi dicono, per esempio, andar, star,
vegnir (per venire), voler ecc. ed i Chiozzotti dicono: andare, stare, vegnire,
volere ecc. Pare perciò che pronunzino i verbi come i Toscani, terminandoli
colla vocale senza troncarli; ma non è vero, poiché allungano talmente la
finale, che diviene una caricatura. Io ho appreso un poco quel linguaggio e
quella pronunzia nel tempo ch'io era colà impiegato nell'uffizio di Coadiutore
del Cancelliere Criminale, come accennai nella prefazione del Tomo Ottavo di
questa edizione, ed ho fatto una fatica grandissima ad instruire i miei Comici,
affine di ridurli ad imitare la cantilena e l'appoggiatura delle finali,
terminando i verbi, per così dire, con tre o quattro e, come se dicessero
andareeee, sentireeee, stareeee ecc. Quando il verbo è sdrucciolo, come ridere,
perdere, frigere ecc., i Veneziani troncano la finale, e dicono: rider, perder,
friger ecc.; ed i Chiozzotti, che non potrebbero pronunziare, come negli altri
verbi, ridereeee, frigereeee, perché ciò sarebbe troppo duro anche alle loro
orecchie, troncano la parola ancora di più, e dicono: ridè, perdè, frizè
ecc. Ma io non intendo qui voler dare una grammatica Chiozzotta: accenno qualche
cosa della differenza che passa fra questa pronunzia e la Veneziana, perché ciò
ha formato nella rappresentazione una parte di quel giocoso, che ha fatto piacer
moltissimo la Commedia. Il personaggio principalmente di Padron Fortunato è
stato de' più gustati. È un uomo grossolano, parla presto, e non dice la metà
delle parole, di maniera che gli stessi suoi compatrioti lo capiscono con
difficoltà. Come mai sarà egli compreso dai Leggitori? E come potrà mettersi
in chiaro colle note in piè di pagina quel che dice e quel che intende di dire?
La cosa è un poco difficile. I Veneziani capiranno un poco più; gli esteri, o
indovineranno, o avranno pazienza. Io non ho voluto cambiar niente né in
questo, né in altri Personaggi; poiché credo e sostengo, che sia un merito
della Commedia l'esatta imitazione della natura.
Diranno forse taluni, che gli Autori Comici devono bensì imitar la natura; ma
la bella natura, e non la bassa e la difettosa. Io dico all'incontro, che tutto
è suscettibile di commedia, fuorché i difetti che rattristano, ed i vizi che
offendono. Un uomo che parla presto, e mangia le parole parlando, ha un difetto
ridicolo, che diviene comico, quando è adoperato con parsimonia, come il balbuziente
e il tartaglia. Lo stesso non sarebbe d'un zoppo, d'un cieco, d'un
paralitico: questi sono difetti ch'esigono compassione, e non si deggiono
esporre sulla scena, se non se il carattere particolare della persona difettosa
valesse a render giocoso il suo difetto medesimo.
Altri condanneranno, può essere, ch'io abbia troppo moltiplicato sopra le scene
questa sorta di soggetti e di argomenti bassi e volgari.
I Pettegolezzi delle donne, le Massere, il Campiello e le
Baruffe Chiozzotte, ecco (diranno codesti tali) quattro commedie popolari,
tratte da quanto vi è di più basso nel genere umano, le quali disgustano, o
almeno non interessano le colte e delicate persone. Se questi Critici fossero
per avventura gli stessi che si doleano un tempo di me, perché io osava mettere
in iscena i Conti, i Marchesi ed i Cavalieri, direi che probabilmente non amano
le Commedie, se intendono di limitare sì strettamente il campo degli Autori. Ma
chiunque siano, dirò lor francamente che la natura e l'esempio mi hanno
consigliato a tentarlo, e la riuscita delle prime Commedie mi ha autorizzato a
produrre le altre.
Questo è quel genere di Commedie, che diconsi dai Latini Tabernariae, e
dai Francesi Poissardes. De' buoni Autori antichi e moderni ne hanno
prodotto con merito e con applauso; e ardisco dire, le mie non sono state men
fortunate.
L'editore delle Opere di Monsieur Vadé, in quattro volumi in ottavo, così si
spiega nella prefazione, parlando dell'autore francese:
Il est créateur du genre Poissard, que de pretendus
grands esprits se font un point d'honneur de mépriser, mais qui cependant n'est
point méprisable. Il peint la nature, basse, si l'on veut, mais très-agréable
à voir, parcequ'elle est rendue dans les ouvrages de notre Auteur avec les
traits et les coloris agréables, qui la font d'abord reconnoître. Il y a dans
le monde bien des sortes d'esprits: ceux-ci, misanthropes froids sont fâchés
qu'on les amuse, et mesurent leur estime sur le degré de chagrin et d'humeur
qu'ils trouvent dans les autres; ceux-là, censeurs perpetuels, mettent de la
vanité à blâmer tout; quelques uns d'un rang élevé regardent la
plaisanterie comme indigne de leur qualité, et se croiroient dégradés, si
elle leur arrachoit un sourire. Des autres enfin, singes maladroits, affectent
par air une gravité ridicule, et résistent par vanité au plaisir qu'ils
sentent naturellement. Tous ces différents esprits blâment, ou feignent de blámer,
le genre Poissard; mais tous ont vû avec un plaisir singulier etc...
E in
un altro luogo:
Tout ce qui est vrai, a droit de plaire, tout ce qui est
plaisant, a droit de faire rire etc.
Supplico
i signori Critici ad osservare, che l'Autor Francese suddetto erasi dato a
questo genere di componimenti, e con questo solo piaceva.
Io all'incontro ho fatto le mie Tabernarie, le mie Poissardes,
dopo la Pamela, il Terenzio, il Tasso, le Persiane, e tant'altre che potevano
soddisfare gli spiriti più seriosi e più delicati. Un'altra ragione potrebbe
ancora giustificarmi. I Teatri d'Italia sono frequentati da tutti gli ordini di
persone; e la spesa è sì mediocre, che il bottegaio, il servitore ed il povero
pescatore possono partecipare di questo pubblico divertimento, alla differenza
de' Teatri Francesi, ne' quali si paga dodici paoli 10 in circa per un solo
posto nell'ordine nobile, e due per istare in piedi nella platea.
Io aveva levato al popolo minuto la frequenza dell'Arlecchino; sentivano parlare
della riforma delle Commedie, voleano gustarle; ma tutti i caratteri non erano
adattati alla loro intelligenza: ed era ben giusto, che per piacere a
quest'ordine di persone, che pagano come i Nobili e come i Ricchi, facessi delle
Commedie, nelle quali riconoscessero i loro costumi e i loro difetti, e, mi sia
permesso di dirlo, le loro virtù.
Ma quest'ultima giustificazione è affatto inutile; poiché a tali Commedie le
persone le più nobili, le più gravi e le più delicate si sono divertite
egualmente, per la ragione allegata di sopra in francese, che: tutto quello
che è vero, ha il diritto di piacere, e tutto quello ch'è piacevole, ha il
diritto di far ridere.
© 1999 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 13 gennaio 2000