Ugo Foscolo
Poesie Varie
[01]
INNO ALLA NAVE DELLE MUSE
Questa poesia fu stampata la prima volta dal Carrer nella sua edizione delle Prose e
poesie edito o inedito del Foscolo. Egli la trasse, credo, dalle copie di scritti
foscoliani, che il prof. Tipaldi ebbe dalla Donna gentile per una edizione delle
opere del Foscolo, che promise e non fece, e fu fatta poi dal Carrer. La copia di questa
poesia avuta dal Carrer dovette essere molto scorretta, e mancante del titolo, che essa ha
nell'autografo nei mss. foscoliani della Nazionale di Firenze. L'Orlandini ristampò la
poesia tale quale la diede il Carrer, e col medesimo titolo di Frammento dell'Alceo.
Io la ristampo come sta nell'autografo, e col titolo che ha in esso. (Chiarini 1904)
Scritto nel 1806, quest'inno è un
frammento dell'Alceo, un Carme che il Foscolo disegnava di scrive «sulla storia della
letteratura in Italia dalla rovina dell'Impero d'Oriente ai dì nostri».
I doni di Lieo nell'auree tazze
Coronato d'alloro, o naviganti,
Adorando, e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo,
Ospizio di Latona, isola cara
Al divino Timbrèo, cara alla madre
Delle Nereidi, e al forte Enosigèo.
Non ferverà per voi l'ira del flutto
Dalle Cicladi chiuso ardue di sassi,
Nè dentro al nembo suo terrà la notte
L'aure seconde, e l'orïente guida
Delle spiate nubi. Udrà le preci
Febo; dai gioghi altissimi di Cinto
Lieti d'ulivi e di vocali lauri,
Al vostro corso le cerulee vie
Spianerà tutte, e agevoli alle antenne
Devote manderà gli Eolii venti.
Però che l'occhio del figliuol di Giove,
Lieto fa ciò che mira: Apollo salva
Chi Delo onora. O stanza dell'errante
Latona! Invan la Dea liti e montagne
Dolorando cercò: fuggìanla i fiumi
E contendeano a correre col vento.
Ove più poserai dal grave fianco
Lo peso tuo? nè avrà culle e lavacri
Dell'Olimpio la prole, o dolorosa?
Ma la nuotante per l'Icario fonte
Isola, a' venti e all'acque obbedïente,
Lei ricettò, sebben in ciel si stesse
La minaccia di Giuno alla vedetta.
Amor di Febo e de' Celesti è Delo.
Immota, veneranda ed immortale,
Ricca fra tutte quante isole siede
E le sorelle a lei fanno corona.
I doni di Lieo nell'auree tazze
D'alloro inghirlandate o naviganti
Adorando; e libateli dall'alta
Poppa in onor della palmosa Delo.
Tale cantando
Alceo strinse di grato
Ozio i Tritoni, e i condottieri infidi
Della nave che gìa pel grande Egeo
Italia e le Tirrene acque cercando
Onde posar nella toscana terra
Le Muse che fuggìen l'arabo insulto
E le spade e la fiamma ed il tripudio
De' nuovi numi, e del novello impero;
Come piacque all'eterna onnipotenza
Di quella calva che non posa mai
Di vendicar sul capo de' Comneni
Le vittorie di Roma, ed i tributi
D'Asia, e di Costantin gli Dei mutati.
Salìa dell'Athos
nella somma vetta
Il duca, e quindi il flutto ampio guardava
E l'isole guardava e il continente
Però che si chinava all'orizzonte
Diana liberal di tutta luce.
Gli suonavano intorno il brando e l'arme
Sfolgoranti fra l'ombre, e giù dall'elmo
Gli percuoteva in fulva onda le spalle
La giuba de' corsier presi in battaglia;
Negro cimiero ondeggiavagli, e il negro
Paludamento si portavan l'aure. |
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[02]
A VINCENZO MONTI
Ristampo questa Epistola
di sul manoscritto autografo, con tutte le varie lezioni che in esso leggonsi. La
pubblicò prima il Carrer sopra una copia non molto corretta cavata da quel manoscritto,
introducendo nel testo alcune varianti, che a lui, o a chi copiò la poesia, parvero
migliori.
Composto tra il 1804 e il 1806 quando il Foscolo
era capitano aggiunto nella Divisione italiana di stanza sulle coste della Manica per il
progettato sbarco in Inghilterra. Fu pubblicato solo nel 1842.
Se fra' pochi mortali a cui negli anni
Che mi fuggìr, fui caro, alcun ti chiede
Novella d'Ugo; - perchè indegno fora
All'amor nostro il non saperne, o Monti
Rispondi - In terra che non apre il seno
Obbedïente al scintillar del solo
Passa la vita sua colma d'obblio,
Doma il destriero a galoppar per l'onde;
Sulle rocce piccarde aguzza il brando,
E l'oceàn traversando con gli occhi
D'Anglia le minacciate alpi saluta -
M'udrai felice benedir, m'udrai
Commiserar; tu fammi lieto ai lieti,
Dolente a' dolorosi; ognun sè pasce
Del parer suo; qual io mi viva, solo
Tu l'odi, e dove coronato libi
Al Genio e all'Ira d'Alighieri, il Fauno
Pedestre mio discreto ospite accogli.
Da [te] non laude al mio verso, nè vino
Sul desco mio, nè il tuo pregar sull'ara
Della possanza in mio favor ti chiedo.
In molti uomini lessi e in pochi libri
(Perch'io cultor di pochi libri vivo)
Questa sentenza: Amico unico è l'oro.
Se fra' mortali a'
quai non vissi ignoto
Ne' dì che mi fuggiro, alcun ti chiede
Novella d'Ugo - perocchè tacerne
Indegno fora all'amor nostro, o Monti,
Rispondi - In terra che non apre il solco
Docile a' rai del sole onnipotenti
Pasce la vita sua colma d'oblio.
Doma il destriero a galoppar per l'onde
Su le rocce piccarde aguzza il brando,
E traversando l'oceàn con gli occhi
Minaccia i porti d'Albïon rostrati.
Non te desio
propizïante all'are
Della Possanza in mio favor, nè chiedo
Vino al mio desco, o i tuoi plausi al mio verso
Da te non laudi al mio verso, nè vino
Al desco mio, nè il tuo pregar sull'ara
Della Possanza in mio favor ti chiedo:
Ma cor che il fuggitivo Ugo accompagni
Ove fortuna il mena aspra di guai.
Mi mentirà così, Vincenzo, quella
Che in molti uomini lessi, e in pochi libri
(Perch'io cultor
di pochi libri vivo)
Ardua sentenza: Amico unico è l'oro.
Non [io] te, dolce amico, in favor mio
Sull'ara del favor propizïante
Voglio, nè chiedo a te plausi al mio verso, 50
Da te non plausi
al mio verso, non vino
Sul desco mio, nè in favor mio te voglio
Propizïante del favor sull'are
Per farmi bello d'un regal sorriso
Tu l'odi, e
accogli la pedestre Musa, 55
Di liet....
Non te desio
propizïante all'ara
Della possanza in pro nostro, nè chiedo
Da te sommo cantor plausi al mio verso
Ma cor che . . . . . . . |
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[03]
Sonetto
[Alla Donna gentile]
Di
questo sonetto scrisse la Donna gentile al Mazzini, che fu composto dal Foscolo in
casa di lei nel 1813, quando il Fabre gli dipingeva il ritratto; e che Ugo, dopo
scrittolo, lo lacerò in minutissimi pezzetti; i quali essa raccolse, e riunì, e impastò
poi dietro il ritratto del Foscolo stesso, che il Garagalli dipinse sopra quello del
Fabre. Io, ristampandolo, seguo la lezione dell'accennato autografo, diversa in due luoghi
da quella dell'Orlandini; il quale pure dice d'aver seguito anchegli
lautografo stesso; e avverte in nota che il sonetto trovasi ricopiato di mano
altrui, e firmato dal Foscolo con le sole iniziali, sul primo foglio bianco di un
esemplare delle opere del Montecuccoli da lui donato al Fabre, e che ora conservasi nel
Museo di Mompellier.
Nelle carte della Labronica trovansi due copie
del sonetto, una delle quali tratta dall'originale appartenuto alla Donna gentile e
comunicata dal prof. Tipaldo al tipografo Resnati di Milano. Questa, che dorrebbe essere
identica alla lezione data da noi, ha invece due varianti:
v. 4 - Libertà con severe orme vaganti
v. 14 - Il mio volto per te vince la morte.
Sonetto scritto nel 1813 in casa della senese
Quirina Mocenni Magiotti, amata dal Foscolo, mentre il Fabre dipingeva il ritratto del
poeta.
Vigile è il cor sul mio sdegnoso aspetto,
E qual tu il pingi, Artefice elegante,
Dal dì ch'io vidi nel mio patrio tetto
Libertà con incerte orme vagante.
Armi vaneggio, e
il docile intelletto
Contesi alle febee Vergini sante;
Armi, armi grido; e Libertade affretto
Più ognor deluso e pertinace amante.
Voce inerme che
può? Marte raccende,
Vedilo, all'opre e a sacra ira le genti:
Siede Italia, e al flagel l'omero tende.
Pur, se
nell'onta della Patria assorte
Fien mie speranze, e i dì taciti e spenti,
Per te il mio volto almen vince la morte. |
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[04]
IN MORTE DEL PADRE
Questi
versi, di cui diedi io notizia nella mia prima edizione delle Poesie del Foscolo
furono pubblicati tutti insieme per la prima volta dal prof. Antona-Traversi in un
opuscolo per nozze (Recanati, 1888, tipografia Simboli), e ristampati da lui stesso nel
suo volume Nuovi studi letterari pubblicati a Milano dalla Tipografia Bortolotti
nel 1889. Prima della pubblicazione dell'Antana-Traversi non era noto che il secondo dei
cinque Sonetti, stampato nellAnno poetico (MDCCXCVII), e riprodotto da
tutti gli editori delle Poesie del Foscolo, me compreso. ...
Nel manoscritto precede ai versi la seguente
lettera dedicatoria del poeta alla madre: "Madre. Scorsero omai sette anni dopo la
morte del tuo dolce compagno e del mio tenero genitore. Tutte questo tempo fu di dolore,
ed io benchè avessi appena due lustri ho saputo meco dividere le tue pene, e quelle
rimembranze funeste che mi tornano innanzi, e che mi torneranno fino al sepolcro. Non
sapendo in qual modo disfogare il mio affanno, raddolcire o mia tenera genitrice, il tuo,
e rendere un omaggio a mio Padre, scrissi questi versi che or tindirizzo con le mie
lacrime. Addio, benefica Madre. Se i talenti e l'età non mi concessero versi migliori, il
mio core, il mio core saprà comprendere, amandoti, tutti i loro difetti. Tuo figlio Nic.
Ugo".
La canzone fu scritta insieme ai sonetti nel
1795, sette anni dopo la morte del padre Andrea, come afferma il poeta stesso in una
dedicatoria alla madre.
Ma a me che resta altro
che pianger sempre
Misero e sol? che senza te son nulla. |
PETRARCA. |
CANZONE.
Perchè, o mie luci, l'angoscioso pianto
Voi non cessate? ed al suo cupo affanno
Non vi piace lasciar l'anima mesta?
Troppo voi siete a quella doglia inganno
Che m'è cara soffrir finchè sia infranto
Lo stame a cui s'attien mia vita infesta,
Ben innanzi accadrà che si rivesta
Di verde e fiori il prato a mezzo verno
Pria che m'incresca di mie vive doglie,
E so il destin mi toglie
Chi era de' giorni miei pace e governo,
Almeno alle sue spoglie
Che omai sotterra son cenere frale
Si dica sospirando un caldo vale.
L'amico il Padre
è morto: or qual mai speme
Fia che più resti alle mie brame afflitte
Se non che la pietà m'apra la fossa?
Profondamente nel mio sen stan scritte
Le sante dolci sue parole estreme
Onde sovente quest'anima è scossa.
Mi traggon elle a visitar quest'ossa
Sparger miei voti, e forse al sordo vento;
Ah! che mai dissi? dall'Eterea sede
Ove beato ei siede
Non odo il suon del mio triste lamento?
E del dolor non vede
L'alta ferita? ah s'egli è ver cessate
Lugùbri voci, nè più duol gli date.
Troppo ci mi amava
in terra, e troppo forse
Se doglia provan de' beati i spirti
Ei s'addolora alla mia intensa pena.
Dunque spargiam sulla sua tomba mirti
E so fosca per lui mia vita scorse
Per lui ritorni ancor queta e serena.
Ben troncherassi un dì questa catena
Grave al mio spirto e goderò di lui
Ove luce di Dio su ognun si spande.
Ivi fia che domande
De' Frati miei, de' dolci Figli sui,
O lieto istante, o grande
Istante, a che ver me ratto non voli
Onde in braccio al mio Padre io mi consoli?
Perchè m'adduci
mai, folle desio,
A vaneggiar con tai speranze audaci?
Credi che al mio buon Padre io m'assomigli?
Ivi egli posa in grembo a liete faci
Perchè con sua saviezza il nembo rio
Seppe fuggir e del mondo i perigli.
Fuggir forse sapranli i lassi Figli
Che nel mondo imboscati a mezza notte
Soli e confusi ad erme piagge ed erte
Volgon lor pianto incerte
Ahi troppo giovanili, e troppo indotte?
Ma se fia che si merte
Un giusto grazie, ah! dal Signor dell'Etra
Consiglio e Grazie a' tuoi pupilli impetra.
Luce chieggiam e
chi l'accenda, o Padre,
Forse non v'è, forse non v'è chi porga
Acqua di chiaro fonte a nostra sete.
Se per te dunque un rio puro non sgorga,
So non diradi a noi quest'ombre sì adre,
Chi fia che ci rischiari, e ci dissete?
Egra già fora in grembo a tua quiete
Ella che a noi fu Madre, a te fu Sposa;
Se non che, lassa! ancor viver si vuole
Per sua tenera prole,
Ma del suo lacrimar unqua riposa;
Anzi meco si duole
Dicendo, o Figlio, a te chiedo conforto
Poichè il mio Sposo il mio buon Sposo è morto.
E qual da me
conforto? e quale io posso,
Padre, se il terzo lustro appena io varco,
Prestar sollievo a sua doglia cotanta?
Ahi che mal se di quel soave incarco
Gravar per anco il mio debile dosso
Che il tuo gravò per quasi anni quaranta.
Sol suonan pianto e muto orrore ammanta
Que' dolci lochi ov'io ti vidi un giorno
Porger a' tuoi Figliuoli e baci e pane,
E in fogge care e strane
Saltellar essi a tue ginocchia intorno.
Ed or, ahi! che rimane
Altro che aver in grembo gli orfanelli
E alle lor grida lacrimar con elli?
O cupa notte! o
tenebroso istante!
O tetra bara, o feretro funebre
Ove il padre vid'io la volta estrema!
Dal duolo avvolti e da vostre tenebre
Venite agli infelici ora d'innante
Onde ognun sopra voi sospiri e gema.
Qui mia suora innocente e guarda e trema
L'istupidita genitrice nostra
Che fitti ha gli occhi al suol nè fiato manda;
Qui il fanciul che addomanda
"Che fu? che avvenne?" - e mesto indi si prostra.
E al padre raccomanda
Quinci il ritorno; e un altro che col dito
Tergesi i lumi, e fa al suo pianto invito.
E a squallor tanto
in mezzo io con la fronte
Dalle man sostenuta, i miei sospiri
Traggo più ardenti, e li rattengo invano.
Par che d'intorno a me l'ombra s'aggiri
E dello smorte luci il caldo fonte
Egli m'asciughi in atto dolce umano:
Rammento allora qual diemmi la mano
Qual me la strinse e qual mi benedisse
Coi sguardi ove mancavangli gli accenti!
Qual " miei Figli innocenti".
Disse, " ti raccomando " e più non disse,
Qual di Angeli fulgenti
Sull'ale io vidi sgombra del suo volo
L'alma rapita a innamorare il Cielo.
Canzon, tu oscura,
dolorosa, e sola
Ove altri orfani stanno in pianto e in duolo
Drizza gemendo il volo
Et una amante vedova consola;
E siegui un Figlio che alla mesta notte
E alla tacita luna
Fra lacrime dirotte
Narra le tempre di sua rea Fortuna:
Ivi per l'aria bruna
T'innoltra, e digli in suon d'aura notturna:
Solo non piangi del tuo Padre all'urna. |
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[05]
SONETTI.
(in morte del padre)
I.
Padre, quand'io per la tua muta tomba
Che da sett'anni te per sempre asconde
Passo gemendo e il gemer si confonde
Al bronzo che di morte il suon rimbomba;
Trista memoria allor nel sen, mi piomba
E ti veggo del letto fra le sponde
Quel calice libar che in cor t'infonde
L'ultimo istante che a te intorno romba:
E veggo il scarso
lacrimato pane
Che dal tuo dipartir a' tuoi Figlioli
E alla Vedova tua più non rimane.
E veggo.... ahi
lasso! tutto veggo, e tutto
Che sei morto mi dice, e che a noi soli
Non altro avanza che miseria e lutto. |
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[05-2]
II.
Era la notte; e sul funereo letto
Agonizzante il genitor vid'io
Tergersi gli occhi, e con pietoso aspetto
Mirarmi, e dir in suon languido: Addio.
Indi obbliato ogni
terreno obbietto
Erger la fronte ed affisarsi in dio,
Mentre avvolta dai crin batteasi il petto
La Madre rispondendo al pianto mio.
E volte a noi le
luci lacrimose
Deh basti! disse: e alla mal ferma palma
Appoggiò il capo, tacque e si nascose.
E tacque ognun: ma
già spirata lalma
Cessò il silenzio, e alle strida amorose
La notturna gemea, terribil calma. |
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[05-3]
III.
Fu tutto pianto: e con un grido acuto
In braccio al Figlio disperata corse
La trista moglie, e a me stretta s'attorse
Quasi chiedendo a sua sventura ajuto.
Parlar voll'io:
ma, ogni accento perduto,
Un bacio solo il labbro mio le porse
E seco infin che trista l'alba sorse
Abbracciato io mi stetti muto muto.
A lei scorrean mie
lacrime sul seno
Tacitamente; e come ella staccosse
Vidimi il volto di sue stille pieno.
Da quel dì sempre
all'urna del consorte,
Surta di notte, squallida si mosse
A dir sue pene e ad invocar la morte. |
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[05-4]
IV.
Oh! qual'orror! un fremito funèbre
Scuote la terra ed apresi la Fossa,
Ove in mezzo a tetrissime tenèbre
Stan biancheggiando del mio padre l'ossa.
Le guato allor con incerte palpebre;
Scendo d'un salto e alla feral percossa
Gemono le profonde alte latebre
Ove ogni parte della tomba è smossa.
E già stendo la
man; già il cener santo
Raccolgo.... ahi tremo.... la più cupa notte
Mi casca intorno, e il cor gelo mi stringe:
E par che un
suono, un pianto, mi rimbrotte,
Ond'io mi fuggo, e tutto mi dipinge
L' ossa, l'orror, l'oscuritade il pianto. |
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[05-2bis]
II bis.
Rotte da tetro raggio le tenèbre
Cingeano il genitor che si giacea
Agonizzando sul letto funèbre
E i moribondi sguardi al ciel volgea.
E in me che dal sudor freddo tergea
Sua smorta fronte affisso le palpèbre,
E aprì le labbra, e addio dir mi volea....
Ma un Ahi sol trasse dall'ime latebre.
Poi mie querele
udendo lacrimose
Deh basti! disse, e alla mal ferma palma
Appoggiò il capo, tacque, e si nascose.
E anch'io pur
tacqui.... ma spirata l'alma
Cessò il silenzio, e alle strida pietose
La notturna gemea terribil calma. |
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[06]
AD AURELIO DE' GIORGI BERTÒLA
LA CAMPAGNA
ODE.
Questa Oda
fa mandata dal Foscolo al Bertòla con la lettera seguente, e pubblicata con essa dal
conte Giambattista Soardi in Rimini (tipografia Alberini, 1854) in occasione di nozze.
"Dalla Motta, 28 maggio 1794.
" Chi venne
ad importunarla ne pochi giorni, in cuii Ella si trovava in Venezia, ritorna con le
sue lettere a rinnovarle le sue schiette proteste di stima e daffetto verso il poeta
della natura,
" Io le scrivo dalla campagna dove un giorno dopo la
di lei partenza per Rimini me ne venni con glIdillj del nostro Gesnero, e col tenero
cantore di Laura. Questi riposi, che offre la solitaria libertà, svegliano ad ogni
istante entro il mio petto sensazioni, chio sento alla lettura de campestri
prospetti ne di lei fogli. Fra gli ondeggiamenti, e le dolcezze di un estro eccitato
dalla campagna non dovea forse consacrare al suo pittore i mei canti? non dovea mostrarmi
grato a quel vate, che seppe deliziarmi coi gentili suoi versi? Signore, Ella accetti
questOde chio scrissi due giorni sono fra i boschi, pieno il pensiero ed il
cuore di Lei. Possa costei cattivarmi il compatimento dell'evidente cantore delle Odi che
respirano i piaceri del rurale soggiorno e della semplice pace.
" Saranno i caratteri miei d'una risposta degnati?
Sanche per la indegnità mia non lo dovessi sperare, lamabile gentilezza del
Bertòla rigetterà offerta dun giovanotto che tenta onorarlo perchè lo stima.
" Lindirizzo sia fatto a Venezia vicino a
al campo delle Gatte, - mentre la stagione che a riscaldarsi incomincia mi spinge di nuovo
in mezzo ai tumulti duna inquieta città: inoltre fa d'uopo dirigere ogni lettera a
quella parte, perchè ma vi è nè dalla Motta, nè per la Motta sicurezza di Posta.
Anch'io presentemente faccio lo stesso.
" Signore: perdoni dellardire mio. La stima che
io ho dei di Lei talenti, e laffetto che credo di dover nutrire per la candidezza di
quellanima, che da di lei scritti traspare, mi forzano a sottoscrivermi per
sempre di Lei Signore umilissimo e devotissimo servitore
" Niccolò Foscolo ".
Aurelio de' Giorgi
Bertòla nacque a Rimini il 4 agosto 1753; fu controvoglia rinchiuso giovinetto nel
convento olivetano di Siena, dove divenne monaco; ma qualche anno dopo fuggì in Ungheria,
dove fece il soldato; tornato in Italia riprese l'abito monacale e gli studi,
diventando insegnante dello stesso convento e dedicandosi alla poesia (pubblicò le Notti
clementine e le delicate Poesie campestri) Passò poi a insegnare storia e
geografia presso l'Accademia di Marina a Napoli nel 1782 e dal 1784 fu professore di
storia presso l'Università di Pavia fino al 1793. In questo anno si portò a Vienna dove
ebbe l'autorizzazione a deporre il saio monacale e ad assumere il titolo di abate, che gli
permetteva di condurre una vita mondana. Fu celebre anche per aver usato per primo, nel
titolo di un suo libro il termine: «Filosofo della storia»; viaggiò molto per l'Italia
e nel 1797 fece parte dell'Amministrazione centrale per l'Emilia al tempo della Repubblica
Cisalpina. Fu dal Foscolo conosciuto a Venezia nel 1794, come attesta la lettera su
riportata.
O tu cantor di morbidi
Pratei, di dolci rivi,
Che i verdi poggi, e gli alberi
Soavemente avvivi
Con gli armonici versi
Da fresche tinte aspersi,
Odi un poeta
giovane,
Che il genio che lispira
Devoto siegue, e libero
Percote ardita lira,
E co' suoi canti vola
Al suo gentil Bertòla.
Fra campestri
delizie
Tranquillo e lieto io vivo.
E col pensier fantastico
Tra me canto e descrivo
Sì vaghi paeselli,
Che ognor sembran novelli.
Pingo; ma resto
attonito
Allor che su i tuoi fogli
Veggo fiorire, e sorgere
Pianto e marini scogli,
Che sembrano invitarmi
A sacrar loro i carmi.
Da me
s'invola subito
Il mio picciol soggiorno,
E sol veggo Posilipo
E il mar che vanta intorno
Di Mergellina il lido
Ameno più che Gnido.
Estatici
contemplano
Tuoi campi i cupid'occhi:
O come allor nell'anima
Sento beati tocchi,
Che mi dicono ognora:
Sì dolce vate onora.
Salve, dunque, del
tenero
Gesnèr felice alunno!
Il lor poeta adorino
D'aprile e dell'autunno
Le Grazie e i lindi Amori
Coronati di fiori.
Il lor poeta
adorino
Le serpeggianti linfe,
E dai monti scherzevoli
Scendan le gaje Ninfe,
E alternin baci in fronte
Al tòsco Anacreonte.
Ed io tesso tra
cantici
Ghirlandetta odorosa
Non d'orgogliosi lauri,
Ma sol d'umida rosa,
E il capo ombreggio al molle
Abitator del colle.
E in cor brillante
io dico:
Questa dona Natura
Al suo più ingenuo amico,
Ch'ella d'altro non cura:
Da lui schietto-dipinta
Di fior va anch'ella cinta. |
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[07]
A DANTE
ODE.
Composta nel 1795
fu pubblicata per la prima volta l'anno seguente nel giornale Mercurio dItalia
storico politico per lanno 1796.
Alto rombano i secoli
Su rapidissim'ali,
E dall'aere giù vibrano
Dritti infiammati strali
Che additano agl'ingegni
D'eterna gloria i segni:
Ma qual nebbia!
qual livido
Umor spargon dai vanni
Che in fetida caligine
Attomban nomi ed anni,
E rodono quel serto
Che ombreggia un tenue merto!
O mio Poeta, o
altissimo
Signor del sommo canto,
Che con sublime cetera
Per la casa del pianto
Girasti, e fra la gente,
Che o gioisce, o si pente,
Tu vivi eterno. -
Gloria
Di suo fulgor ti cinse,
Tuonò sua voce; un fulmine
Fu per chi ti dipinse
Testor stentato, oscuro
Di carmi e stile impuro.
Pèra! La lingua
sucida
Costui nutra nel sangue,
E per delfici lauri
Gli accerchi invece un angue,
Sanie stillante infesta,
L'abbominevol testa.
Dicesti: ed ecco
stridono
In suon ringhiante e forte
Gli aspri tartarei cardini:
Della cappa di morte
Infino a' più vestute
Ecco l'Ombre perdute.
Io già le
ascolto: echeggiano
Per l'aer senza stelle
Batter di man, bestemmie,
Orribili favelle,
Voci alte e fioche, accenti
D'ire in dolor furenti.
O Padre! o Vate!
un giovane
Cui l'estro ai cieli innalza,
Che pel genio che l'agita
Fervidamente sbalza
A inerudita cetra
Canti spargendo all'etra,
A te si prostra:
un'anima
Che in sè ognor si ravvolge,
Che in ermi boschi tacita
Fugge dall'atre bolge
Di cittadino tetto,
Gl'irraggia l'intelletto.
Di sapienza
nettare
Fra mie voglie delibo,
E, meditante, ai spiriti
Porgo l'augusto cibo
Che questa etade impura,
Famelica, non cura.
Muta di luce
eterea
Alle peccata in grembo
Fra cupo orror s'avvoltola
L'Umanità: il suo lembo
Spruzzi di sangue stilla,
Ed ella va in favilla.
Ma ira di
giustizia
Lui che può ciò che vuole
Ruggisce in cielo, e scaglia
Di spavento parole;
Vennero i giorni alfine
Di piaghe e di ruine.
Vennero si; ma
sorgere,
Giganteggiando, i nostri
Carmi vedransi, e liberi
Calpestare que mostri
Che tumidi d'orgoglio
Siedono ingiusti in soglio. |
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Edizione telematica e revisione: 1998, Giuseppe Bonghi
Edizione HTML: Dicembre 1998, Giuseppe Bonghi
Poesie di Ugo Foscolo,
Nuova Edizione critica per cura di Giuseppe Chiarini, Raffaello Giusti
editore, Livorno 1904
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ultimo aggiornamento: giovedì 24 dicembre 1998