Carlo Goldoni
La Famiglia dell'Antiquario
Personaggi:
Il Conte Anselmo Terrazzani antiquario
La Contessa Isabella sua moglie
Il Conte Giacinto loro figliuolo
Doralice sposata al conte Giacinto, figlia di Pantalone
Pantalone de' Bisognosi mercante, ricco veneziano
I Cavaliere Del Bosco
Il Dottor Anselmi uomo d'età avanzata, e confidente della
contessa Isabella
Colombina cameriera della contessa Isabella
Brighella servitore del conte Anselmo
Arlecchino amico e paesano di Brighella
Pancrazio intendente di antichità
Servitori del conte Anselmo
La scena si rappresenta in Palermo.
ATTO PRIMO
Scena prima
Camera del conte Anselmo, con vari tavolini, statue, busti e altre cose
antiche. Il conte Anselmo ad un tavolino, seduto sopra una poltrona, esaminando alcune
medaglie, con uno scrigno sul tavolino medesimo; poi Brighella.
Anselmo: Gran bella medaglia! questo è un Pescennio originale. Quattro zecchini?
L'ho avuto per un pezzo di pane.
Brighella: Lustrissimo (con vari fogli in mano).
Anselmo: Guarda, Brighella, se hai veduto mai una medaglia piú bella di questa.
Brighella: Bellissima. De medaggie no me ne intendo troppo, ma la sarà bella.
Anselmo: I Pescenni sono rarissimi; e questa pare coniata ora.
Brighella: Gh'è qua ste do polizze...
Anselmo: Ho fatto un bell'acquisto.
Brighella: Comandela che vada via?
Anselmo: Hai da dirmi qualche cosa?
Brighella: Gh'ho qua ste do polizie. Una del mercante da vin, e l'altra de quello
della farina.
Anselmo: Gran bella testa! Gran bella testa! (osservando la medaglia).
Brighella: I xe qua de fora, i voleva intrar, ma gh'ho dito che la dorme.
Anselmo: Hai fatto bene. Non voglio essere disturbato. Quanto avanzano?
Brighella: Uno sessanta scudi, e l'altro cento e trenta.
Anselmo: Tieni questa borsa, pagali, e mandali al diavolo (leva una borsa dallo
scrigno).
Brighella: La sarà servida (parte).
Anselmo: Ora posso sperare di fare la collana perfetta degl'imperatori romani. Il
mio museo a poco a poco si renderà famoso in Europa.
Brighella: Lustrissimo (torna con altri fogli).
Anselmo: Che cosa c'è? Se venisse quell'Armeno con i cammei, fallo passare
immediatamente.
Brighella: Benissimo; ma son capitadi altri tre creditori: el mercante de' panni,
quel della tela, e el padron de casa che vuol l'affitto.
Anselmo: E ben, pagali e mandali al diavolo.
Brighella: Da qua avanti no la sarà tormentada dai creditori.
Anselmo: Certo che no. Ho liberate tutte le mie entrate. Sono padrone del mio.
Brighella: Per la confidenza che vossustrissima se degna de donarme, ardisso dir
che l'ha fatto un bon negozio a maridar l'illustrissimo signor contin, suo degnissimo
fiol, con la fia del sior Pantalon.
Anselmo: Certo che i ventimila scudi di dote, che mi ha portato in casa in tanti
bei denari contanti, è stato il mio risorgimento Io aveva ipotecate, come sai, tutte le
mie rendite.
Brighella: Za che la xe in pagar debiti, la sappia che, co vago fora de casa, no me
posso salvar: quattro ducati qua, tre là; a chi diese lire, a chi otto, a chi sie; s'ha
da dar a un mondo de botteghieri.
Anselmo: E bene, che si paghino, che si paghino. Se quella borsa non basta, vi è
ancor questa, e poi è finito (mostra un'altra borsa, che e nello scrigno).
Brighella: De ventimile scudi no la ghe n'ha altri?
Anselmo: Per dir tutto a te, che sei il mio servitor fedele, ho riposto duemila
scudi per il mio museo, per investirli in tante statue, in tante medaglie.
Brighella: La me perdona; ma buttar via tanti bezzi in ste cosse...
Anselmo: Buttar via? Buttar via? Ignorantaccio! Senti se vuoi avere la mia
protezione, non mi parlar mai contro il buon gusto delle antichità, altrimenti ti
licenzierò di casa mia.
Brighella: Diseva cussí, per quello che sento a dir in casa; per altro accordo
anca mi, che el studio delle medaggie l'è da omeni letterati; che sto diletto è da
cavalier nobile e de bon gusto; e che son sempre ben spesi quei denari che contribuisce
all'onor della casa e della città. (El vol esser adulà? bisogna adularlo) (da sé,
parte).
Scena seconda
Il conte Anselmo solo.
Anselmo: Bravo. Brighella è un servitore di merito. Ecco un bell'anello etrusco.
Con questi anelli gli antichi Toscani sposavano le loro donne. Quanto pagherei avere un
lume eterno, di quelli che ponevano i Gentili nelle sepolture de' morti! Ma a forza d'oro,
l'avrò senz'altro.
Scena terza
La contessa Isabella e detto.
Isabella: (Ecco qui la solita pazzia delle medaglie!) (da sé)
Anselmo: Oh, contessa mia, ho fatto il bell'acquisto! Ho ritrovato un Pescennio.
Isabella: Voi colla vostra gran mente fate sempre de' buoni acquisti.
Anselmo: Direste forse che non è vero?
Isabella: Si, è verissimo. Avete fatto anche l'acquisto di una nobilissima nuora.
Anselmo: Che! sono stati cattivi ventimila scudi?
Isabella: Per il vilissimo prezzo di ventimila scudi avete sagrificato il tesoro
della nobiltà.
Anselmo: Eh via, che l'oro non prende macchia. Siam nati nobili, siamo nobili, e
una donna venuta in casa per accomodare i nostri interessi, non guasta il sangue delle
nostre vene.
Isabella: Una mercantessa mia nuora? Non lo soffrirò mai.
Anselmo: Orsú, non mi rompete il capo. Andate via, che ho da mettere in ordine le
mie medaglie.
Isabella: E il mio gioiello quando me lo riscuotete?
Anselmo: Subito. Anche adesso, se volete.
Isabella: L'ebreo lo ha portato, ed è in sala che aspetta.
Anselmo: Quanto vi vuole?
Isabella: Cento zecchini coll'usura.
Anselmo: Eccovi cento zecchini. Ehi! sono di quelli della mercantessa.
Isabella: Non mi nominate colei.
Anselmo: Se temete che vi sporchino le mani nobili, lasciateli stare.
Isabella: Date qua, date qua (li prende).
Anselmo: Volesse il cielo che avessi un altro figliuolo.
Isabella: E che vorreste fare?
Anselmo: Un'altra intorbidata alla purezza del sangue con altri ventimila scudi.
Isabella: Animo vile! Vi lasciate contaminar dal denaro? Mi vergogno di essere
vostra moglie.
Anselmo: Quanto sarebbe stato meglio, che voi ancora mi aveste portato in casa meno
grandezze e piú denari.
Isabella: Orsú, non entriamo in ragazzate. Ho bisogno di un abito
Anselmo: Benissimo. Farlo.
Isabella: Per la casa abbisognano cento cose.
Anselmo: Orsú, tenete. Questi, con i cento zecchini che vi ho dato, sono
quattrocento zecchini. Fate quel che bisogna per voi, per la casa, per la sposa. Io non me
ne voglio impacciare. Lasciatemi in pace, se potete. Ma ehi! questi denari sono della
mercantessa.
Isabella: Lo fate apposta per farmi arrabbiare.
Anselmo: Senza di lei la faremmo magra.
Isabella: In grazia delle vostre medaglie.
Anselmo: In grazia della vostra albagia.
Isabella: Io son chi sono.
Anselmo: Ma senza questi non si fa niente (accenna i denari).
Isabella: Avvertite bene, che Doralice non venga nelle mie camere
Anselmo: Chi? vostra nuora?
Isabella: Mia nuora, mia nuora, giacché il diavolo vuol cosí (parte).
Scena quarta
II conte Anselmo solo.
Anselmo: È pazza, e pazza la poverina. Prevedo che fra suocera e nuora vi voglia
essere il solito divertimento. Ma io non ci voglio pensare. Voglio attendere alle mie
medaglie, e se si vogliono rompere il capo, lo facciano, che non m'importa. Non posso
saziarmi di rimirare questo Pescennio! E questa tazza di diaspro orientale non è un
tesoro? Io credo senz'altro sia quella in cui Cleopatra stemprò la perla alla famosa cena
di Marcantonio.
Scena quinta
Doralice e detto.
Doralice: Serva, signor suocero.
Anselmo: Schiavo, nuora, schiavo. Ditemi, v'intendete voi di anticaglie?
Doralice: Sí, signore, me n'intendo.
Anselmo: Brava! me ne rallegro; e come ve n'intendete?
Doralice: Me n'intendo, perché tutte le mie gioje, tutti i miei vestiti sono
anticaglie.
Anselmo: Brava! spiritosa! Vostro padre prima di maritarvi doveva vestirvi alla
moda.
Doralice: Lo avrebbe fatto, se voi non aveste preteso i ventimila scudi in denari
contanti, e non aveste promesso di farmi il mio bisogno per comparire.
Anselmo: Orsú, lasciatemi un po' stare; non ho tempo da perdere in simili
frascherie.
Doralice: Vi pare una bella cosa, che io non abbia nemmeno un vestito da sposa?
Anselmo: Mi pare che siate decentemente vestita.
Doralice: Questo è l'abito ch'io aveva ancor da fanciulla.
Anselmo: E perché siete maritata, non vi sta bene? Anzi sta benissimo, e quando
occorrerà, si allargherà.
Doralice: Non è vostro decoro, ch'io vada vestita come una serva.
Anselmo: (Non darei questa medaglia per cento scudi)
Doralice: Finalmente ho portato in casa ventimila scudi.
Anselmo: (A compir la collana mi mancano ancora sette medaglie) (da sé).
Doralice: Avete voluto fare il matrimonio in privato, ed io non ho detto niente.
Anselmo: (Queste sette medaglie le troverò) (da sé).
Doralice: Non avete invitato nessuno de' miei parenti; pazienza.
Anselmo: (Vi sono ancora duemila scudi, le troverò) (da sé).
Doralice: Ma ch'io debba stare confinata in casa, perché non ho vestiti da
comparire, è una indiscretezza.
Anselmo: (Oh, son pure annoiato!) (da sé). Andate da vostra suocera, ditele
il vostro bisogno; a lei ho dato l'incombenza: ella farà quello che sarà giusto.
Doralice: Con la signora suocera non voglio parlare di queste cose; ella non mi
vede di buon occhio. Vi prego, datemi voi il denaro per un abito, che io penserò a
provvederlo.
Anselmo: Denaro io non ne ho.
Doralice: Non ne avete? I ventimila scudi dove sono andati? (parla sempre
flemmaticamente).
Anselmo: A voi non devo rendere questi conti.
Doralice: Li renderete a mio marito. La dote è sua, voi non gliel'avete a
mangiare.
Anselmo: E lo dite con questa flemma?
Doralice: Per dir la sua ragione, non vi è bisogno di scaldarsi il sangue.
Anselmo: Orsú, fatemi il piacere, andate via di qua; che se il sangue non si
scalda a voi, or ora si scalda a me.
Doralice: Mi maraviglio di mio marito. E un uomo ammogliato, e si lascia
strapazzare cosi.
Anselmo: Per carità, andate via.
Scena sesta
Il conte Giacinto e detti.
Giacinto: Ha ragione mia moglie, ha ragione; una sposa non va trattata cosí.
Anselmo: (Uh, povere le mie medaglie!) (da sé).
Giacinto: Nemmeno un abito?
Anselmo: Andate da vostra madre, le ho dato quattrocento zecchini.
Giacinto: Voi, signor padre, siete il capo di casa.
Anselmo: Io non posso abbadare a tutto.
Giacinto: Maledette quelle anticaglie!
Doralice: Dei ventimila scudi dice che non ne ha più.
Giacinto: Non ne ha piú? Dove sono andati?
Doralice: Per me non si è speso un soldo.
Giacinto: Io non ho avuto un quattrino.
Doralice: Signor suocero, come va questa faccenda?
Giacinto: Signor padre, ho moglie, sono obbligato a prevedere il futuro.
Anselmo: (Non posso piú, non posso piú; ho tanto di testa; non posso piú) (da
sé, prende le medaglie, le mette nello scrigno, e le porta via).
Scena settima
Il conte Giacinto e Doralice.
Doralice: Che ne dite, eh? Ci ha data questa bella risposta.
Giacinto: Che volete ch'io dica? Le medaglie lo hanno incantato.
Doralice: Se egli è incantato, non siate incantato voi.
Giacinto: Cosa mi consigliereste di fare?
Doralice: Dir le vostre e le mie ragioni.
Giacinto: Finalmente è mio padre; non posso e non deggio mancare al dovuto
rispetto.
Doralice: Avete sentito? Vostra madre ha quattrocento zecchini da spendere. Fate
che ne spenda ancora per me.
Giacinto: Sarà difficile cavarglieli dalle mani.
Doralice: Se non vuol colle buone, obbligatela colle cattive.
Giacinto: È mia madre.
Doralice: E io son vostra moglie.
Giacinto: Vi vorrei pur vedere in pace.
Doralice: È difficile.
Giacinto: Ma perché?
Doralice: Perché ella è troppo superba.
Giacinto: E voi convincetela coll'umiltà. Sentite, Doralice mia, due donne che
gridano, sono come due porte aperte, dalle quali entra furiosamente il vento; basta
chiuderne una, perché il vento si moderi.
Doralice: La mia collera è un vento, che in casa non fa rumore.
Giacinto: S'è vero; è un vento leggiero; ma tanto fino ed acuto, che penetra
nelle midolle dell'ossa.
Doralice: Vuol atterrar tutti colla sua furia.
Giacinto: E voi non vi perdete colla vostra flemma.
Doralice: Sempre mette in campo la sua nobiltà.
Giacinto: E voi la vostra dote.
Doralice: La mia dote è vera.
Giacinto: E la sua nobiltà non è una cosa ideale.
Doralice: Dunque date ragione a vostra madre, e date torto a me ?
Giacinto: Vi do ragione, quando l'avete.
Doralice: Ho forse torto a pretendere d'esser vestita decentemente?
Giacinto: No, ma per mia madre desidero che abbiate un poco più di rispetto.
Doralice: Orsú, sapete che farò? Per rispettarla, per non inquietarla, anderò a
star con mio padre.
Giacinto: Vedete? Ecco il vento leggiero leggiero, ma fino ed acuto. Con tutta
placidezza vorreste fare la peggior cosa del mondo.
Doralice: Farei si gran male a tornar con mio padre?
Giacinto: Fareste malissimo a lasciare il marito.
Doralice: Potete venire ancor voi.
Giacinto: Ed io farei peggio ad uscire di casa mia.
Doralice: Dunque stiamo qui, e tiriamo avanti cosi.
Giacinto: È poco che siete in casa.
Doralice: Dal buon mattino si conosce qual esser debba essere la buona sera.
Giacinto: Mia madre vi prenderà amore.
Doralice: Non lo credo.
Giacinto: Procurate di farvi ben volere.
Doralice: È impossibile con quella bestia.
Giacinto: Bestia a mia madre?
Doralice: Si, bestia; è una bestia.
Giacinto: E lo dite con quella flemma?
Doralice: Io non mi voglio scaldare il sangue.
Giacinto: Cara Doralice, abbiate giudizio.
Doralice: Ne ho anche troppo.
Giacinto: Via, se mi volete bene, regolatevi con prudenza
Doralice: Fate che io abbia quello che mi si conviene, e sarò pazientissima.
Giacinto: Il merito della virtú consiste nel soffrire.
Doralice: Sí, soffrirò, ma voglio un abito.
Giacinto: L'avrete, l'avrete.
Doralice: Lo voglio, se credessi che me ne andasse la testa. Sono impuntata, lo
voglio.
Giacinto: Vi dico che lo avrete.
Doralice: E presto lo voglio, presto.
Giacinto: Or ora vado per il mercante. (Bisogna in qualche maniera acquietarla) (da
sé).
Doralice: Dite: che abito avete intenzione di farmi?
Giacinto: Vi farò un abito buono.
Doralice: M'immagino vi sarà dell'oro o dell'argento.
Giacinto: E se fosse di seta schietta, non sarebbe a proposito?
Doralice: Mi pare che ventimila scudi di dote possano meritare un abito con un poco
d'oro.
Giacinto: Via, vi sarà dell'oro.
Doralice: Mandatemi la cameriera, che le voglio ordinare una cuffia.
Giacinto: Sentite: anche con Colombina siate tollerante. È cameriera antica di
casa; mia madre le vuol bene, e può mettere qualche buona parola.
Doralice: Che! Dovrò aver soggezione anche della cameriera? Mandatela, mandatela,
che ne ho bisogno.
Giacinto: La mando subito. (Sto fresco. Madre collerica, moglie puntigliosa: due
venti contrari. Voglia il cielo che non facciano naufragare la casa) (da sé, parte).
Scena ottava
Doralice e poi Colombina.
Doralice: Oh, in quanto a questo poi non mi voglio lasciar soverchiare. La mia
ragione la voglio dir certamente. Mio marito si maraviglia, perché dico l'animo mio senza
alterarmi. Mi pare di far meglio cosí. Chi va pazzamente in collera, pregiudica alla sua
salute e fa rider i suoi nemici.
Colombina: Il signor contino mi ha detto che la padrona mi domanda, ma non la vedo.
È forse andata via?
Doralice: Io sono la padrona che ti domanda.
Colombina: Oh! mi perdoni, la mia padrona è l'illustrissima signora contessa.
Doralice: Io in questa casa non son padrona ?
Colombina: Io servo la signora contessa.
Doralice: Per domani mi farai una cuffia.
Colombina: Davvero che non posso servirla.
Doralice: Perché ?
Colombina: Perché ho da fare per la padrona.
Doralice: Padrona sono anch'io, e voglio essere servita, o ti farò cacciar via.
Colombina: Sono dieci anni ch'io sono in questa casa.
Doralice: E che vuoi dire per questo?
Colombina: Voglio dire che forse non le riuscirà di farmi andar via.
Doralice: Villana! Malcreata!
Colombina: Io villana? La non mi conosce bene, signora.
Doralice: Oh, chi è vossignoria? Me lo dica, acciò non manchi al mio debito.
Colombina: Mio padre vendeva nastri e spille per le strade. Siamo tutti mercanti.
Doralice: Siamo tutti mercanti! Non vi è differenza da uno che va per le strade, a
un mercante di piazza?
Colombina: La differenza consiste in un poco piú di danari.
Doralice: Sai, Colombina, che sei una bella impertinente?
Colombina: A me, signora, impertinente? A me che sono dieci anni che sono in questa
casa? Che sono piú padrona della padrona medesima?
Doralice: A te, si, a te; e se non mi porterai rispetto, vedrai quello che farò.
Colombina: Che cosa farete?
Doralice: Ti darò uno schiaffo (glielo dà, e parte).
Scena nona
Colombina sola.
Colombina: A me uno schiaffo? Me lo dà, e poi dice: te lo darò? Così a sangue
freddo, senza scaldarsi? Non me l'aspettavo mai. Ma giuro al cielo, mi vendicherò. La
padrona lo saprà. Toccherà a lei vendicarmi. Sono dieci anni che sto in casa sua. Senza
di me non può fare; e non mi vorrà perdere assolutamente. Maladetta! uno schiaffo? Se me
l'avesse dato la padrona, che è nobile, lo soffrirei. Ma da una mercante non lo posso
soffrire (parte).
Scena decima
Camera della contessa Isabella La contessa Isabella, poi il conte
Giacinto.
Isabella: Questa signora nuora è un'acqua morta, che a poco a poco si va
dilatando; e s'io non vi riparo per tempo, ci affogherà quanti siamo. Ho osservato che
ella tratta volentieri con tutti quelli che praticano in questa casa; e mi pare che vada
acquistando credito. Non è già che sia bella, ma la gioventú, la novità, l'opinione,
può tirar gente dal suo partito. In casa mia non voglio essere soverchiata. Non sono
ancora in età da cedere l'armi al tempio.
Giacinto: Riverisco la signora madre.
Isabella: Buon giorno.
Giacinto: Che avete, signora, che mi parete turbata?
Isabella: Povero figlio! tu sei sagrificato.
Giacinto: Io sagrificato ? Perché ?
Isabella: Tuo padre, tuo padre ti ha assassinato.
Giacinto: Mio padre? Che cosa mi ha fatto?
Isabella: Ti ha dato una moglie che non è degna di te.
Giacinto: In quanto a mia moglie, ne sono contentissimo; l'amo teneramente, e
ringrazio il cielo d'averla avuta.
Isabella: E la tua nobiltà?
Giacinto: La nostra nobiltà era in pericolo, senza la dote di Doralice.
Isabella: Si poteva trovare una ricca che fosse nobile.
Giacinto: Era difficile, nel disordine in cui si ritrovava la nostra casa.
Isabella: Con questi sentimenti non mi comparir piú davanti.
Giacinto: Signora, sono venuto da voi per un affar di rilievo.
Isabella: Come sarebbe a dire?
Giacinto: A una sposa, che ha portato in casa ventimila scudi, mi pare che sia
giusto di far un abito.
Isabella: Per la comparsa che deve fare, è vestita anche troppo bene.
Giacinto: Se non le si fa un abito buono, io non la posso condurre in veruna
conversazione.
Isabella: Che? La vorresti condurre nelle conversazioni? Un bell'onore che faresti
alla nostra famiglia. Se le faranno un affronto, la nostra casa vi andrà di mezzo.
Giacinto: Dovrà dunque star sempre in casa?
Isabella: Signor sì, signor sì, sempre in casa. Ritirata, senza farsi vedere da
chi che sia.
Giacinto: Ma tutti sanno che Doralice è mia moglie; gli amici verranno a
visitarla; alcune dame me l'hanno fatto sapere.
Isabella: Chi vuol venire in questa casa, ha da mandare a me l'ambasciata. Io sono
la padrona; e chiunque ardirà venirci senza la mia intelligenza, ritroverà la porta
serrata.
Giacinto: Via, si farà tutto quello che voi volete. Ma anche ella, poverina,
bisogna contentarla. Bisogna farle un abito.
Isabella: Per contentar lei, niente affatto; ma per te, perché ti voglio bene, lo
faremo. Di che cosa lo vuoi? Di baracane o di cambellotto ?
Giacinto: Diavolo! vi pare che questa sia roba da dama?
Isabella: Colei non è nata dama.
Giacinto: È mia moglie.
Isabella: Ebbene, di che vorresti che si facesse?
Giacinto: D'un drappo moderno con oro o con argento.
Isabella: Sei pazzo? Non si gettano i denari in questa maniera.
Giacinto: Ma finalmente mi pare di poterlo pretendere.
Isabella: Che cos'è questo pretendere? Questa parola non l'hai piú detta a tua
madre. Ecco i frutti delle belle lezioni della tua sposa. Fraschetta, fraschetta!
Giacinto: Ma che ha da fare quella povera donna in questa casa?
Isabella: Mangiare, bere, lavorare e allevare i figliuoli, quando ne avrà.
Giacinto: Cosí non può durare.
Isabella: O cosí, o peggio.
Giacinto: Signora madre, un poco piú di carità.
Isabella: Signor figliuolo, un poco piú di giudizio.
Giacinto: Fatele quest'abito, se mi volete bene.
Isabella: Prendi, ecco sei zecchini, pensa tu a farglielo.
Giacinto: Sei zecchini? Fatelo alla vostra serva (parte).
Scena undicesima
La contessa Isabella, poi il Dottore.
Isabella: È diventato un bell'umorino costui. Causa quell'impertinente di
Doralice.
Dottore: Con permissione; posso venire? (di dentro).
Isabella: Venite, dottore, venite.
Dottore: Faccio riverenza alla signora contessa.
Isabella: E qualche tempo che non vi lasciate vedere.
Dottore: Ho avuto in questi giorni di molti affari.
Isabella: Eh! le amicizie vecchie si raffreddano un poco per volta.
Dottore: Oh signora, mi perdoni. La non può dire cosi. Dal primo giorno che ella
mi ha onorato della sua buona grazia, non può dire che io abbia mancato di servirla in
tutto quello che ho potuto.
Isabella: Datemi quella sedia.
Dottore: Subito la servo (le porta una sedia).
Isabella: Avete tabacco? (sedendo).
Dottore: Per dirla, mi sono scordato della tabacchiera.
Isabella: Guardate in quel cassettino, che vi è una tabacchiera; portatela qui.
Dottore: Sí signora (va a prendere la tabacchiera).
Isabella: (Mi piace il dottore, perché conosce i suoi doveri; non fa come quelli
che, quando hanno un poco di confidenza, se ne prendono di soverchio) (da sé).
Dottore: Eccola (presenta la tabacchiera alla Contessa).
Isabella: Sentite questo tabacco (gli offerisce il tabacco).
Dottore: Buono per verità.
Isabella: Tenete, ve lo dono.
Dottore: Anche la tabacchiera?
Isabella: Si, anche la tabacchiera.
Dottore: Oh, le sono bene obbligato.
Isabella: Oggi starete a pranzo con me.
Dottore: Mi fa troppo onore. Ho piacere, cosi vedrò la signora Doralice, che non
ho mai veduta.
Isabella: Non mi parlate di colei.
Dottore: Perché, signora? E pure la moglie del signor contino di lei figliuolo.
Isabella: Se l'ha presa, che se la goda.
Dottore: È vero che la non è nobile; ma gli ha portato una bella dote.
Isabella: Oh! anche voi mi rompete il capo con questa dote.
Dottore: La non vada in collera, non parlo più.
Isabella: Che cos'ha portato?
Dottore: Oh! che cos'ha portato? Quattro stracci.
Isabella: Non era degna di venire in questa casa.
Dottore: Dice bene, la non era degna. Io mi sono maravigliato, quando ho sentito
concludere un tal matrimonio.
Isabella: Mi vengono i rossori sul viso.
Dottore: La compatisco. Non lo doveva mai accordare.
Isabella: Ma voi pure avete consigliato a farlo.
Dottore: Io? non me ne ricordo.
Isabella: M'avete detto che la nostra casa era in disordine, e che bisognava
pensare a rimediarvi.
Dottore: Può essere ch'io l'abbia detto.
Isabella: Mi avete fatto vedere che i ventimila scudi di dote potevano rimetterla
in piedi.
Dottore: L'avrò detto, e infatti il signor conte ha ricuperato tutti i suoi beni,
ed io ho fatto l'istrumento.
Isabella: L'entrate dunque sono libere?
Dottore: Liberissime
Isabella: Non si penerà piú di giorno in giorno. Non avremo piú occasione
d'incomodare gli amici. Anche voi, caro dottore, mi avete piú volte favorita. Non me ne
scordo.
Dottore: Non parliamo di questo. Dove posso, la mi comandi.
Scena dodicesima
Colombina e detti.
Colombina: Signora padrona, è qui il signor cavaliere del Bosco (mesta, quasi
piangendo).
Isabella: Andate, andate, che viene il signor cavaliere (al Dottore).
Dottore: Perdoni, non ha detto ch'io resti?...
Isabella: Chi v'ha insegnato la creanza? Quando vi dico che andiate, dovete andare.
Dottore: Pazienza. Anderò. Le son servitore (partendo).
Isabella: Ehi! A pranzo vi aspetto.
Dottore: Ma se ella va in collera cosí presto...
Isabella: Manco ciarle. Andate, e venite a pranzo.
Dottore: (Sono tanti anni che pratico in questa casa, e non ho ancora imparato a
conoscere il suo temperamento) (da sé, parte).
Scena tredicesima
La contessa Isabella e Colombina.
Isabella: È il signor cavaliere?
Colombina: Signora sí (mesta come sopra).
Isabella: Da Doralice vi è stato nessuno?
Colombina: Signora no (come sopra).
Isabella: Che hai che piangi?
Colombina: La signora Doralice mi ha dato uno schiaffo.
Isabella: Come? Che dici? Colei ti ha dato uno schiaffo? Uno schiaffo alla mia
cameriera? Perché? Contami: com'è stato?
Colombina: Perché mi diceva che ella è la padrona, che vussustrissima non conta
piú niente, che è vecchia. Io mi sono riscaldata per difendere la mia padrona, ed ella
mi ha dato uno schiaffo (piangendo).
Isabella: Ah indegna, petulante, sfacciata. Me la pagherà, me la pagherà. Giuro
al cielo, me la pagherà.
Scena quattordicesima
Il Cavaliere Del Bosco e dette.
Cavaliere: Permette la signora contessa?
Isabella: Cavaliere, siete venuto a tempo. Ho bisogno
Cavaliere: Comandate, signora. Disponete di me.
Isabella: Se mi siete veramente amico, ora è tempo di dimostrarlo.
Cavaliere: Farò tutto per obbedirvi.
Isabella: Doralice, che per mia disgrazia è sposa di mio figliuolo, mi ha
gravemente offesa; pretendo le mie soddisfazioni, e le voglio. Se lo dico a mio marito,
egli è uno stolido che non sa altro che di medaglie. Se lo dico a mio figlio, è
innamorato della moglie e non mi abbaderà. Voi siete cavaliere, voi siete il mio più
confidente,... tocca a voi sostenere le mie ragioni.
Cavaliere: In che consiste l'offesa?
Colombina: Ha dato uno schiaffo a me.
Cavaliere: Non vi è altro male?
Isabella: Vi par poco dare uno schiaffo alla mia cameriera?
Colombina: Sono dieci anni ch'io servo in questa casa.
Cavaliere: Non mi pare motivo per accendere un sí gran fuoco.
Isabella: Ma bisogna sapere perché l'ha fatto.
Colombina: Oh! qui sta il punto.
Cavaliere: Via, perché l'ha fatto?
Isabella: Tremo solamente in pensarlo. Non posso dirlo. Colombina, diglielo tu.
Colombina: Ha detto che la mia padrona non comanda piú.
Isabella: Che vi pare? (al Cavaliere).
Colombina: Ha detto che è vecchia...
Isabella: Zitto, bugiarda; non ha detto cosí. Pretende voler ella comandare.
Pretende essere a me preferita, e perché la mia cameriera tiene da me, le dà uno
schiaffo?
Cavaliere: Signora contessa, non facciamo tanto rumore.
Isabella: Come? dovrò dissimulare un'offesa di questa sorta? E voi me lo
consigliereste? Andate, andate, che siete un mal cavaliere; e se non volete voi
abbracciare l'impegno, ritroverò chi avrà piú spirito, chi avrà piú convenienza di
voi.
Cavaliere: (Bisogna secondarla) (da sé). Cara contessa, non andate in
collera; ho detto cosí per acquietarvi un poco; per altro l'offesa è gravissima, e
merita risarcimento.
Isabella: Dare uno schiaffo alla mia cameriera?
Cavaliere: È una temerità intollerabile.
Isabella: Dir ch'io non comando piú?
Cavaliere: È una petulanza. E poi dire che siete vecchia?
Isabella: Questo vi dico che non l'ha detto; non lo poteva dire, e non l'ha detto.
Colombina: L'ha detto, in coscienza mia.
Isabella: Va via di qua.
Colombina: E ha detto di piú, che avete da stare accanto al fuoco.
Isabella: Va via di qua; sei una bugiarda.
Colombina: Se non è vero, mi caschi il naso.
Isabella: Va via, o ti bastono.
Colombina: Se non l'ha detto, possa crepare (parte).
Scena quindicesima
La contessa Isabella e il Cavaliere Del Bosco.
Isabella: Non le credete: Colombina dice delle bugie.
Cavaliere: Dunque non sarà vero nemmeno dello schiaffo.
Isabella: Oh! lo schiaffo poi gliel'ha dato.
Cavaliere: Lo sapete di certo ?
Isabella: Lo so di certo. E qui bisogna pensare a farmi avere le mie soddisfazioni.
Cavaliere: Ci penserò. Studierò l'articolo, e vedrò qual compenso si può
trovare, perché siate soddisfatta.
Isabella: Ricordatevi ch'io son dama, ed ella no.
Cavaliere: Benissimo.
Isabella: Ch'io sono la padrona di casa.
Cavaliere: Dite bene. E che anche per ragione d'età vi si deve maggior rispetto.
Isabella: Come c'entra l'età? Per questo capo non pretendo ragione alcuna.
Cavaliere: Voglio dire...
Isabella: M'avete inteso. Ditelo al conte mio marito, ditelo al contino mio figlio,
ch'io voglio le mie soddisfazioni, altrimenti so io quel che farò. Cavaliere, vi attendo
colla risposta (parte).
Cavaliere: Poco mi costa secondar l'umore di questa pazza, tanto piú che con
questa occasione spero introdurmi dalla signora Doralice, la quale è piú giovine ed è
piú bella (parte).
Scena sedicesima
Salotto nell'appartamento del conte Anselmo, Brighella ed Arlecchino
vestito all'armena, con barba finta.
Brighella: Cussì, come ve diseva, el me padron l'è impazzido per le antichità;
el tol tutto, el crede tutto; el butta via i so denari in cosse ridicole, in cosse che no
val niente.
Arlecchino: Cossa avi intenzion? Che el me toga mi per un'antigaia?
Brighella: V'ho vestido con sti abiti, e v'ho fatto metter sta barba, per condurve
dal me padron, dargh da intender che sí un antiquario, e farghe comprar tutte quelle
strazzaríe che v'ho dà. E po i denari li spartirem metà per uno.
Arlecchino: Ma se el sior cont me scovre, e inveze de denari el me favorisce delle
bastonade, le spartiremo metà per un?
Brighella: Nol v'ha mai visto; nol ve conosce. E po, costa barba e costi abiti
parí un armeno d'Armenia.
Arlecchino: Ma se d'Armenia no so parlar!
Brighella: Ghe vol tanto a finzer de esser armeno? Gnanca lu nol l'intende quel
linguagio; basta terminar le parole in ira, in ara, e el ve crede un armeno italianà.
Arlecchino: Volira, vedira, comprara; dighia ben?
Brighella: Benissimo. Arecordev i nomi che v'ho dito per vendergh le rarità, e
faremo polito.
Arlecchino: Un gran ben che ghe volí al voster padron!
Brighella: Ve dirò. Ho procurà de illuminarlo, de disingannarlo, ma nol vol. El
butta via i so denari con questo e con quello; za che la ca' se brusa, me voi scaldar anca
mi.
Arlecchino: Bravissim. Tutt sta che me recorda tutto.
Brighella: Vardè no fallar... Oh! eccolo che el vien.
Scena diciassettesima
Il conte Anselmo e detti
Brighella: Signor padron, l'è qua l'armeno dalle antigaggie.
Anselmo: Oh bravo! Ha delle cose buone?
Brighella: Cose belle! cose stupende!
Anselmo: Amico, vi saluto (ad Arlecchino).
Arlecchino: Saludara, patrugna cara. (Dighia ben?) (a Brighella).
Brighella: Pulito.
Anselmo: Che avete di bello da mostrarmi?
Arlecchino: (fa vedere un lume da olio, ad uso di cucina) Questo stara...
stara. (cossa stara?) (piano a Brighella).
Brighella: (Lume eterno) (piano ad Arlecchino).
Arlecchino: Stara luma lanterna, trovata in palamida de getto, in sepolcro
Bartolomeo.
Anselmo: Cosa diavolo dice? Io non l'intendo.
Brighella: L'aspetta; mi intendo un pochetto l'armeno. Aracapi, nicoscopi,
ramarcatà (finge parlare armeno).
Arlecchino: La racaracà, taratapatà, baracacà, curocú, caracà (finge
risponder armeno a Brighella).
Brighella: Vedela? Ho inteso tutto. El dis che l'è un lume eterno trovà nelle
piramidi d'Egitto, nel sepolcro de Tolomeo.
Arlecchino: Stara, stara.
Anselmo: Ho inteso, ho inteso. (Oh che cosa rara! Se lo posso avere, non mi scappa
dalle mani) (da sé). Quanto ne volete?
Arlecchino: Vinta zecchina.
Anselmo: Oh! è troppo. Se me lo deste per dieci, ancor ancora lo prenderei.
Arlecchino: No podira, no podira.
Anselmo: Finalmente... non è una gran rarità. (Oh! lo voglio assolutamente) (da
sé).
Brighella: Volela che l'aggiusta mi?
Anselmo: Si, vedi se lo desse con dodici (gli fa cenno con le mani che gli
offerisca dodici zecchini).
Brighella: Lamacà, volenich, calabà.
Arlecchino: Salamin, salamun, salamà.
Brighella: Curich, maradas, chiribara.
Arlecchino: Sarich, micon, tiribio.
Anselmo: (Che linguaggio curioso! E Brighella l'intende!) (da sé).
Brighella: Sior padron, l'è aggiustada.
Anselmo: Sí, quanto?
Brighella: Quattordese zecchini
Anselmo: Non vi è male. Son contento. Galantuomo, quattordici zecchini?
Arlecchino: Stara, stara.
Anselmo: Sí, stara, stara. Ecco i vostri denari (glieli conta).
Arlecchino: Obbligara, obbligara.
Anselmo: E se avera altra... altra... rara, portara.
Arlecchino: Sí, portara, vegnira, cuccara.
Anselmo: Che cosa vuol dir cuccara? (a Brighella).
Brighella: Vuol dir distinguer da un altro.
Anselmo: Benissimo: se cuccara mi, mi cuccara ti (ad Arlecchino).
Arlecchino: Mi cuccara ti, ma ti no cuccara mi.
Anselmo: Sí, promettera.
Brighella: Andara, andara.
Arlecchino: Saludara. Patrugna (parte).
Brighella: Aspettara, aspettara (vuol seguirlo).
Anselmo: Senti (a Brighella).
Brighella: La lassa che lo compagna... (in atto di andarsene).
Anselmo: Ma senti (lo vuol trattenere).
Brighella: Vegnira, vegnira. Pol esser che el gh'abbia qualcossa altro. (Maladetto!
I mi sette zecchini) (parte correndo).
Scena diciottesima
Il conte Anselmo, poi Pantalone.
Anselmo: Gran fortuna è stata la mia! Questa sorta d'antichità non si trova cosí
facilmente. Gran Brighella per trovare i mercanti d'antichità! Questo lume eterno l'ho
tanto desiderato, e poi trovarlo sí raro! Di quei d'Egitto? Quello di Tolomeo? Voglio
farlo legare in oro, come una gemma.
Pantalone: Con grazia, se pol vegnir? (di dentro).
Anselmo: È il signor Pantalone? Venga, venga.
Pantalone: Servitor umilissimo, sior conte.
Anselmo: Buon giorno, il mio caro amico. Voi che siete mercante, uomo di mondo, e
intendente di cose rare, stimatemi questa bella antichità.
Pantalone: La me ha ben in concetto de un bravo mercante a farme stimar una luse da
oggio!
Anselmo: Povero signor Pantalone, non sapete niente. Questo è il lume eterno del
sepolcro di Tolomeo. (Pantalone ride). Sí, di Tolomeo, ritrovato in una delle
piramidi d'Egitto. (Pantalone ride). Ridete, perché non ve n'intendete.
Pantalone: Benissimo, mi son ignorante, ella xe vertuoso, e non voi catar bega su
questo. Ghe digo ben che tutta la città se fa maraveggia, che un cavalier della so sorte
perda el so tempo, e sacrifica i so bezzi, in sta sorte de minchionerie.
Anselmo: L'invidia fa parlare i malevoli; e quei stessi che mi condannano in
pubblico, mi applaudiscono in privato.
Pantalone: No gh'è nissun che gh'abbia invidia della so galleria, che consiste in
t'un capital de strazze. No gh'è nissun che ghe pensa un bezzo de vederlo un'altra volta
andar in malora, ma mi che gh'ho in sta casa mia fia, mi che gh'ho dà el mio sangue, non
posso far de manco da no sentir con della passion le pasquinade che se fa della so mala
condotta.
Anselmo: Ognuno a questo mondo ha qualche divertimento. Chi gioca, chi va
all'osteria; io ho il divertimento delle antichità.
Pantalone: Me dispiase de mia fia, daresto no ghe penso un figo.
Anselmo: Vostra figlia sta bene, e non le manca niente.
Pantalone: No ghe manca gnente: ma no la gh'ha gnanca un strazzo de abito d'andar
fora de casa.
Anselmo: Sentite, amico; io in queste cose non me ne voglio impicciare.
Pantalone: Ma qua bisogna trovarghe remedio assolutamente.
Anselmo: Andate da mia moglie, parlate con lei, intendetevi con lei, non mi rompete
il capo.
Pantalone: E se no la ghe remedierà ella, ghe remedierò mi.
Anselmo: Lasciatemi in pace; ho da badare alle mie medaglie, al mio museo, al mio
museo.
Pantalone: Perché mia fia la xe fia de un galantomo, e la pol star al pari de chi
se sia.
Anselmo: Io non so che cosa vi dite. So che questo lume eterno è una gioja. Signor
Pantalone, vi riverisco (parte).
Scena diciannovesima
Pantalone, poi Doralice.
Pantalone: Cussí el me ascolta? A so tempo se parleremo. Ma vien mia fia; bisogna
regolarse con prudenza.
Doralice: Caro signor padre, venite molto poco a vedermi.
Pantalone: Cara fia; savè che gh'ho i mi interessi. E po no vegno tanto spesso,
per no sentir pettegolezzi.
Doralice: Quello che vi ho scritto in quel biglietto, è purtroppo la verità.
Pantalone: Mo za, vualtre donne disè sempre la verità.
Doralice: Dopo ch'io sono in questa casa, non ho avuto un'ora di bene.
Pantalone: Vostro mario come ve trattelo?
Doralice: Di lui non mi posso dolere. È buono, mi vuol bene e non mi dà mai un
disgusto.
Pantalone: Cossa voleu de più? No ve basta?
Doralice: Mia suocera non mi può vedere.
Pantalone: Andè colle bone, procurè de segondarla, dissimulè qualcossa; fe finta
de no saver; fe finta de no sentir. Col tempo anca ella la ve vorrà ben.
Doralice: In casa tutti si vestono, tutti spendono, tutti godono, ed io niente.
Pantalone: Abbiè pazienzia; vegnirà el zorno che starè ben anca vu. Sè ancora
novella in casa; gnancora no podè comandar.
Doralice: Sino la cameriera mi maltratta, e non mi vuol obbedire.
Pantalone: La xe cameriera vecchia de casa.
Doralice: Però le ho dato uno schiaffo.
Pantalone: Gh'avè dà un schiaffo?
Doralice: E come che gliel'ho dato! E buono!
Pantalone: E me lo contè a mi? e me lo disè co sta bella disinvoltura? Quattro
zorni che sè in sta casa, scomenzè subito a menar le man, e po pretendè che i ve voggia
ben, che i ve tratta ben e che i ve sodisfa? Me maraveggio dei fatti vostri; se saveva sta
cossa, no ve vegniva gnanca a trovar. Se el fumo della nobiltà che avè acquistà in sta
casa, ve va alla testa, considerè un poco meggio quel che sè, quel che sè stada, e quel
che poderessi esser, se mi no ve avesse volesto ben. Sè muggier de un conte, sè
deventada contessa, ma el titolo no basta per farve portar respetto, quando no ve
acquistè l'amor della zente colla dolcezza e colla umiltà. Sè stada una povera putta
perché, co sè nassua, no gh'aveva i capitali che gh'ho in ancuo, e col tempo e
coll'industria i ho multiplicai più per vu, che per mi. Considerè che poderessi esser
ancora una miserabile, se vostro pare no avesse fatto quel che l'ha fatto per vu.
Ringraziè el cielo del ben che gh'avè. Portè respetto ai vostri maggiori; siè umile,
siè paziente, siè bona, e allora sarè nobile, sarè ricca, sarè respettada.
Doralice: Signor padre, vi ringrazio dell'amorosa correzione che mi fate.
Pantalone: Vostra madonna sarà in tutte le furie, e con rason.
Doralice: Non so ancora se lo abbia saputo.
Pantalone: Procurè che no la lo sappia. E se mai la lo avesse savesto, recordeve
de far el vostro debito.
Doralice: Qual è questo mio debito?
Pantalone: Andè da vostra madonna, e domandeghe scusa.
Doralice: Domandarle scusa poi non mi par cosa da mia pari.
Pantalone: No la ve par cossa da par vostro? Cossa seu vu? Chi seu? Seu qualche
principessa? Povera sporca! Via, via; sè matta la vostra parte.
Doralice: Non andate in collera. Le domanderò scusa. Ma voglio assolutamente che
mi faccia quest'abito.
Pantalone: Adesso, dopo la strambaria che avè fatto, no xe tempo da domandarghelo.
Doralice: Dunque starò senza? Dunque non anderò in nessun luogo? Sia maladetto
quando sono venuta in questa casa.
Pantalone: Via, vipera, via, subito maledir.
Doralice: Ma se mi veggio trattata peggio di una serva.
Pantalone: Orsù, vegnì qua; per sta volta voi remediar mi sti desordini. Tolè
sti cinquanta zecchini; feve el vostro bisogno; ma recordeve ben che no senta mai più
rechiami dei fatti vostri.
Doralice: Vi ringrazio, signor padre, vi ringrazio. Vi assicuro che non avrete a
dolervi di me. Un'altra cosa mi avreste a regalare, e poi non vi disturbo mai più.
Pantalone: Cossa vorressi, via, cossa vorressi?
Doralice: Quell'orologio. Voi ne avete altri due.
Pantalone: Voi contentarve anca in questo. Tiolè. (No gh'ho altro che sta putta) (da
sé). Ma ve torno a dir, abbiè giudizio e feve voler ben (le dà il suo orologio
d'oro).
Doralice: Non dubitate; sentirete come mi conterrò.
Pantalone: Via, cara fia, dame un puoco de consolazion. No gh'ho altri a sto mondo
che ti. Dopo la mia morte, ti sarà parona de tutto. Tutte le mie strussie, tutte le mie
fadighe le ho fatte per ti. Co te vedo, me consolo. Co so che ti sta ben, vegno tanto
fatto, e co sento criori, pettegolezzi, me casca el cuor, me vien la morte, pianzo co fa
un putello (piangendo parte).
Scena ventesima
Doralice, poi Brighella.
Doralice: Povero padre, è molto buono. Non somiglia a queste bestie, che sono qui
in casa. Se non fosse per mio marito, non ci starei un momento.
Brighella: Signora, gh'è qua un cavalier che ghe vorave far visita.
Doralice: Un cavaliere? Chi è?
Brighella: II signor cavalier del Bosco.
Doralice: Mi dispiace che sono cosí in confidenza. Venga, non so che dire. Ehi,
sentite.
Brighella: La comandi.
Doralice: Andate subito da un mercante, e ditegli che mi porti tre o quattro pezze
di drappo con oro o argento, per farmi un abito.
Brighella: La sarà servida. Ma la perdona, lo salo el padron?
Doralice: Che impertinenza! Fate quello che vi ordino, e non pensate altro.
Brighella: (Eh, la se farà, la se farà) (da sé, parte).
Scena ventunesima
Doralice, poi il Cavaliere Del Bosco.
Doralice: In questa casa hanno molto avvezzata male la servitú; ma io col tempo vi
porrò la riforma. Oh, non ha d'andare cosí. Un poco colle buone, un poco colle cattive,
ha da venire il tempo che ho da essere io la padrona.
Cavaliere: Madama, vi sono schiavo.
Doralice: Vi son serva.
Cavaliere: Perdonate se mi son preso l'ardire di venirvi a fare una visita.
Doralice: È molto che il signor cavaliere si sia degnato di venire da me.
Favorisce tutti i giorni questa casa, ma la mia camera mai.
Cavaliere: Non ardivo di farlo, per non darvi incomodo.
Doralice: Dite, per non dispiacere alla signora contessa Isabella.
Cavaliere: A proposito, madama, avrei da discorrervi qualche poco di un affare che
interessa tutte due egualmente.
Doralice: V'ascolterò volentieri. Elà, da sedere (viene un servitore che porta
le sedie).
Cavaliere: So che voi, o signora, siete piena di bontà, onde spero riceverete in
buon grado un ufficio amichevole ch'io sono per farvi.
Doralice: Quando saprò di che, vi risponderò.
Cavaliere: Ditemi, signora contessa, cosa avete fatto voi alla cameriera di vostra
suocera?
Doralice: Le ho dato uno schiaffo. E per questo? Se è cameriera sua, è cameriera
anche mia. Voglio esser servita, e non mi si ha da perdere il rispetto; e se questa volta
le ho dato uno schiaffo, un'altra volta le romperò la testa.
Cavaliere: Signora, io credo che voi scherziate.
Doralice: Perché lo credete?
Cavaliere: Perché mi dite queste cose con placidezza, e si vede che non siete in
collera.
Doralice: Questo è il mio naturale. Io vado in collera sempre cosí.
Cavaliere: La signora contessa Isabella si chiama offesa.
Doralice: Mi dispiace.
Cavaliere: E sarebbe bene vedere di aggiustar la cosa, prima che gli animi
s'intorbidassero soverchiamente.
Doralice: Io non ci penso più.
Cavaliere: Lo credo che non ci penserete più; ma ci pensa la signora suocera, che
è restata offesa.
Doralice: E cosí, che cosa pretenderebbe?
Cavaliere: Troveremo il modo dell'aggiustamento.
Doralice: Il modo è facile, ve l'insegnerò io. Cacciar di casa la cameriera.
Cavaliere: In questa maniera la parte offesa pagherebbe la pena.
Doralice: Orsú, signor cavaliere, mutiamo discorso.
Cavaliere: Signora mia, quando il discorso vi offende, lo tralascio subito. (Non la
vo' disgustare) (da sé).
Doralice: Mi pareva impossibile che foste venuto a visitarmi per farmi una finezza.
Cavaliere: Perché, signora, perché?
Doralice: La signora suocera mi tien lontana dalle conversazioni; dubito sia
perché tema ch'io le usurpi gli adoratori.
Cavaliere: (è furba quanto il diavolo) (da sé).
Doralice: Ma non dubiti, non dubiti. Io prima non sono né bella, né avvenente; e
poi abbado a mio marito, e non altro.
Cavaliere: Sdegnereste dunque l'offerta d'un cavaliere, che senza offesa della
vostra modestia aspirasse a servirvi?
Doralice: E chi volete che si perda con me?
Cavaliere: Io mi chiamerei fortunato, se vi compiaceste ricevermi per vostro servo.
Doralice: Signor cavaliere, siete impegnato colla contessa Isabella.
Cavaliere: Io sono amico di casa; ma per essa non ho alcuna parzialità. Ella ha il
suo dottore, quello è il suo cicisbeo antico.
Doralice: È antica ancor ella.
Cavaliere: Sí, ma non vuol esserlo.
Doralice: Non si vergogna mettersi colla gioventú. Ella fa le grazie con tutti,
vuol saper di tutto, vuol entrare in tutto Mi fa una rabbia che non la posso soffrire.
Cavaliere: È avvezzata cosí.
Doralice: Bene, ma è passato il suo tempo: adesso deve cedere il luogo.
Cavaliere: Deve cedere il luogo a voi.
Doralice: Mi parrebbe di sí.
Cavaliere: Eppure ancora ha i suoi grilli in capo.
Doralice: Causa quel pazzo di suo marito.
Cavaliere: Signora, direte ch'io sono un temerario a supplicarvi di una grazia, il
primo giorno che ho l'onore di offerirvi la mia servitú.
Doralice: Comandate; dove posso, vi servirò.
Cavaliere: Vorrei che mi faceste comparir bene colla signora contessa Isabella.
Doralice: Se lo dico, avete paura di lei.
Cavaliere: Ma se possiamo coltivare la nostra amicizia con pace e quiete, non è
meglio?
Doralice: Con quella bestiaccia sarà impossibile.
Cavaliere: (Vorrei vedere se potessi essere amico di tutte due) (da sé).
Doralice: Lo sapete pure: mia suocera è una pazza.
Cavaliere: Sí, è vero, è una pazza.
Doralice: Come pensereste di accomodare questa gran cosa? Non credo mai vi verrà
in capo di consigliarmi a cedere.
Cavaliere: Anzi avete a star sulle vostre.
Doralice: Scusa non mi pare che tocchi a me domandarla.
Cavaliere: No certamente, non tocca a voi.
Doralice: (E mio padre mi diceva che toccava a me) (da sé).
Cavaliere: (Sono imbrogliato piú che mai) (da sé).
Doralice: La servitú mi ha da portar rispetto.
Cavaliere: Senz'altro.
Doralice: E a chi mi perde il rispetto, non devo perdonare.
Cavaliere: No certamente.
Doralice: (Oh guardate! Mio padre che mi vorrebbe umile!) (da sé).
Cavaliere: Ma pure qualche maniera bisogna ritrovare per accomodare questa
differenza.
Doralice: Purché io non resti pregiudicata, qualche cosa farò.
Cavaliere: Faremo cosí. Procurerò che vi troviate a caso in un medesimo luogo.
Dirò io qualche cosa per l'una e per l'altra. Mi basta che voi vi contentiate di salutar
prima la vostra suocera.
Doralice: Salutarla prima? Perché?
Cavaliere: Perché è suocera.
Doralice: Oh! questo non fa il caso.
Cavaliere: Perché è piú vecchia di voi.
Doralice: Oh! perché è più vecchia, lo farò.
Cavaliere: Eccola che viene.
Doralice: Mi si rimescola tutto il sangue, quando la vedo. S'alzano.
Scena ventiduesima
La contessa Isabella e detti.
Isabella: Signor cavaliere, vi siete divertito bene? Me ne rallegro.
Cavaliere: (la tira in disparte) Signora contessa, ho fatto tutto. La
signora Doralice è pentita del suo trascorso. È pronta a domandarvi scusa; ma voi, savia
e prudente, non l'avete a permettere. Vi avete a contentare della sua disposizione; e per
prova di questa basta ch'ella sia la prima a salutarvi.
Isabella: Salutarmi, e non altro? (piano al Cavaliere).
Cavaliere: (Adesso, adesso, aspettate) (da sé). Signora contessina, a voi.
Compiacetemi di fare quello che avete detto (piano a Doralice).
Doralice: Signora, perché siete piú vecchia di me, vi riverisco (alla contessa
Isabella, e parte).
Isabella: Temeraria! Me la pagherai (parte).
Cavaliere: Ecco fatto l'aggiustamento (parte).
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
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Ultimo aggiornamento: 08 novembre 1999