Carlo Goldoni

IL «MONDO» E IL «TEATRO»

Prefazione

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         La Prefazione fu pubblicata nel I tomo dell'edizione Bettinelli a Venezia nel 1750; fu poi riproposta, con minime variazioni, nella edi­zione Paperini (Firenze, 1753) e nell'edizione Pasquali (Venezia, 1761). Abbiamo qui seguito il testo dell'edizione dell'Ortolani (Opere, Mila­no, Mondadori, 1,  pp. 761-764) che riproduce quella della Bettinelli. (Le note in ordine alfabetico sono di mano del Goldoni). (Opere, I, pp. 761-774)

         Cedendo alle persuasioni e agli amorevoli desideri de' miei Padroni e de' miei Amici, di molti de' quali è non men venerabile il giudizio, che rispettabile l'autorità, do alle stampe le Commedie che ho scritte finora, e che tuttavia vo scrivendo ad uso de' Teatri d'Italia.
         Molti si aspetteran forse, ch'io ponga in fronte una Prefazione erudita e compiuta, in cui ragionando dell'Arte comica sui principi degli antichi e moderni buoni Maestri, venga a render poi conto della mia esatta ubbidienza a' loro precetti nella composizione delle Teatrali mie Opere. Ma di gran lunga s'inganna chi da me attende una così inutil fatica. Dopo tanti secoli che si sono scritti interi volumi su questo proposito da valentissimi Uomini d'ogni colta Nazione, dovrò io per avventura fare ancora il Maestro, ed in tuono pedantesco proferir per nuovi oracoli le cose tante volte dette e ridette da tanti? O pur sotto specie di una preventiva giustificazione, mi farò io vanaglo­rioso delle stesse mie Commedie?
         Poca fatica in vero potrebbe costarmi raccogliere qua e là da tre o quattro Scrittori alquanti passi al proposito mio convenevoli, e o bene o male allogandoli, provarmi anch'io, come tanti altri fanno, di comparir uomo di profonda dottrina e di universal letteratura; ma essendo io nemico naturalmente delle superfluità e della ostentazione, aborrisco l'impostura, e non mi so risolvere a perder vanamente quel tempo, che con maggior profitto posso e debbo impiegare nella composizione di qualche nuova Commedia, massimamente trovandomi obbligato a produrne sedici nel corso dell'anno presente. Non vuol ragione però che affatto nude io le dia al Pubblico col mezzo delle stampe, come fo sulle Scene. Si dee usar da qualunque Autore questo rispetto a' suoi Leggitori di non creder le Opere proprie non bisognose di veruna giustificazione. Mi parrebbe presunzione tanto il voler sostenerle perfette in ogni parte col mezzo d'una diffusa apologia, quanto l'abbandonarle affatto, quasi mostrando in tal guisa di stimarle ottime, e di non temere che potesse trovarsi in esse cosa degna di censura.
         Io pertanto intendo unicamente di supplire a questo rispettoso dovere col render conto al Pubblico di ciò che mi ha impegnato in questa sorta di applicazione, e de' mezzi che ho tenuti e che tengo per abilitarmi a servire, il meglio che per me si può, a' generosi spettatori delle mie Commedie.
         Bisogna confessare, che gli uomini tutti traggono fin dalla nascita un certo particolar loro Genio, che gli spi­gne più ad uno che ad un altro genere di professione e di studio, al qual chi si appiglia, suole riuscirvi con mirabile facilità. Io certamente mi sono sentito rapire quasi per una interna insuperabile forza agli studi Teatrali sin dalla più tenera mia giovinezza. Cadendomi fra le mani Commedie o Drammi, io vi trovava le mie delizie; e' mi sovviene, che sul solo esemplare diquelle del Cicognini in età di ott'anni in circa, una Commedia, qual ella si fosse, composi, prima d'averne veduto rappresentar alcuna in sulle Scene, di che può render testimonianza ancora il mio carissi­mo amico Signor Abate Don Jacopo Valle.
         Crebbe in me vieppiù questo genio, quando cominciai ad andare spesso a' Teatri; né mai mi abbandonò esso ne' vari miei giri per diverse Città dell'Italia, dove m'è convenuto successivamente passare, o a cagione di studio, o di seguir mio Padre secondo le differenti direzioni della medica sua professione. In Perugia, in Rimini, in Milano, in Pavia, in mezzo alla disgustosa occupazione di quel­le applicazioni che a viva forza mi si volevan far gustare, come la Medicina prima, e poi la Giurisprudenza, si andò sempre in qualche maniera sfogando il mio trasporto per la Drammatica Poesia, or con Dialoghi, or con Commedie, or con rappresentar nelle nobili Accademie un qualche Teatral Personaggio.
         Finalmente ritornato in Venezia mia Patria, fui obbligato a darmi all'esercizio del Foro, per provvedere, man­cato di vita mio Padre, alla mia sussistenza, dopo, d'essere stato già in Padova onorato della laurea Dottorale, e di aver qualche tempo servito nelle assessorie di alcuni ragguardevoli Reggimenti di questa Serenissima Repubblica in Terraferma. Ma chiamavami al Teatro il mio Genio, e con ripugnanza penosa adempiva i doveri d'ogni altro, comecché onorevolissimo Uffizio. In fatti, se mai in altro tempo applicai con diletto e con osservazion diligente alle Drammatiche Composizioni che su que' famosi Teatri rap­presentavansi, certamente fu in questo. Dimodoché, sebbene da' miei principi formar potessi un non infelice presagio dell'avvenire nella profession nobilissima dell'Avvocato in quel celebre Foro, pure rapito dalla violenta mia inclinazione, mi tolsi alla Patria, risoluto di abbandonarmi affatto a quella interna forza, che mi voleva tutto alla Drammatica Poesia. Scorse molte Italiane Città, intento ad apprendere i vari usi e costumi, che pur diversi fioriscono ne' vari Domini di questa nostra deliziosa parte d'Europa, fermatomi finalmente in Milano, colà principiai a compor di proposito per servigio degli Italiani Teatri.
         Tutto ciò ho voluto riferir ingenuamente colla sola mira di far rilevare il vero e sodo stimolo ch'ebbi per darmi intieramente a questo genere di studio. Altro non fu esso certamente se non se la invincibil forza del Genio mio pel Teatro, alla quale non ho potuto far fronte. Non è perciò maraviglia se in tutti i miei viaggi, le mie dimore, in tutti gli accidenti della mia vita, in tutte le mie osservazioni, e fin ne' miei passatempi medesimi, tenendo sempre rivolto l'animo e fisso a questa sorta di applicazione, m'abbia fatta un'abbondante provvisione di materia atta a lavorarsi pel Teatro, la quale riconoscer debbo come una inesausta miniera d'argomenti per le Teatrali mie Composizioni; ed ecco come insensibilmente mi sono andato impegnando nella presente mia professione di Scrittor di Commedie. E per verità come mai lusingar alcuno, senza di questo particolar Genio dalla Natura stessa donato, di poter riuscire fecondo e felice Inventore e Scrittor di Commedie?
         «La cosa più essenziale della Commedia» scrive un valente Francese «è il ridicolo. Avvi un ridicolo nelle parole, ed un ridicolo nelle cose; un ridicolo onesto, e un ridicolo buffonesco. Egli è un puro dono della Natura il saper trovar il ridicolo d'ogni cosa. Ciò nasce puramente dal Genio. L'arte e la regola vi han poca parte, e quell'Aristotile, che sa così bene insegnar a far piangere gli uomini, non dà alcun formale precetto per fargli ridere.»
         Che cosa può dunque far mai chi non ha questo Genio della Natura? Potrà ben egli, quand'abbia formato collo studio un buon senso, rettamente giudicar forse delle opere altrui in questo genere medesimo, ma non produrne felicemente delle proprie. Potrà forse anche, dopo di aversi bene stillato il cervello sui libri degli egregi Maestri, che dell'Arte della Commedia diedero le ottime regole tratte dall'esempio de' bravi Poeti Comici, che ne' secoli andati fiorirono, potrà, dico, far delle regolatissime Opere, scriverà in purgatissima Lingua, ma avrà la disgrazia, che tuttavia non piacerà sul Teatro. Così non piacendo, non potrà nemmeno istruire, giacché l'istruzione vuole dalle Scene esser porta al popolo, addolcita dalle grazie e lepidezze poetiche, se l'Uditore che viene al Teatro col fin primario di ricrearsi, ha da indursi a gustarla.

Nam... Pueris absinthia taetra medentes
Cum dare conantur, prius oras pocula circum
Contingunt mellis dulci flavoque liquore
Ut puerorum aetas improvida ludificetur
Labrorum tenus; interea perpotet amarum
Absinthi laticem, deceptaque non capiatur,
Sed potius tali facto recreata valescat[1].

         Chi non avrà in somma questo Comico Genio non saprà dare ai suoi pensieri quel giro piacevole, quel brio giulivo, che sa sostenere la giocondità del proprio carattere senza cadere in freddezza, o pure in buffoneria; e non saprà finalmente innestare quella delicata barzelletta che, al detto del sovrallodato P. Rapin, è il fiore di un bell'ingegno, e quel talento che vuol la Commedia.
         Ora fu in me questo Genio medesimo, che rendendomi osservator attentissimo delle Commedie, che sui vari Teatri d'Italia da diciotto o venti anni in qua rappresentavansi, me ne fece conoscere e compiangere il gusto corrotto, comprendendo nel tempo stesso, che non poco utile ne sarebbe potuto derivare al Pubblico, e non iscarsa lode a chi vi riuscisse, se qualche talento animato dallo spirito comico tentasse di rialzare l'abbattuto Teatro Italiano. Questa lusinga di gloria fini di determinarmi all'impresa.
         Era in fatti corrotto a segno da più di un secolo nella nostra Italia il Comico Teatro, che si era reso abomine­vole oggetto di disprezzo alle Oltramontane Nazioni. Non correvano sulle pubbliche Scene se non sconce Arlecchinate, laidi e scandalosi amoreggiamenti, e motteggi; favole mal inventate, e peggio condotte, senza costume, senza ordine, le quali, anziché correggere il vizio, come pur è il primario, antico e più nobile oggetto della Commedia, lo fomentavano, e riscuotendo le risa dalla ignorante plebe, dalla gioventù scapestrata, e dalle genti più scostumate, noia poi facevano ed ira alle persone dotte e dabbene, le quali se frequentavan talvolta un così cattivo Teatro, e vi erano strascinate dall'ozio, molto ben si guardavano dal condurvi la famigliuola innocente, affinché il cuore non ne fosse guastato, giacché questi per verità erano quegli spettacoli da' quali Pudicitiam saepe fractam, semper impulsam vidimus... multae inde domum impudicae, plures ambiguae rediere: castior autem nulla[2]. Per la qual cosa Tertulliano a' Teatri sì fatti dà nome di Sacrari di Venere[3], ed il Grisostomo dice, che nelle Città furono edificati dal Diavolo, e che da essi diffondesi per ogni luogo la peste del mal costume[4]; quindi a ragione i Sacri Oratori fulminavano da' Pulpiti così corrotte Commedie, ch'erano in fatti oggetto ben giusto dell'abominazione de' Saggi.
         Molti però negli ultimi tempi si sono ingegnati di regolar il Teatro, e di ricondurvi il buon gusto. Alcuni si son provati di farlo col produrre in iscena Commedie dallo Spagnuolo o dal Francese tradotte. Ma la semplice traduzione non poteva far colpo in Italia. I gusti delle Nazioni son differenti, come ne son differenti i costumi e i linguaggi. E perciò i mercenari Comici nostri, sentendo con lor pregiudizio l'effetto di questa verità, si diedero ad alterarle, e recitandole all'improvviso, le sfiguraron per modo, che più non si conobbero per Opere di que' celebri Poeti, come sono Lopez di Vegall e il Molière, che di là da' Monti, dove miglior gusto fioriva, le avevan felicemente composte. Lo stesso crudel governo hanno fatto delle Commedie di Plauto e di Terenzio; né la risparmiarono a tutte le altre antiche o moderne Commedie ch'eran nate, o che andaran nascendo nell'Italia medesima, e specialmente a quelle della pulitissima Scuola Fiorentina, che andavan loro cadendo tra mano. Intanto i Dotti fremevano: il Popolo s'infastidiva: tutti d'accordo esclamavano contra le cattive Commedie, e la maggior parte non aveva idea delle buone.
         Avvedutisi i Comici di questo universale scontento, andaron tentoni cercando il loro profitto nelle novità. Introdussero le macchine, le trasformazioni, le magnifiche decorazioni; ma oltre al riuscir cosa di troppo dispendio, il concorso del popolo ben presto diminuiva. Andate però in fumo le Macchine, hanno procurato di aiutar la Commedia cogl'Intermezzi in Musica; ottimo riuscì lo spediente per qualche tempo, ed io fui de' primi a contribuirvi con moltissimi Intermezzi, fra' quali mi ricordo aver fatta mol­ta fortuna la Pupilla, la Birba, il Filosofo, l'Ippocondriaco, il Caffè, l'Amante Cabala, la Contessina, il Barcaiuolo. Ma i Comici non essendo Musici, non tardò l'Uditorio a sentire quanto poca relazione colla Commedia abbia la Musica. Le Tragedie in ultimo luogo, e i Drammi composti per la Musica, recitati dai Comici, han sostenuti i Teatri. In fatti si son recitate eccellenti Tragedie e bellissimi Drammi con lodevolissima forma da' nostri valenti Attori, che mirabilmente vi riuscirono. Qual incontro non ebbero i Drammi del celebre Signor Abate Metastasio, quelli dell'Illustre Signor Apostolo Zeno, le Tragedie del sapientissimo Patrizio Veneto Signor Abate Conti, la Merope dell'eruditissimo Signor Marchese Maffei, l'Elettra ed altre molte, o interamente composte, o eccellentemente dal Francese trasportate, dal peritissimo Signor Co: Gasparo Gozzi, non men che altre eziandio, così di antichi come di redenti valorosi Poeti, Italiani, Francesi ed Inglesi, i quali per brevità, non per mancanza di stima o di rispetto, tralascio di nominare: e mi sia lecito il dirlo, qual compatimento non ebbe anche alcuna delle mie Rap­presentazioni? cioè il Bellisario, l'Errico, la Rosmonda, il Don Giovanni Tenorio, il Giustino, il Rinaldo da Mon­talbano, tuttoché non ardisca dar loro il titolo di Tragedie, perché da me stesso conosciute difettose in molte lor parti. Ma codesti applausi stessi, che riscuotevano i Drammi e le Tragedie rappresentate da' Comici, erano appunto la maggior vergogna della Commedia, come la più con­vincente prova della estrema sua decadenza.
         Io frattanto ne piangea fra me stesso, ma non avea an­cora acquistati lumi sufficienti per tentarne il risorgimen­to. Aveva per verità di quando in quando osservato, che nelle stesse cattive Commedie eravi qualche cosa ch'ecci­tava l'applauso comune e l'approvazion de' migliori, e mi accorsi che ciò per lo più accadeva all'occasione d'alcuni gravi ragionamenti ed istruttivi, d'alcun dilicato scherzo, d'un accidente ben collocato, di una qualche viva pennel­lata, di alcun osservabil carattere, o di una dilicata critica di qualche moderno correggibil costume: ma più di tutto mi accertai che, sopra del maraviglioso, la vince nel cuor dell'uomo il semplice e il naturale.
         Al barlume di queste scoperte mi diedi immediate a comporre alcune Commedie. Ma prima di poter farne delle passabili o delle buone, anch'io ne feci delle cattive. Quando si studia sul libro della Natura e del Mondo, e su quello della sperienza, non si può per verità divenire Maestro tutto d'un colpo; ma egli è ben certo che non vi si diviene giammai, se non si studiano codesti libri. Ne composi alcune alla maniera Spagnuola, cioè a dire Commedie d'intreccio e d'inviluppo; ed ebbero qualche insolita buona riuscita per un certoché di metodico e di regolato, che le distingueva dalle ordinarie, e una cert'aria di naturalezza, che in esse scoprivasi. Fra le altre mi sovviene averne una data al Teatro intitolata: Cento e quattro accidenti in una notte, che per varie sere successivamente repli­cata, riuscì anche dall'universale compatita. Non ne restai però interamente contento. Mi provai a farne una di carattere intitolata il Momolo Cortigiano. Piacque essa estremamente, e fu tante volte replicata con istraordinario concorso, che fui allora tentato di crederla perfetta Commedia, sulla fede di un dotto Commentatore di Orazio sopra que' versi:

Haec amat obscurum, solet haec sub luce videri
Judicis argutum quae non formidat acumen:
Haec placuit semel, haec decies repetita placebit
.

        Giacché li spiega con dire, che quella Commedia può con franchezza esporsi al Pubblico, come appunto una per­fetta Pittura, senza temer la critica di severo Giudice, la quale dieci volte ripetuta ancor piaccia. Ma conobbi di poi quanto migliori Commedie si potessero scrivere. Tuttavia presi da essa coraggio; ed avvedutomi che le Commedie di carattere più sicuramente di tutte le altre colpivano, composi il Momolo sulla Brenta, e l'altro due volte fallito, alle quali venne pur fatta una cortesissima accoglienza. Pensai allora, che se tanto eran riuscite Commedie nelle quali era vestito de' suoi convenienti costumi, parole e sali il solo principal Personaggio, lasciati in libertà gli altri di parlar a soggetto, dacché procedeva ch'elle riuscivano ineguali e di pericolosa condotta, pensai, dico, che agevolmente si avrebbe potuto render la Commedia migliore, più sicura e di ancor più felice riuscita, scrivendo la parte di tutti i Personaggi, introducendovi vari caratteri, e tutti lavorandoli al tornio della Natura, e sul gusto del Paese nel quale dovean recitarsi le mie Commedie.
         Nell'anno adunque 1742, seguendo questo pensamen­to, diedi alle Scene la Donna di garbo, la qual io chia­mo mia prima Commedia, e che prima delle altre compa­rirà in questa raccolta, giacché in fatti è la prima ch'io abbia interamente scritta. Ritrovò essa, dappertutto ove fu rappresentata, e principalmente in Venezia e in Firenze, ottimi giudici del buono, una gentilissima accoglienza; benché molte di quelle grazie per avventura le manchino, che a mio parere adornan le altre posteriormente fatte, dappoi che abbandonata affatto ogni altra professione, come quella di Avvocato Civile e Criminale, che in Pisa allora esercitava, mi son tutto consagrato alla Comica Poesia scrivendo a profitto dell'onoratissimo Girolamo Medebach, il quale alla testa di valorosi Comici va da' più celebri Teatri d'Italia spargendo ne' popoli, col mezzo di costumate Commedie, l'istruzione e il diletto. I due Gemelli Veneziani, l'Uomo Prudente, la Vedova Scaltra, furono in seguito tre fortunatissime Commedie, e dopo di esse la Putta Onorata, la Buona Moglie, il Cavaliere e la Dama, l'Avvocato, e la Suocera e la Nuora, replicate con indicibile applauso moltissime sere in varie Città, fecero molto ben l'interesse del benemerito sudetto Comico, e ricolmarono me di consolazione, dandomi a conoscere che non affatto inutili sono state le mie appli­cazioni, per ricondurre sul Teatro Italiano il buon costume e 'l buon gusto della Commedia. Mi va poi di giorno in giorno raffermando in questa opinione la fortuna che incontrano comunemente le altre Opere mie, che in questo genere si van recitando, secondo ch'io le vo componendo.
         Non mi vanterò io già d'essermi condotto a questo se­gno, qualunque ei si sia, di miglior senso, col mezzo di un assiduo metodico studio sull'Opere o precettive, o esemplari in questo genere de' migliori antichi e recenti Scrittori e Poeti, o Greci, o Latini, o Francesi, o Italiani, o d'altre egualmente colte Nazioni; ma dirò con ingenuità, che sebben non ho trascurata la lettura de' più venera­bili e celebri Autori, da' quali, come da ottimi Maestri, non possono trarsi che utilissimi documenti ed esempli: contuttociò i due libri su' quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro. Il primo mi mostra tanti e poi tanti vari carat­teri di persone, me li dipinge così al naturale, che paion fatti apposta per somministrarmi abbondantissimi argo­menti di graziose ed istruttive Commedie: mi rappresenta i segni, la forza, gli effetti di tutte le umane passioni:  mi provvede di avvenimenti curiosi: m'informa de' correnti costumi: m'intruisce de' vizi e de' difetti che son più co­muni del nostro secolo e della nostra Nazione, i quali me­ritano la disapprovazione o la derisione de' Saggi; e nel tempo stesso mi addita in qualche virtuosa Persona i mezzi coi quali la Virtù a codeste corruttele resiste, ond'io da questo libro raccolgo, rivolgendolo sempre, o meditando­vi, in qualunque circostanza od azione della vita mi trovi, quanto è assolutamente necessario che si sappia da chi vuo­le con qualche lode esercitare questa mia professione. Il secondo poi, cioè il libro del Teatro, mentre io lo vo ma­neggiando, mi fa conoscere con quali colori si debban rap­presentar sulle Scene i caratteri, le passioni, gli avvenimen­ti, che nel libro del Mondo si leggono; come si debba ombreggiarli per dar loro il maggiore rilievo, e quali sien quelle tinte, che più li rendon grati agli occhi dilicati degli spettatori. Imparo in somma dal Teatro a distinguere ciò ch'è più atto a far impressione sugli animi, a destar la ma­raviglia, o il riso, o quel tal dilettevole solletico nell'uman cuore, che nasce principalmente dal trovar nella Comme­dia che ascoltasi, effigiati al naturale, e posti con buon garbo nel loro punto di vista, i difetti e 'l ridicolo che trovasi in chi continuamente si pratica, in modo però che non urti troppo offendendo.
         Ho appreso pur dal Teatro, e lo apprendo tuttavia al­l'occasione delle mie stesse Commedie, il gusto particolare della nostra Nazione, per cui precisamente io debbo scrivere, diverso in ben molte cose da quello dell'altre. Ho osservato alle volte riscuotere grandissimi encomi alcune coserelle da me prima avute in niun conto, altre riportarne pochissima lode, e talvolta eziandio qualche critica, dalle quali non ordinario applauso io avea sperato; per la qual cosa ho imparato, volendo render utili le mie Commedie, a regolar talvolta il mio gusto su quello dell'universale, a cui deggio principalmente servire, senza darmi pensiero delle dicerie di alcuni o ignoranti, o indiscreti e difficili, i quali pretendono di dar la legge al gusto di tutto un Po­polo, di tutta una Nazione, e forse anche di tutto il Mondo e di tutti i secoli colla lor sola testa, non riflettendo che, in certe particolarità non integranti, i gusti possono impunemente cambiarsi, e convien lasciar padrone il Popolo egualmente che delle mode del vestire e de' linguaggi.
         Per questo, quando alcuni adoratori d'ogni antichità esigono indiscretamente da me, sull'esempio de' Greci e Romani Comici, o l'unità scrupolosa del luogo, o che più di quattro Personaggi non parlino in una medesima scena, o somiglianti stiticità, io loro in cose che così poco rilevano all'essenzial bellezza della Commedia, altro non oppongo che l'autorità del da tanti secoli approvato uso contrario. Moltissime son quelle cose nelle antiche Commedie, massimamente Greche, ed in particolare in quelle di Aristofane, quando elle recitavansi sopra Palchi mobi­li come le nostre Burlette, le quali assaissimo a que' tempi, piacevano, e riuscirebbono intollerabili ai nostri e però io stimo che, più scrupolosamente che ad alcuni pre­cetti di Aristotele o di Orazio, convenga servire alle leggi del Popolo in uno spettacolo destinato all'istruzion sua per mezzo del suo divertimento e diletto. Coloro che amano tutto all'antica, ed odiano le novità, assolutamente parmi che si potrebbono paragonare a que' Medici, che non volessero nelle febbri periodiche far uso della chinchina per questa sola ragione, che Ippocrate o Galeno non l'hanno adoperata.
         Ecco quanto ho io appreso da' miei due gran libri, Mondo e Teatro. Le mie Commedie sono principalmente re­golate, o almeno ho creduto di regolarle, co' precetti che in essi due libri ho trovati scritti: libri, per altro, che soli certamente furono studiati dagli stessi primi Autori di tal genere di Poesia, e che daranno sempre a chicchessia le vere lezioni di quest'Arte. La natura è una universale e sicura maestra a chi l'osserva. «Quanto si rappresenta sul Teatro» scrive un illustre Autore «non deve essere se non la copia di quanto accade nel Mondo. La Commedia» sog­giunge «allora è quale esser deve, quando ci pare di esse­re in una compagnia del vicinato, o in una familiar con­versazione, allorché siamo realmente al Teatro, e quando non vi si vede se non se ciò che si vede tutto giorno nel Mondo. Menandro» segue a dire «non è riuscito se non per questo tra i Greci, ed i Romani credevano di trovarsi in conversazione, quando ascoltavano le Commedie di Terenzio, perché non vi trovavano se non quel ch'eran soliti di trovare nelle ordinarie lor Compagnie.» Anche il gran Lopez di Vega, per testimonianza del medesimo Scrittore, non si consigliava, componendo le sue Commedie, con altri Maestri che col gusto de' suoi Uditori.
         Io però, violentato da un Genio oso dir somigliante a quello di questo celebre Spagnuolo Poeta, e a un dipresso seguendo la medesima scorta, ho scritte le mie Commedie. Trattati di Poetica, Tragedie, Drammi, Commedie d'ogni sorta ne ho lette anch'io in quantità, ma dopo d'a­vermi già formato il mio particolare sistema, o mentre me lo andava formando dietro ai lumi che mi somministravano i miei due sovrallodati gran libri, Mondo e Teatro; e solamente dopo mi sono avveduto d'essermi in gran parte confermato a' più essenziali precetti dell'Arte raccoman­dati dai gran Maestri, ed eseguiti dagli eccellenti Poeti, senza aver di proposito studiati né gli uni, né gli altri; a guisa di quel Medico, che trovata talora dal caso e dalla sperienza una salutevole medicina, applicandovi poi la ra­gione dell'Arte, la conosce regolare e metodica.
         Non pensi alcuno però ch'io abbia la temerità di creder le mie Commedie esenti da ogni difetto. Tanto son io lon­tano da una tal presunzione, quanto mi vo ogni giorno affaticando per migliorar in esse il mio gusto. Parmi so­lamente di esser giunto a segno di non aver da vergognar­mi d'averle fatte, e di poter arrischiarmi di darle alle stam­pe con isperanza di qualche compatimento.
         Io le lascio correre candidamente quali esse furono dap­prima scritte e rappresentate. Non voglio che si dica ch'io correggendole abbia cercato di accrescere il merito delle mie prime fatiche oltre alla verità; anzi desidero che il mon­do conosca nella differenza che si ravvisa tra le prime e le ultime, come gradatamente, a forza di osservazione e di sperienza, mi sono andato avanzando. A questo fine, stampandole nell'ordine stesso con cui furon composte, rinunzio anche al maggior credito che potrei procurar al mio libro, se io facessi preceder alle prime più deboli, le ultime a mio parere manco imperfette, e specialmente Il cavaliere e La dama, che superò le altre tutte in aver ap­plauso, e nella quale veramente ho posto più studio e fatica.
         Per altro, come io ho sempre, egualmente volentieri che gli stessi applausi, ascoltate le varie critiche che furon fatte alle mie Commedie, mentre si recitavano, poiché se quelli animavano a comporre, queste m'insegnavano a compor meglio; così senza cruccio son apparecchiato ad accoglie­re anche quelle che lor venissero fatte all'occasion ch'e­scon da' torchi, collo stesso unico oggetto di profittarmi de' buoni lumi che potessi indi trarne, ora per sempre disobbligandomi per altro dal far loro la minima risposta. Le composizioni di niun valore non sono nemmeno oggetto degno di critica. Che se alle mie Commedie ne sono state fatte, o se ne faran tuttavia in avvenire, io trarrò quindi un sicuro argomento che degne sieno di osservazione, e però fornite di qualche merito. In fatti, se quelli che o due o tre anni fa sofferivano sul Teatro improprietà, inezie, Arlicchinate da mover nausea agli stomachi più grossolani, son divenuti al presente così dilicati, che ogn'ombra d'inverisimile, ogni picciolo neo, ogni frase o parola men che toscana li turba e travaglia, io posso senza arroganza attribuirmi il merito d'aver il primo loro ispirata una tal dilicatezza col mezzo di quelle stesse Commedie che alcuni di essi indiscretamente, ingratamente, e fors'anche talvolta senza ragione si sono messi, o si metteranno a lacerare.
         Quanto alla Lingua ho creduto di non dover farmi scrupolo d'usar molte frasi e voci Lombarde, giacché ad intelligenza anche della plebe più bassa che vi concorre, principalmente nelle Lombarde Città dovevano rappresentarsi le mie Commedie. Ad alcuni idiotismi Veneziani, ed a quelle di esse che ho scritte apposta per Venezia mia Patria, sarò in necessità di aggiungere qualche noterella, per far sentire le grazie di quel vezzoso dialetto a chi non ha tutta la pratica. Il Dottore che recitando parla in Lingua Bolognese, parla qui nella volgare Italiana.
         Lo stile poi l'ho voluto qual si conviene alla Comme­dia, vale a dir semplice, naturale, non accademico od elevato. Questa è la grand'Arte del Comico Poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai. I sentimenti debbon esser veri, naturali, non ricercati, e le espressioni a portata di tutti; conciossiaché, osserva a questo proposito il da me tante volte nominato Padre Rapin, «bisogna mettersi bene in capo, che i più grossolani tratti della natura piacciono sempre più che i più delicati fuori del naturale».
         Io mi accorgo d'essere uscito dal mio primo proponi­mento, e di aver già fatta alle mie Commedie, senza avve­dermene e senza volerlo, una Prefazione, se non erudita, certamente lunga. Finisco però senza più dilungarmi, pregando i miei Leggitori di volere ne' Tomi che seguiran questo primo, attendere Commedie meno imperfette, e ad usar verso di esse tanto maggior discretezza, quanto in loro coscienza si sentissero minor forza di farne delle migliori.

(C.G., Prefazione dell'autore alla prima raccolta delle commedie (1750), Opere, 1, pp. 761-774)

da: Carlo Goldoni, Storia del mio teatro, introduzione e scelta e note a cura di Epifanio Ajello, Biblioteca universale RizzoliMilano 1993, pp. 444-460
edizione telematica 10 marzo 2000

[1] Lucr. Carus. De rerum natura, 1, 936,941.

[2] Franc. Petrarca. De. rem. utr. Fort. 30.

[3] De Spect - 1 I  C-I.

[4] Homil. 6 in Matth.

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Ultimo aggiornamento: 11 marzo 2000