Carlo Goldoni
La Bottega del caffè
PERSONAGGI
Ridolfo: caffettiere
Don Marzio: gentiluomo napolitano
Eugenio: mercante
Flaminio: sotto nome di Conte Leandro
Placida: moglie di Flaminio, in abito di pellegrina
Vittoria: moglie di Eugenio
Lisaura: ballerina
Pandolfo: biscazziere
Trappola: garzone di Ridolfo
Un garzone del parrucchiere, che parla
Altro garzone del caffettiere, che parla
Un cameriere di locanda, che parla
Capitano di birri, che parla
Birri, che non parlano
Altri camerieri di locanda, che non parlano
Altri garzoni della bottega di caffè, che non parlano
La scena stabile rappresenta una piazzetta in Venezia, ovvero una strada alquanto
spaziosa con tre botteghe: quella di mezzo ad uso di caffè; quella alla diritta, di
parrucchiere e barbiere; quella alla sinistra ad uso di giuoco, o sia biscazza; e sopra le
tre botteghe suddette si vedono alcuni stanzini praticabili appartenenti alla bisca, colle
finestre in veduta della strada medesima. Dalla parte del barbiere (con una strada in
mezzo) eVvi la casa della ballerina, e dalla parte della bisca vedesi la locanda con porte
e finestre praticabili.
Atto Primo
Scena prima
Ridolfo, Trappola e altri garzoni
Ridolfo: Animo, figliuoli, portatevi bene; siate lesti e pronti a servire gli
avventori, con civiltà, con proprietà: perché tante volte dipende il credito di una
bottega dalla buona maniera di quei che servono.
Trappola: Caro signor padrone, per dirvi la verità, questo levarsi di buon ora,
non è niente fatto per la mia complessione.
Ridolfo: Eppure bisogna levarsi presto. Bisogna servir tutti. A buon'ora vengono
quelli che hanno da far viaggio, i lavoranti, i barcaruoli, i marinai, tutta gente che si
alza di buon mattino.
Trappola: E' veramente una cosa che fa crepar di ridere vedere anche i facchini
venire a bevere il loro caffè.
Ridolfo: Tutti cercan di fare quello che fanno gli altri. Una volta correva
l'acquavite, adesso è in voga il caffè.
Trappola: E quella signora, dove porto il caffè tutte le mattine, quasi sempre mi
prega che io le compri quattro soldi di legna, e pur vuole bere il suo caffé.
Ridolfo: La gola è un vizio che non finisce mai, ed è quel vizio che cresce
sempre quanto più l'uomo invecchia.
Trappola: Non si vede venir nessuno a bottega; si poteva dormire un'altra oretta.
Ridolfo: Or ora verrà della gente; non è poi tanto di buon'ora. Non vedete? Il
barbiere ha aperto: è in bottega lavorando parrucche. Guarda, anche il botteghino del
giuoco è aperto.
Trappola: Oh! in quanto poi a questa biscazza, è aperta che è un pezzo. Hanno
fatto nottata.
Ridolfo: Buono! A m'esser Pandolfo avrà fruttato bene.
Trappola: A quel cane frutta sempre bene: guadagna nelle carte, guadagna negli
scrocchi, guadagna a far di balla coi baratori. I denari di chi va là dentro sono tutti
suoi.
Ridolfo: Non v'innamoraste mai di questo guadagno, perché la farina del diavolo va
tutta in crusca.
Trappola: Quel povero signor Eugenio! Lo ha precipitato.
Ridolfo: Guardate anche quello, che poco giudizio! Ha moglie una giovane di garbo e
di proposito, e corre dietro a tutte le donne, e poi di più giuoca da disperato.
Trappola: Piccole galanterie della gioventù moderna.
Ridolfo: Giuoca con quel conte Leandro, e li ha persi sicuri.
Trappola: Oh quel signor conte è un bel fior di virtù!
Ridolfo: Oh via, andate a tostare il caffè, per farne una caffettiera di fresco.
Trappola: Vi metto gli avanzi di ieri sera?
Ridolfo: No, fatelo buono.
Trappola: Signor padrone, ho poca memoria. Quant'è che avete aperto bottega?
Ridolfo: Lo sapete pure. Saranno incirca otto mesi.
Trappola: E' tempo di mutar costume.
Ridolfo: Come sarebbe a dire?
Trappola: Quando si apre una bottega nuova, si fa il caffè perfetto. Dopo sei mesi
al più, acqua calda e brodo lungo. (parte)
Ridolfo: E' grazioso costui! spero che farà bene per la mia bottega, perché in
quelle botteghe dove vi è qualcheduno che sappia fare il buffone, tutti corrono.
Scena seconda
Ridolfo e M'esser Pandolfo dalla bottega del giuoco, strofinandosi gli occhi come
assonnato.
Ridolfo: M'esser Pandolfo, volete il caffè?
Pandolfo: Sì, fatemi il piacere.
Ridolfo: Giovanni, date il caffè a m'esser Pandolfo. Sedete, accomodatevi.
Pandolfo: No, no, bisogna che io lo beva presto, e che ritorni al travaglio. (un
giovane porta il caffè a Pandolfo)
Ridolfo: Giuocano ancora in bottega?
Pandolfo: Si lavora a due telai.
Ridolfo: Così presto?
Pandolfo: Giuocano da ieri in qua.
Ridolfo: A che giuoco?
Pandolfo: A un giuoco innocente: prima e seconda.
Ridolfo: E come va?
Pandolfo: Per me va bene.
Ridolfo: Vi siete divertito anche voi a giuocare?
Pandolfo: Sì, anch'io ho tagliato un poco.
Ridolfo: Compatite, amico, io non ho da entrare ne' vostri interessi; ma non istà
bene che il padrone della bottega giuochi anche lui perché se perde, si fa burlare, e se
guadagna, fa sospettare.
Pandolfo: A me basta che non mi burlino; del resto poi, che sospettino quanto
vogliono, non ci penso.
Ridolfo: Caro amico, siamo vicini, e non vorrei, che vi accadessero delle
disgrazie. Sapete che per il vostro giuoco siete stato dell'altre volte in cattura.
Pandolfo: Mi contento di poco. Ho buscati due zecchini, e non ho voluto altro.
Ridolfo: Bravo, pelar la quaglia senza farla gridare. A chi li avete vinti?
Pandolfo: Ad un garzone d'orefice.
Ridolfo: Male, malissimo: così si da mano ai giovani perché rubino ai loro
padroni.
Pandolfo: Eh! non mi venite a moralizzare. Chi è gonzo stia a casa sua. Io tengo
giuoco per chi vuole giocare.
Ridolfo: Tener giuoco stimo il meno; ma voi siete preso di mira per giuocator di
vantaggio, e in questa sorta di cose si fa presto a precipitare.
Pandolfo: Io bricconate non ne fo. So giuocare. Son fortunato e per questo vinco.
Ridolfo: Bravo, tirate innanzi così. Il signor Eugenio ha giuocato questa notte?
Pandolfo: Giuoca anche adesso. Non ha cenato, non ha dormito e ha perso tutti i
denari.
Ridolfo: (Povero giovine!) (da sé) Quanto avrà perduto?
Pandolfo: Cento zecchini in contanti, e ora perde sulla parola.
Ridolfo: Con chi giuoca?
Pandolfo: Col signor Conte.
Ridolfo: Con quello sì fatto?
Pandolfo: Appunto con quello.
Ridolfo: E con chi altri?
Pandolfo: Loro due soli: a testa a testa.
Ridolfo: Poveraccio! Sta fresco davvero!
Pandolfo: Che importa? A me basta che scozzino delle carte assai.
Ridolfo: Non terrei giuoco, se credessi di farmi ricco.
Pandolfo: No? Per quale ragione?
Ridolfo: Mi pare, che un galantuomo non debba soffrire di veder assassinar la
gente.
Pandolfo: Eh, amico, se sarete così delicato di pelle, farete pochi quattrini.
Ridolfo: Non me ne importa niente. Finora sono stato a servire, e ho fatto il mio
debito onoratamente. Mi sono avanzato quattro soldi, e coll'aiuto del mio padrone di
allora, ch'era il padre, come sapete, del signor Eugenio, ho aperta questa bottega, e con
questa voglio vivere onoratamente, e non voglio far torto alla mia professione.
Pandolfo: Oh! anche nella vostra professione vi sono de' bei capi d'opera!
Ridolfo: Ve ne sono in tutte le professioni. Ma da quelli non vanno le persone
ragguardevoli che vengono alla mia bottega.
Pandolfo: Avete anche voi gli stanzini segreti.
Ridolfo: E' vero; ma non si chiude la porta.
Pandolfo: Il caffè non potete negarlo a nessuno.
Ridolfo: Le chicchere non si macchiano.
Pandolfo: Eh via! si serra un occhio.
Ridolfo: Non si serra niente; in questa bottega non vien che gente onorata.
Pandolfo: Sì, sì, siete principiante.
Ridolfo: Che vorreste dire?
(Gente della bottega del giuoco chiama: Carte!)
Pandolfo: La servo. (verso la sua bottega)
Ridolfo: Per carità, levate dal tavolino quel povero signore Eugenio.
Pandolfo: Per me, che perda anche la camicia, non ci penso. (s'incammina verso
la sua bottega)
Ridolfo: Amico, il caffé ho da notarlo?
Pandolfo: Niente, lo giuocheremo a primiera.
Ridolfo: Io non sono un gonzo, amico.
Pandolfo: Via, che serve? Sapete pure che i miei avventori si servono alla vostra
bottega. Mi meraviglio che attendiate a queste piccole cose. (s'incammina)
(Tornano a chiamare)
Pandolfo: Eccomi. (entra nel giuoco)
Ridolfo: Bel mestiere! vivere sulle disgrazie, sulla rovina della gioventù! Per me
non vi sarà mai pericolo che tenga giuoco. Si principia con i giuochetti, e poi si
termina colla bassetta. No, no, caffè, caffè; giacché col caffè si guadagna il
cinquanta per cento, che cosa vogliamo cercar di più?
Scena terza
Don Marzio e Ridolfo
Ridolfo: (Ecco qui, quel che non tace mai, e che sempre vuole aver ragione.) (da
sè)
Don Marzio: Caffè!
Ridolfo: Subito, sarà servita.
Don Marzio: Che vi è di nuovo, Ridolfo?
Ridolfo: Non saprei, signore.
Don Marzio: Non si è ancora veduto nessuno a questa vostra bottega.
Ridolfo: E' per anco buon'ora.
Don Marzio: Buon'ora? Sono sedici ore sonate.
Ridolfo: Oh illustrissimo no, non sono ancora quattordici.
Don Marzio: Eh, via, buffone!
Ridolfo: Le assicuro io che le quattordici ore non sono sonate.
Don Marzio: Eh, via, asino.
Ridolfo: Ella mi strapazza senza ragione.
Don Marzio: Ho contato in questo punto le ore, e vi dico che sono sedici; e poi
guardate il mio orologio (gli mostra l'orologio) ;questo non fallisce mai.
Ridolfo: Bene, se il suo orologio non fallisce, osservi; il suo orologio medesimo
mostra tredici ore e tre quarti.
Don Marzio: Eh, non può essere. (cava l'occhialetto e guarda)
Ridolfo: Che dice?
Don Marzio: Il mio orologio va male. Sono sedici ore. Le ho sentite io.
Ridolfo: Dove l'ha comprato quell'orologio?
Don Marzio: L'ho fatto venir di Londra.
Ridolfo: L'hanno ingannata.
Don Marzio: Mi hanno ingannato? Perché?
Ridolfo: Le hanno mandato un orologio cattivo. (ironicamente)
Don Marzio: Come cattivo? E' uno dei più perfetti, che abbia fatto il Quarè.
Ridolfo: Se fosse buono, non fallirebbe di due ore.
Don Marzio: Questo va sempre bene, non fallisce mai.
Ridolfo: Ma se fa quattordici ore meno un quarto, e dice che sono sedici.
Don Marzio: Il mio orologio va bene.
Ridolfo: Dunque saranno or ora quattordici, come dico io.
Don Marzio: Sei un temerario. Il mio orologio va bene, tu di' male, e guarda ch'io
non ti dia qualche cosa nel capo. (un giovane porta il caffè)
Ridolfo: E' servita del caffè. (con sdegno) (Oh che bestiaccia!) (da sé)
Don Marzio: Si è veduto il signor Eugenio?
Ridolfo: Illustrissimo signor no.
Don Marzio: Sarà in casa a carezzare la moglie. Che uomo effeminato! Sempre
moglie! Non si lascia più vedere, si fa ridicolo. E' un uomo di stucco. Non sa quel che
si faccia. Sempre moglie! sempre moglie! (bevendo il caffè)
Ridolfo: Altro che moglie! E' stato tutta la notte a giuocare qui da m'esser
Pandolfo.
Don Marzio: Se lo dico io. Sempre giuoco. Sempre giuoco! (da la chicchera e
s'alza)
Ridolfo: (Sempre giuoco; sempre moglie; sempre il diavolo, che se lo porti!) (da
sé)
Don Marzio: E' venuto da me l'altro giorno con tutta segretezza a pregarmi che gli
prestassi dieci zecchini sopra un paio di orecchini di sua moglie.
Ridolfo: Vede bene; tutti gli uomini sono soggetti ad avere qualche volta bisogno;
ma non tutti hanno piacere poi che si sappia, e per questo sarà venuto da lei, sicuro che
non dirà niente a nessuno.
Don Marzio: Oh io non parlo. Fo volentieri servizio a tutti, e non me ne vanto. (mostra
gli orecchini in una custodia) Eccoli qui; questi sono gli orecchini di sua moglie.
Gli ho prestato dieci zecchini; vi pare che io sia coperto?
Ridolfo: Io non me ne intendo, ma mi par di sì.
Don Marzio: Avete il vostro garzone?
Ridolfo: Ci sarà.
Don Marzio: Chiamatelo. Ehi, Trappola.
Scena quarta
Trappola dall'interno della bottega, detti.
Trappola: Eccomi.
Don Marzio: Vieni qui. Va dal gioielliere qui vicino, fagli vedere questi
orecchini, che sono della moglie del signor Eugenio, e dimandagli da parte mia, se io sono
al coperto di dieci zecchini, che gli ho prestati.
Trappola: Sarà servita. Dunque questi orecchini sono della moglie del signor
Eugenio?
Don Marzio: Sì, or ora non ha più niente; è morto di fame.
Ridolfo: (Meschino, in che mani è capitato!) (da sé)
Trappola: E al signor Eugenio non importa niente di far sapere i fatti suoi a
tutti?
Don Marzio: Io sono una persona, alla quale si può confidare un segreto.
Trappola: Ed io sono una persona, alla quale non si può confidar niente.
Don Marzio: Perché?
Trappola: Perché ho un vizio, che ridico tutto con facilità.
Don Marzio: Male malissimo; se farai così perderai il credito, e nessuno si
fiderà di te.
Trappola: Ma come ella l'ha detto a me, così io posso dirlo ad un altro.
Don Marzio: Va a vedere se il barbiere è a tempo per farmi la barba.
Trappola: La servo (da sé) (per dieci quattrini vuole bere il caffè, e
vuole un servitore a suo comando.) (entra dal barbiere)
Don Marzio: Ditemi, Ridolfo: che cosa fa quella ballerina qui vicina?
Ridolfo: In verità non so niente.
Don Marzio: Mi è stato detto che il conte Leandro la tiene sotto la sua tutela.
Ridolfo: Con grazia, signore, il caffè vuol bollire. (da sé) (Voglio
badare a' fatti miei.) (entra in bottega)
Scena quinta
Trappola e Don Marzio.
Trappola: Il barbiere ha uno sotto; subito che avrà finito di scorticar quello,
servirà V. S. illustrissima.
Don Marzio: Dimmi: sai niente tu di quella ballerina che sta qui vicino?
Trappola: Della signora Lisaura?
Don Marzio: Sì.
Trappola: So, e non so.
Don Marzio: Raccontami qualche cosa.
Trappola: Se racconterò i fatti degli altri, perderò il credito, e nessun si
fiderà più di me.
Don Marzio: A me lo puoi dire. Sai chi sono, io non parlo. Il conte Leandro la
pratica?
Trappola: Alle sue ore la pratica.
Don Marzio: Che vuol dire alle sue ore?
Trappola: Vuol dire, quando non è in caso di dar soggezione.
Don Marzio: Bravo; ora capisco. E' un amico di buon cuore, che non vuole recarle
pregiudizio.
Trappola: Anzi desidera che la si profitti per far partecipe anche lui delle sue
care grazie.
Don Marzio: Meglio! Oh che Trappola malizioso! Va via, va a far vedere gli
orecchini.
Trappola: Al gioielliere lo posso dire che sono della moglie del signor Eugenio?
Don Marzio: Sì, diglielo pure.
Trappola: (da sé) (Fra il signor Don Marzio, ed io, formiamo una bellissima
segreteria.) (parte)
Scena sesta
Don Marzio, poi Ridolfo.
Don Marzio: Ridolfo.
Ridolfo: Signore.
Don Marzio: Se voi non sapete niente della ballerina, vi racconterò io.
Ridolfo: Io, per dirgliela, dei fatti degli altri non me ne curo molto.
Don Marzio: Ma sta bene saper qualche cosa per potersi regolare. Ella è protetta
da quella buona lana del conte Leandro, ed egli, dai profitti della ballerina ricava il
prezzo della sua protezione. Invece di spendere, mangia tutto a quella povera diavola; e
per cagione di lui forse è costretta a fare quello che non farebbe. Oh che briccone!
Ridolfo: Ma, io son qui tutto il giorno, e posso attestare che in casa sua non vedo
andare altri, che il conte Leandro.
Don Marzio: Ha la porta di dietro; pazzo, pazzo! Sempre flusso e riflusso. Ha la
porta di dietro, pazzo!
Ridolfo: Io bado alla mia bottega, s'ella ha la porta di dietro, che importa a me?
Io non vado a dar di naso a nessuno.
Don Marzio: Bestia! Così parli con un par mio? (s'alza)
Ridolfo: Le domando perdono, non si può dire una facezia?
Don Marzio: Dammi un bicchier di rosolio.
Ridolfo: (da sè) (Questa barzelletta mi costerà due soldi.) (fa cenno
ai giovani, che dieno il rosolio)
Don Marzio: (Oh questa poi della ballerina voglio che tutti la sappiano.) (da
sè)
Ridolfo: Servita del rosolio.
Don Marzio: Flusso e riflusso per la porta di dietro. (bevendo il rosolio)
Ridolfo: Ella starà male quando ha il flusso e riflusso per la porta di dietro.
Scena settima
Eugenio dalla bottega del giuoco, vestito da notte e stralunato, guardando il cielo
e battendo i piedi; e detti.
Don Marzio: Schiavo, signor Eugenio.
Eugenio: Che ora è?
Don Marzio: Sedici ore sonate.
Ridolfo: E il suo orologio va bene.
Eugenio: Caffè!
Ridolfo: La servo, subito. (va in bottega)
Don Marzio: Amico, com'è andata?
Eugenio: Caffè! (non abbadando a Don Marzio)
Ridolfo: Subito. (di lontano)
Don Marzio: Avete perso? (ad Eugenio)
Eugenio: Caffè. (gridando forte)
Don Marzio: (Ho inteso, gli ha persi tutti.) (da sè, va a sedere)
Scena ottava
Pandolfo dalla bottega del giuoco e detti.
Pandolfo: Signor Eugenio, una parola. (lo tira in disparte)
Eugenio: So quel che volete dirmi. Ho perso trenta zecchini sulla parola. Son,
galantuomo, li pagherò.
Pandolfo: Ma il signor Conte è là, che aspetta. Dice che ha esposto al pericolo i
suoi denari, e vuol essere pagato.
Don Marzio: (Quanto pagherei a sentire che cosa dicono.) (da sé)
Ridolfo: (ad Eugenio) Ecco il caffè.
Eugenio: (a Ridolfo) Andate via. (a Pandolfo) Ha vinti cento zecchini
in contanti; mi pare che non abbia gettata via la notte.
Pandolfo: Queste non sono parole da giuocatore; V. S. sa meglio di me come va
l'ordine in materia di giuoco.
Ridolfo: (ad Eugenio) Signore, il caffè si raffredda.
Eugenio: (a Ridolfo) Lasciatemi stare.
Ridolfo: Se non lo voleva...
Eugenio: Andate via.
Ridolfo: Lo beverò io (si ritira col caffè)
Don Marzio: (a Ridolfo, che non gli risponde) (Che cosa dicono?)
Eugenio: (a Pandolfo) So ancor io, che quando si perde, si paga ma quando
non ve n'è, non si può pagare.
Pandolfo: Sentite, per salvare la vostra riputazione, son uomo capace di ritrovare
trenta zecchini.
Eugenio: Oh bravo! (chiama forte) Caffè!
Ridolfo: (ad Eugenio) Ora bisogna farlo.
Eugenio: Sono tre ore che domando caffè, e ancora non l'avete fatto?
Ridolfo: L'ho portato, ed ella mi ha cacciato via.
Pandolfo: Gliel'ordini con premura, che lo farà da suo pari.
Eugenio: (a Ridolfo) Ditemi, vi dà l'animo di darmi un caffè ma buono?
Via, da bravo.
Ridolfo: Quando mi dia tempo, la servo. (va in bottega)
Don Marzio: (da sé) (Qualche grand'affare. Sono curioso di saperlo.)
Eugenio: Animo, Pandolfo, trovatemi questi trenta zecchini.
Pandolfo: Io ho un amico, che gli darà; ma pegno, e regalo.
Eugenio: Non mi parlate di pegno, che non facciamo niente. Ho que' panni a Rialto,
che voi sapete; obbligherò que' panni, e quando li venderò pagherò
Don Marzio: (da sé) (Pagherò. Ha detto pagherò. Ha perso sulla parola.)
Pandolfo: Bene: che cosa vuol dar di regalo?
Eugenio: Fate voi quel che credete a proposito.
Pandolfo: Senta; non vi vorrà meno di un zecchino alla settimana.
Eugenio: Un zecchino di usura alla settimana?
Ridolfo: (col caffè, ad Eugenio) Servita del caffè.
Eugenio: (a Ridolfo) Andate via.
Ridolfo: La seconda di cambio.
Eugenio: (a Pandolfo) Un zecchino alla settimana?
Pandolfo: Per trenta zecchini è una cosa discreta.
Ridolfo: (ad Eugenio) Lo vuole, o non lo vuole?
Eugenio: (a Ridolfo) Andate via, che ve lo getto in faccia.
Ridolfo: (da sè) (Poveraccio! Il giuoco l'ha ubbriacato.) (porta il
caffè in bottega)
Don Marzio: (s'alza, e va vicino ad Eugenio) Signor Eugenio, vi è qualche
differenza? Volete che l'aggiusti io?
Eugenio: Niente, signor Don Marzio: la prego lasciarmi stare.
Don Marzio: Se avete bisogno, comandate.
Eugenio: Le dico che non mi occorre niente.
Don Marzio: M'esser Pandolfo, che avete voi col signor Eugenio?
Pandolfo: Un piccolo affare, che non abbiamo piacere di far sapere a tutto il
mondo.
Don Marzio: Io sono amico del signor Eugenio, so tutti i fatti suoi, e sa che non
parlo con nessuno. Gli ho prestati anche dieci zecchini sopra un paio d'orecchini; non è
egli vero? e non l'ho detto a nessuno.
Eugenio: Si poteva anche risparmiare di dirlo adesso.
Don Marzio: Eh, qui con m'esser Pandolfo si può parlate con libertà. Avete perso
sulla parola? Avete bisogno di nulla? Son qui.
Eugenio: Per dirgliela, ho perso sulla parola trenta zecchini.
Don Marzio: Trenta zecchini, e dieci, che ve ne ho dati, sono quaranta, gli
orecchini non possono valer tanto,
Pandolfo: Trenta zecchini glieli troverò io.
Don Marzio: Bravo; trovateneglie quaranta; mi darete i miei dieci, e vi darò i
suoi orecchini.
Eugenio: (da sè) (Maledetto sia quando mi sono impicciato con costui.)
Don Marzio: (ad Eugenio) Perché non prendere il danaro che vi offerisce il
signor Pandolfo?
Eugenio: Perché vuole un zecchino alla settimana.
Pandolfo: Io per me non voglio niente; è l'amico che fa il servizio, che vuole
così.
Eugenio: Fate una cosa: parlate col signor Conte, ditegli che mi dia tempo
ventiquattr'ore; son galantuomo, lo pagherò.
Pandolfo: Ho paura ch'egli abbia da andar via, e che voglia il danaro subito.
Eugenio: Se potessi vendere una pezza o due di que' panni, mi spiccerei.
Pandolfo: Vuole che veda io di ritrovare il compratore?
Eugenio: Sì, caro amico, fatemi il piacere, che vi pagherò la vostra sensaria.
Pandolfo: Lasci che io dica una parola al signor Conte, e vado subito. (entra
nella bottega del giuoco)
Don Marzio: (ad Eugenio) Avete perso molto?
Eugenio: Cento zecchini, che aveva riscossi ieri, e poi trenta sulla parola.
Don Marzio: Potevate portarmi i dieci, che vi ho prestati.
Eugenio: Via, non mi mortificate più; ve li darò i vostri dieci zecchini.
Pandolfo: (col tabarro e Cappello, dalla sua bottega). Il signor Conte si è
addormentato colla testa sul tavolino. Intanto vado a veder di far quel servizio. Se si
risveglia, ho lasciato l'ordine al giovane, che gli dica il bisogno. V.S. non si parta di
qui.
Eugenio: Vi aspetto in questo luogo medesimo.
Pandolfo: Questo tabarro è vecchio; ora è tempo di farmene uno nuovo a ufo. (da
sè, parte)
Scena nona
Don Marzio ed Eugenio, poi Ridolfo.
Don Marzio: Venite qui, sedete, beviamo il caffè.
Eugenio: Caffè! (siedono)
Ridolfo: A che giuoco giuochiamo, signor Eugenio? Si prende spasso de' fatti miei?
Eugenio: Caro amico, compatite, sono stordito.
Ridolfo: Eh, caro, signor Eugenio, se V.S. volesse badare a me la non si troverebbe
in tal caso.
Eugenio: Non so che dire, avete ragione.
Ridolfo: Vado a farle un altro caffè, e poi la discorreremo. (si, ritira in
bottega)
Don Marzio: Avete saputo della ballerina che pareva non volesse nessuno? Il Conte
la mantiene.
Eugenio: Credo di sì, che possa mantenerla, vince i zecchini a centinaia.
Don Marzio: Io ho saputo tutto.
Eugenio: Come l'avete saputo, caro amico?
Don Marzio: Eh, io so tutto. Sono informato di tutto. So quando vi va, quando esce.
So quel che spende, quel che mangia; so tutto.
Eugenio: Il Conte è poi solo?
Don Marzio: Oibò; vi è la porta di dietro.
Ridolfo: (col caffè) Ecco qui il terzo caffè. (ad Eugenio)
Don Marzio: Ah! che dite, Ridolfo? So tutto io della ballerina?
Ridolfo: Io le ho detto un'altra volta che non me ne intrico.
Don Marzio: Grand'uomo son io, per saper ogni cosa! Chi vuol sapere quel che passa
in casa di tutte le virtuose, e di tutte le ballerine, ha da venir da me.
Eugenio: Dunque questa signora ballerina è un capo d'opera?
Don Marzio: L'ho veramente scoperta come va. E' roba di tutto gusto. Ah, Ridolfo,
lo so io?
Ridolfo: Quando V. S. mi chiama in testimonio, bisogna ch'io dica la verità. Tutta
la contrada la tiene per una donna da bene.
Don Marzio: Una donna da bene? Una donna da bene?
Ridolfo: Io le dico che in casa sua non vi va nessuno.
Don Marzio: Per la porta di dietro, flusso e riflusso.
Eugenio: E sì ella pare una ragazza più tosto savia.
Don Marzio: Sì savia! Il conte Buonatesta la mantiene. Poi vi va chi vuole.
Eugenio: Io ho provato qualche volta a dirle delle paroline, e non ho fatto niente.
Don Marzio: Avete un filippo da scommettere? Andiamo.
Ridolfo: (da sè) (Oh che lingua!)
Eugenio: Vengo qui a bever il caffè ogni giorno; e, per dirla, non ho veduto
andarvi nessuno.
Don Marzio: Non sapete che ha la porta segreta qui nella strada remota? Vanno per
di là.
Eugenio: Sarà così.
Don Marzio: E' senz'altro.
Scena decima
Il garzone del barbiere e detti.
Garzone: (a Don Marzio) Illustrissimo, se vuol farsi far la barba, il
padrone l'aspetta.
Don Marzio: Vengo. E' cosi come vi dico. Vado a farmi la barba, e come torno vi
dirò il resto. (entra dal barbiere, e poi a tempo ritorna)
Eugenio: Che dite, Ridolfo? La ballerina si è tratta fuori.
Ridolfo: Cred'ella al signor Don Marzio? Non sa la lingua ch'egli è?
Eugenio: Lo so, che ha una lingua che taglia e fende. Ma parla con tanta
franchezza, che convien dire che ei sappia quel che dice.
Ridolfo: Osservi, quella è la porta della stradetta. A star qui la si vede; e
giuro da uomo d'onore, che per di là in casa non va nessuno.
Eugenio: Ma il Conte la mantiene?
Ridolfo: Il Conte va per casa, ma si dice che la voglia sposare.
Eugenio: Se fosse cosi, non vi sarebbe male; ma dice il signor Don Marzio, che in
casa vi va chi vuole.
Ridolfo: Ed io le dico che non vi va nessuno.
Don Marzio: (esce dal barbiere col panno bianco al collo e la saponata sul viso)
Vi dico che vanno per la porta di dietro.
Garzone: Illustrissimo, l'acqua si raffredda.
Don Marzio: Per la porta di dietro. (entra dal barbiere col garzone)
Scena undicesima
Eugenio e Ridolfo.
Ridolfo: Vede? E' un uomo di questa fatta. Colla saponata sul viso.
Eugenio: Sì, quando si è cacciata una cosa in testa vuole che sia in quel modo.
Ridolfo: E dice male di tutti.
Eugenio: Non so come faccia a parlar sempre de' fatti altrui.
Ridolfo: Le dirò: egli ha pochissime facoltà; ha poco da pensare a' fatti suoi, e
per questo pensa sempre a quelli degli altri.
Eugenio: Veramente è fortuna il non conoscerlo.
Ridolfo: Caro signor Eugenio, come ha ella fatto a intricarsi con lui? Non aveva
altri da domandare dieci zecchini in prestito?
Eugenio: Anche voi lo sapete?
Ridolfo: L'ha detto qui pubblicamente in bottega.
Eugenio: Caro amico, sapete come va: quando uno ha bisogno si attacca a tutto.
Ridolfo: Anche questa mattina, per quel che ho sentito, V. S. si è attaccata poco
bene.
Eugenio: Credete che m'esser Pandolfo mi voglia gabbare?
Ridolfo: Vedrà che razza di negozio le verrà a proporre.
Eugenio: Ma che devo fare? Bisogna che io paghi trenta zecchini, che ho persi sulla
parola. Mi vorrei liberare dal tormento di don Marzio. Ho qualche altra premura; se posso
vendere due pezze di panno, fo' tutti i fatti miei.
Ridolfo: Che qualità di panno è quello che vorrebbe esitare?
Eugenio: Panno padovano, che vale quattordici lire il braccio.
Ridolfo: Vuol ella che veda io di farglielo vendere con riputazione?
Eugenio: Vi sarei bene obbligato.
Ridolfo: Mi dia un poco di tempo, e lasci operare a me.
Eugenio: Tempo? Volentieri. Ma quello aspetta i trenta zecchini.
Ridolfo: Venga qui, favorisca, mi faccia un ordine, che mi sieno consegnate due
pezze di panno, ed io medesimo le presterò i trenta zecchini.
Eugenio: Sì, caro, vi sarò obbligato. Saprò le mie obbligazioni.
Ridolfo: Mi maraviglio, non pretendo nemmeno un soldo. Lo farò per le obbligazioni
ch'io ho colla buona memoria del suo signor padre, che è stato mio buon padrone, e dal
quale riconosco la mia fortuna. Non ho cuor di vederla assassinare da questi cani.
Eugenio: Voi siete un gran galantuomo.
Ridolfo: Favorisca di stender l'ordine in carta.
Eugenio: Son qui; dettatelo voi, ch'io scriverò.
Ridolfo: Che nome ha il primo giovane del suo negozio?
Eugenio: Pasquino de' Cavoli.
Ridolfo: (detta, ed Eugenio scrive) Pasquino de' Cavoli... consegnerete a
M'esser Ridolfo Gamboni... pezze due panno padovano... a sua elezione, acciò egli ne
faccia esito per conto mio... avendomi prestato gratuitamente... zecchini trenta. Vi
metta la data e si sottoscriva.
Eugenio: Ecco fatto.
Ridolfo: Si fida ella di me?
Eugenio: Capperi! Non volete?
Ridolfo: Ed io mi fido di lei. Tenga, questi sono trenta zecchini. (gli numera
trenta zecchini)
Eugenio: Caro amico, vi sono obbligato.
Ridolfo: Signor Eugenio, glieli do, acciò possa comparire puntuale e onorato; le
venderò il panno io, acciò non le venga mangiato, e vado subito senza perder tempo: ma
la mi permetta che faccia con lei un piccolo sfogo d'amore, per l'antica servitù che le
professo. Questa che V. S. tiene, è la vera strada di andare in rovina. Presto presto si
perde il credito e si fallisce. Lasci andare il giuoco, lasci le male pratiche, attenda al
suo negozio, alla sua famiglia, e si regoli con giudizio. Poche parole, ma buone, dette da
un uomo ordinario, ma di buon cuore; se le ascolterà, sarà meglio per lei. (parte)
Scena dodicesima
Eugenio solo, poi Lisaura alla finestra.
Eugenio: Non dice male; confesso che non dice male. Mia moglie, povera disgraziata,
che mai dirà? Questa notte non mi ha veduto; quanti lunari avrà ella fatti? Già le
donne, quando non vedono il marito in casa, pensano cento cose una peggio dell'altra.
Avrà pensato, o che io fossi con altre donne, o che fossi caduto in qualche canale, o che
per i debiti me ne fossi andato. So che l'amore, ch'ella ha per me, la fa sospirare; le
voglio bene ancor io, ma mi piace la mia libertà. Vedo però, che da questa mia libertà
ne ricavo più mal che bene, e che se facessi a modo di mia moglie, le faccende di casa
mia andrebbero meglio. Bisognerà poi risolversi, e metter giudizio. Oh quante volte ho
detto così! (vede Lisaura alla finestra) (Capperi! Grand'aria! Ho paura di sì io,
che vi sia la porticina col giuocolino) Padrona mia riverita!
Lisaura: Serva umilissima!
Eugenio: E' molto, signora, che è alzata dal letto?
Lisaura: In questo punto.
Eugenio: Ha bevuto il caffè?
Lisaura: E' ancora presto. Non l'ho bevuto.
Eugenio: Comanda che io la faccia servire?
Lisaura: Bene obbligata: non s'incomodi.
Eugenio: Niente, mi maraviglio. Giovani, portate a quella signora caffè,
cioccolata; tutto quel ch'ella vuole, pago io.
Lisaura: La ringrazio, la ringrazio. Il caffè e la cioccolata li faccio in casa.
Eugenio: Avrà della cioccolata buona?
Lisaura: Per dirla, è perfetta.
Eugenio: La sa far bene?
Lisaura: La mia serva s'ingegna.
Eugenio: Vuole che venga io a darle una frullatina?
Lisaura: E' superfluo che s'incomodi.
Eugenio: Verrò a beverla con lei, se mi permette.
Lisaura: Non è per lei, signore.
Eugenio: Io mi degno di tutto; apra, via, che staremo un'oretta insieme.
Lisaura: Mi perdoni, non apro con questa facilità.
Eugenio: Ehi, dica, vuole che io venga per la porta di dietro?
Lisaura: Le persone, che vengono da me, vengono pubblicamente.
Eugenio: Apra, via, non facciamo scene.
Lisaura: Dica in grazia, signor Eugenio: ha veduto ella il conte Leandro?
Eugenio: Così non lo avessi veduto.
Lisaura: Hanno forse giuocato insieme la scorsa notte?
Eugenio: Pur troppo; ma che serve, che stiamo qui a far sentire a tutti i fatti
nostri? Apra, che le dirò ogni cosa.
Lisaura: Vi dico, signore, che io non apro a nessuno.
Eugenio: Ha forse bisogno che il signor Conte le dia licenza? Lo chiamerò.
Lisaura: Se cerco del signor Conte, ho ragione di farlo.
Eugenio: Ora la servo subito. E' qui in bottega, che dorme.
Lisaura: Se dorme, lasciatelo dormire.
Scena tredicesima
Leandro dalla bottega del giuoco e detti.
Leandro: Non dormo, no, non dormo. Son qui che godo la bella disinvoltura del
signor Eugenio.
Eugenio: Che ne dite dell'indiscretezza di questa signora? Non mi vuole aprire la
porta.
Leandro: Chi vi credete ch'ella sia?
Eugenio: Per quel che dice Don Marzio, flusso e riflusso.
Leandro: Mente don Marzio, e chi lo crede.
Eugenio: Bene. Non sarà così; ma col vostro mezzo non potrei io aver la grazia di
riverirla?
Leandro: Fareste meglio a darmi i miei trenta zecchini.
Eugenio: I trenta zecchini ve li darò. Quando si perde sulla parola, vi è tempo a
pagare ventiquattr'ore.
Leandro: Vedete, signora Lisaura? Questi sono quei gran soggetti, che si piccano
d'onoratezza. Non ha un soldo, e pretende di fare il grazioso.
Eugenio: I giovani della mia sorta, signor Conte caro, non sono capaci di mettersi
in un impegno senza fondamento di comparir con onore. S'ella mi avesse aperto, non avrebbe
perduto il suo tempo, e voi non sareste restato al di sotto coi vostri incerti. Questi
sono danari, questi sono trenta zecchini, e queste faccie quando non ne hanno, ne trovano.
Tenete i vostri trenta zecchini, e imparate a parlare coi galantuomini della mia sorta. (va
a sedere in bottega del caffè)
Leandro: (da sè) (Mi ha pagato, dica che che vuole, che non m'importa.) (a
Lisaura) Aprite!
Lisaura: Dove siete stato tutta questa notte?
Leandro: Aprite!
Lisaura: Andate al diavolo!
Leandro: Aprite! (versa gli zecchini nel Cappello, acciò Lisaura gli veda.)
Lisaura: Per questa volta vi apro. (si ritira ed apre)
Leandro: Mi fa grazia, mediante la raccomandazione di queste belle monete. (entra
in casa)
Eugenio: Egli sì, ed io no? Non sono chi sono, se non gliela faccio vedere.
Scena quattordicesima
Placida da Pellegrino ed Eugenio.
Placida: Un poco di carità alla povera pellegrina.
Eugenio: (da sè) (Ecco qui; corre la moda delle pellegrine.)
Placida: (ad Eugenio) Signore, per amor del cielo, mi dia qualche cosa.
Eugenio: Che vuol dir questo, signora pellegrina? Si va cosi per divertimento o per
pretesto?
Placida: Né per l'uno, né per l'altro.
Eugenio: Dunque per qual causa si gira il mondo?
Placida: Per bisogno.
Eugenio: Bisogno, di che?
Placida: Di tutto.
Eugenio: Anche di compagnia.
Placida: Di questa non avrei bisogno, se mio marito non mi avesse abbandonata.
Eugenio: La solita canzonetta. Mio marito mi ha abbandonata. Di che paese siete,
signora?
Placida: Piemontese.
Eugenio: E vostro marito?
Placida: Piemontese egli pure.
Eugenio: Che facev'egli al suo paese?
Placida: Era scritturale d'un mercante.
Eugenio: E perché se n'è andato via?
Placida: Per poca volontà di far bene.
Eugenio: Questa è una malattia che l'ho provata anch'io, e non sono ancora
guarito.
Placida: Signore, aiutatemi per carità. Sono arrivata in questo punto a Venezia.
Non so dove andare, non conosco nessuno, non ho danari, son disperata.
Eugenio: Che cosa siete venuta a fare a Venezia?
Placida: A vedere se trovo quel disgraziato di mio marito.
Eugenio: Come si chiama?
Placida: Flaminio Ardenti.
Eugenio: Non ho mai sentito un tal nome.
Placida: Ho timore che il nome se lo sia cambiato.
Eugenio: Girando per la città, può darsi che, se vi è, lo troviate.
Placida: Se mi vedrà, fuggirà.
Eugenio: Dovreste far cosi. Siamo ora di carnovale, dovreste mascherarvi, e così
più facilmente lo trovereste.
Placida: Ma come posso farlo, se non ho alcuno che mi assista? Non so nemmeno dove
alloggiare.
Eugenio: (da sé) (Ho inteso, or ora vado in pellegrinaggio ancor io). Se
volete, questa è una buona locanda.
Placida: Con che coraggio ho da presentarmi alla locanda, se non ho nemmeno da
pagare il dormire?
Eugenio: Cara pellegrina, se volete un mezzo ducato, ve lo posso dare. (da sè)
(Tutto quello che mi è avanzato dal giuoco.)
Placida: Ringrazio la vostra pietà. Ma più del mezzo ducato, più di qual si sia
moneta, mi sarebbe cara la vostra protezione.
Eugenio: (da sè) (Non vuole il mezzo ducato; vuole qualche cosa di più.)
Scena quindicesima
Don Marzio dal barbiere e detti.
Don Marzio: (da sè) (Eugenio con una pellegrina! Sarà qualche cosa di
buono!) (siede al caffè, guardando la pellegrina coll'occhialetto)
Placida: Fatemi la carità; introducetemi voi alla locanda. Raccomandatemi al
padrone di essa, acciò, vedendomi così sola, non mi scacci, o non mi maltratti.
Eugenio: Volentieri. Andiamo, che vi accompagnerò. Il locandiere mi conosce, e a
riguardo mio, spero che vi userà tutte le cortesie che potrà.
Don Marzio: (da sè) (Mi pare d'averla veduta altre volte). (guarda di
lontano coll'occhialetto)
Placida: Vi sarò eternamente obbligata.
Eugenio: Quando posso, faccio del bene a tutti. Se non ritroverete vostro marito,
vi assisterò io. Son di buon cuore.
Don Marzio: (da sè) (Pagherei qualche cosa di bello a sentir cosa dicono.)
Placida: Caro signore, voi mi consolate colle vostre cortesissime esibizioni. Ma la
carità d'un giovane, come voi, ad una donna, che non è ancor vecchia, non vorrei che
venisse sinistramente interpretata.
Eugenio: Vi dirò, signora: se in tutti i casi si avesse questo riguardo, si
verrebbe a levare agli uomini la libertà di fare delle opere di pietà. Se la
mormorazione è fondata sopra un'apparenza di male, si minora la colpa del mormoratore; ma
se la gente cattiva prende motivo di sospettare da un'azione buona o indifferente, tutta
la colpa è sua, e non si leva il merito a chi opera bene. Confesso d'esser anch'io uomo
di mondo; ma mi picco insieme d'esser un uomo civile, ed onorato.
Placida: Sentimenti d'animo onesto, nobile, e generoso.
Don Marzio: (ad Eugenio) Amico, chi è questa bella pellegrina?
Eugenio: (da sè) (Eccolo qui; vuol dar di naso per tutto). (a Placida)
Andiamo in locanda.
Placida: Vi seguo. (entra in locanda con Eugenio)
Scena sedicesima
Don Marzio, poi Eugenio dalla locanda.
Don Marzio: Oh, che caro signor Eugenio! Egli applica a tutto, anche alla
pellegrina. Colei mi pare certamente sia quella dell'anno passato. Scommetterei che è
quella che veniva ogni sera al caffè a domandar l'elemosina. Ma io però non glie ne ho
mai dati, veh! I miei danari, che sono pochi, li voglio spender bene. Ragazzi, non è
ancora tornato Trappola? Non ha riportati gli orecchini, che mi ha dati in pegno per dieci
zecchini il signor Eugenio?
Eugenio: Che cosa dice de' fatti miei?
Don Marzio: Bravo, colla pellegrina!
Eugenio: Non si può assistere una povera creatura, che si ritrova in bisogno?
Don Marzio: Sì, anzi fate bene. Povera diavola! Dall'anno passato in qua, non ha
trovato nessuno che la ricoveri?
Eugenio: Come dall'anno passato! La conoscete quella pellegrina?
Don Marzio: Se la conosco? E come! E' vero che ho corta vista, ma la memoria mi
serve.
Eugenio: Caro amico, ditemi chi ella è.
Don Marzio: E' una, che veniva l'anno passato a questo caffè ogni sera, a
frecciare questo e quello.
Eugenio: Se ella dice che non è mai più stata in Venezia?
Don Marzio: E voi glielo credete? Povero gonzo!
Eugenio: Quella dell'anno passato di che paese era?
Don Marzio: Milanese.
Eugenio: E questa è piemontese.
Don Marzio: Oh sì, è vero; era di Piemonte.
Eugenio: E' moglie d'un certo Flaminio Ardenti.
Don Marzio: Anche l'anno passato aveva con lei uno, che passava per suo marito.
Eugenio: Ora non ha nessuno.
Don Marzio: La vita di costoro; ne mutano uno al mese.
Eugenio: Ma come potete dire che sia quella?
Don Marzio: Se la riconosco!
Eugenio: L'avete ben veduta?
Don Marzio: Il mio occhialetto non isbaglia; e poi l'ho sentita parlare.
Eugenio: Che nome aveva quella dell'anno passato?
Don Marzio: Il nome poi non mi sovviene.
Eugenio: Questa ha nome Placida.
Don Marzio: Appunto; aveva nome Placida.
Eugenio: Se fossi sicuro di questo, vorrei ben dirle quello che ella si merita.
Don Marzio: Quando dico una cosa io, la potete credere. Colei è una pellegrina,
che in vece d'essere alloggiata, cerca di alloggiare.
Eugenio: Aspettate, che ora torno. (Voglio sapere la verità.) (entra in locanda)
Scena diciassettesima
Don Marzio, poi Vittoria mascherata.
Don Marzio: Non può essere altro, che quella assolutamente; l'aria, la statura,
anche l'abito mi par quello. Non l'ho veduta bene nel viso, ma è quella senz'altro; e poi
quando mi ha veduto, subito si è nascosta nella locanda.
Vittoria: Signor Don Marzio, la riverisco. (si smaschera)
Don Marzio: Oh signora mascheretta, vi sono schiavo.
Vittoria: A sorte, avreste voi veduto mio marito?
Don Marzio: Sì, signora, l'ho veduto.
Vittoria: Mi sapreste dire dove presentemente egli sia?
Don Marzio: Lo so benissimo.
Vittoria: Vi supplico dirmelo per cortesia.
Don Marzio: Sentite. (la tira in disparte) E' qui in questa locanda con un
pezzo di pellegrina, ma co' fiocchi.
Vittoria: Da quando in qua?
Don Marzio: Or ora, in questo punto, è capitata qui una pellegrina; l'ha veduta,
gli è piaciuta, ed è entrato subitamente nella locanda.
Vittoria: Uomo senza giudizio! Vuol perdere affatto la riputazione.
Don Marzio: Questa notte l'avrete aspettato un bel pezzo.
Vittoria: Dubitava gli fosse accaduta qualche disgrazia.
Don Marzio: Chiamate poca disgrazia aver perso cento zecchini in contanti, e trenta
sulla parola?
Vittoria: Ha perso tutti questi danari?
Don Marzio: Sì! Ha perso altro! Se giuoca tutto il giorno, e tutta la notte, come
un traditore.
Vittoria: (Misera me! Mi sento o strappar il cuore.) (da sè)
Don Marzio: Ora gli converrà vendere a precipizio quel poco di panno, e poi ha
finito.
Vittoria: Spero che non sia in istato di andar in rovina.
Don Marzio: Se ha impegnato tutto!
Vittoria: Mi perdoni; non è vero.
Don Marzio: Lo volete dire a me?
Vittoria: Io l'avrei a saper più di voi.
Don Marzio: Se ha impegnato a me... Basta. Son galantuomo, non voglio dir altro.
Vittoria: Vi prego dirmi che cosa ha impegnato. Può essere che io non lo sappia.
Don Marzio: Andate, che avete un bel marito.
Vittoria: Mi volete dire che cosa ha impegnato?
Don Marzio: Son galantuomo, non vi voglio dir nulla.
Scena diciottesima
Trappola colla scatola degli orecchini e detti.
Trappola: Oh, son qui; il gioielliere... (Uh! che vedo! La moglie del signor
Eugenio; non voglio farmi sentire.) (da sè)
Don Marzio: (piano a Trappola) Ebbene, cosa dice il gioielliere?
Trappola: (piano a Don Marzio) Dice che saranno stati pagati più di dieci
zecchini, ma che non glieli darebbe.
Don Marzio: (a Trappola) Dunque non sono al coperto?
Trappola: (a Don Marzio) Ho paura di no.
Don Marzio: (a Vittoria) Vedete le belle baronate che fa vostro marito? Egli
mi di in pegno questi orecchini per dieci zecchini, e non vagliono nemmeno sei.
Vittoria: Questi sono i miei orecchini.
Don Marzio: Datemi dieci zecchini, e ve li do.
Vittoria: Ne vagliono più di trenta.
Don Marzio: Eh! trenta fichi! Siete d'accordo anche voi.
Vittoria: Teneteli fin a domani, ch'io troverò i dieci zecchini.
Don Marzio: Fin a domani? Oh non mi corbellate. Voglio andare a farli vedere da
tutti i gioiellieri di Venezia.
Vittoria: Almeno non dite che sono miei, per la mia riputazione.
Don Marzio: Che importa a me della vostra riputazione! Chi non vuol che si sappia,
non faccia pegni. (parte)
Scena diciannovesima
Vittoria e Trappola.
Vittoria: Che uomo indiscreto, incivile! Trappola, dov'è il vostro padrone?
Trappola: Non lo so; vengo ora a bottega.
Vittoria: Mio marito dunque ha giuocato tutta la notte?
Trappola: Dove l'ho lasciato iersera, l'ho ritrovato questa mattina.
Vittoria: Maledettissimo vizio! E ha perso cento e trenta zecchini?
Trappola: Così dicono.
Vittoria: Indegnissimo gioco! E ora se ne sta con una forestiera in divertimenti?
Trappola: Signora sì, sarà con lei. L'ho veduto varie volte girarle d'intorno;
sarà andato in casa.
Vittoria: Mi dicono che questa forestiera sia arrivata poco fa.
Trappola: No signora; sarà un mese che la c'è.
Vittoria: Non è una pellegrina?
Trappola: Oibò pellegrina; ha sbagliato perché finisce in ina; è una ballerina.
Vittoria: E sta qui alla locanda!
Trappola: Signora no, sta qui in questa casa. (accennando la casa)
Vittoria: Qui? Se mi ha detto il signor Don Marzio, ch'egli ritrovasi in quella
locanda con una pellegrina.
Trappola: Buono! Anche una pellegrina?
Vittoria: Oltre la pellegrina vi è anche la ballerina? Una di qua, e una di là?
Trappola: Sì, signora; farà per navigar col vento sempre in poppa. Orza, e
poggia, secondo soffia la tramontana, o lo scirocco.
Vittoria: E sempre ha da far questa vita? Un uomo di quella sorta, di spirito, di
talento, ha da perdere così miseramente il suo tempo, sacrificare le sue sostanze,
rovinar la sua casa? Ed io l'ho da soffrire? Ed io mi ho da lasciar maltrattare senza
risentirmi? Eh voglio esser buona, ma non balorda; non voglio che il mio tacere faciliti
la sua mala condotta. Parlerò, dirò le mie ragioni; e se le parole non bastano,
ricorrerò alla giustizia.
Trappola: E' vero, è vero. Eccolo, che viene dalla locanda.
Vittoria: Caro amico, lasciatemi sola.
Trappola: Si serva pure, come più le piace. (entra nell'interno della bottega)
Scena ventesima
Vittoria, poi Eugenio dalla locanda.
Vittoria: Voglio accrescere la di lui sorpresa col mascherarmi. (si maschera)
Eugenio: Io non so quel ch'io m'abbia a dire; questa nega, e quei tien sodo. Don
Marzio so che è una mala lingua. A queste donne che viaggiano non è da credere.
Mascheretta? A buon'ora! Siete mutola? Volete caffè? Volete niente? Comandate.
Vittoria: Non ho bisogno di caffè, ma di pane. (si smaschera)
Eugenio: Come! Che cosa fate voi qui?
Vittoria: Eccomi qui strascinata dalla disperazione.
Eugenio: Che novità è questa? A quest'ora in maschera?
Vittoria: Cosa dite eh? Che bel divertimento! A quest'ora in maschera.
Eugenio: Andate subito a casa vostra!
Vittoria: Anderò a casa, e voi resterete al divertimento.
Eugenio: Voi andate a casa, ed io resterò dove mi piacerà di restare.
Vittoria: Bella vita, signor consorte!
Eugenio: Meno ciarle, signora: vada a casa, che farà meglio.
Vittoria: Sì, anderò a casa; ma anderò a casa mia, non a casa vostra.
Eugenio: Dove intendereste d'andare?
Vittoria: Da mio padre; il quale, nauseato dei mali trattamenti che voi mi fate,
saprà farsi render ragione del vostro procedere e della mia dote.
Eugenio: Brava, signora, brava. Questo è il gran bene che mi volete; questa è la
premura che avete di me e della mia riputazione.
Vittoria: Ho sempre sentito dire che crudeltà consuma amore. Ho tanto sofferto, ho
tanto pianto, ma ora non posso più.
Eugenio: Finalmente, che cosa vi ho fatto?
Vittoria: Tutta la notte al giuoco!
Eugenio: Chi vi ha detto che io abbia giuocato?
Vittoria: Me l'ha detto il signor Don Marzio, e che avete perduto cento zecchini in
contanti, e trenta sulla parola.
Eugenio: Non gli credete, non è vero.
Vittoria: E poi a' divertimenti con la pellegrina.
Eugenio: Chi vi ha detto questo?
Vittoria: Il signor Don Marzio.
Eugenio: (Che tu sia maledetto!) (da sè) Credetemi, non è vero.
Vittoria: E di più impegnare la roba mia; prendermi un paio di orecchini, senza
dirmi niente. Sono azioni di farsi ad una moglie amorosa, civile e onesta come sono io?
Eugenio: Come avete saputo degli orecchini?
Vittoria: Me l'ha detto il signor Don Marzio.
Eugenio: Ah lingua da tanaglie!
Vittoria: Già dice il signor Don Marzio, e lo diranno tutti, che uno di questi
giorni sarete rovinato del tutto; ed io, prima che ciò succeda, voglio assicurarmi della
mia dote.
Eugenio: Vittoria, se mi voleste bene, non parlereste così.
Vittoria: Vi voglio bene anche troppo, e se non vi avessi amato tanto, sarebbe
stato meglio per me.
Eugenio: Volete andare da vostro padre?
Vittoria: Sì, certamente.
Eugenio: Non volete più star con me?
Vittoria: Vi sarò quando avrete messo giudizio.
Eugenio: (alterato) Oh, signora dottoressa, non mi stia ora a seccare.
Vittoria: Zitto; non facciamo scene per la strada.
Eugenio: Se aveste riputazione non verreste a cimentare vostro marito in una
bottega da caffè.
Vittoria: Non dubitate, non ci verrò più.
Eugenio: Animo! via di qua.
Vittoria: Vado, vi obbedisco, perché una moglie onesta deve obbedire anche un
marito indiscreto. Ma forse, forse sospirerete d'avermi quando non mi potrete vedere.
Chiamerete forse per nome la vostra cara consorte, quando ella non sarà più in grado di
rispondervi e di aiutarvi. Non vi potrete dolere dell'amor mio. Ho fatto quanto far poteva
una moglie innamorata di suo marito. M'avete con ingratitudine corrisposto; pazienza.
Piangerò da voi lontana, ma non saprò così spesso i torti che voi mi fate. V'amerò
sempre, ma non mi vedrete mai più. (parte)
Eugenio: Povera donna! Mi ha intenerito. So che lo dice, ma non è capace di farlo;
le andrò dietro alla lontana, e la piglierò con le buone. S'ella mi porta via la dote,
son rovinato. Ma non avrà cuore di farlo. Quando la moglie è in collera, quattro carezze
bastano per consolarla. (parte)
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
- E-mail: Giuseppe.Bonghi@mail.fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 08 novembre 1999