Ugo Foscolo

FRAMMENTI DELLE GRAZIE,
IN UN SOLO INNO

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Dal ms. di Valenciennes p. 19

Cantando, o Grazie, degli eterei pregi
Di che il cielo v'adorna, o della gioja
Che vereconde voi date alla terra,
Volan temprati armonïosi i versi
Del peregrino suono uno e diverso
Di tre favelle. Al nome vostro, o Dive,
Io mi veggio d'intorno errar l'incenso
Qual si spandea su l'are agl'inni arcani
D'Anfïone: presente odo il nitrito
De' destrieri dircei; benchè Ippocrene
Li dissetasse, e li pascea dell'aure
Eolo, e prenunzia un'aquila volava
E de' suoi freni li adornava il Sole.
Pur que' vaganti Pindaro contenne
Presso Orcomeno, ed adorò le Grazie;
E delle Grazie al nome, un lazio carme
Vien sonando imenei dall'isoletta
Di Sirmione per l'argenteo Garda
Fremente con l'altera onda marina,
Da che lo nozze di Peleo cantate
Nella reggia del mar, l'aureo Catullo
Al suo Garda cantò. Sacri poeti,
A me date voi l'arte, a me de' vostri
Idiomi gli spirti, e con gli etruschi
Modi seguaci adornerò più ardito
Le note istorie, e quelle onde a me Clio
Dal santuario suo fassi cortese.
E tuo, Canova, è l'inno: al cor men fece
Dono la bella Dea che in riva d'Arno
Sacrasti alle tranquillo arti custode:
Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia
La santa immago sua tutta precinse.
Forse (o ch'io spero), o artefice di Numi,
Nuovo meco darai spirto allo Grazie
Che di tua man sorgon dal marmo: anch'io
Pingo e di vita i simulacri adorno;
Sdegno il verso che suona e che non crea;
Perchè Febo mi disse: Io Fidia primo
Ed Apelle guidai con la mia lira.
Eran l'Olimpo, e il Fulminante e i Fati
E del tridente enosigeo tremava
La genitrice terra; Amor dagli astri
Pluto feria: nè ancor v'eran le Grazie.
Una Diva correa lungo il creato
Ad agitarlo, e di Natura avea
L'austero nome: fra' celesti or gode
Di cento troni, e con più nomi ed are
Le dan rito i mortali; e più le giova
L'inno che bella Citerea la invoca.
Perchè clemente a noi che mirò afflitti
Travagliarci e adirati, un dì la santa
Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse
A fecondar le gregge di Nereo,
Apparì con le Grazie; e le raccolse
L'onda jonia primiera, onda che amica
Del lito ameno e dell'ospite musco
Da Citera ogni dì vien desiosa
A' materni miei colli: ivi fanciullo
La Deità dì Venere adorai.
Salve Zacinto! all'antenoreo prode,
De' santi Lari Idei ultimo albergo
E de' miei padri, darò i carmi e l'ossa,
E a te il pensier, chè piamente a queste
Dee non favella chi la patria obblia.
Tacea, splendido il mar poi che sostenne
Su la conchiglia assise e vezzeggiate
Dalla Diva le Grazie; e a sommo il flutto,
Quante alla prima prima aura di Zefiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,
E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sè aerei grappoli,
Van aliando su' nettarei calici,
E del mèle futuro in cor s'allegrano,
Tante a fior de l'immensa onda beata
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amabili Nereidi oceanine;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioja, alata degli Dei foriera,
Gittavan perle, delle rosee Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
Tosto che l'orme della Diva e il riso
Delle vergini sue fer di Citera
Sacro il lito, un'ignota violetta
Spuntò a' pie' de' cipressi; e d'improvviso
Molte purpuree rose amabilmente
Si conversero in candide. Fu quindi
Religione di libar col latte
Cinto di bianche rose, e cantar gl'inni
Sotto a' cipressi, e d'offerire all'ara
Il bel fioretto messagger d'Aprile.
Già bello è Aprile. Or negli aerei poggi
Di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte
Limpido alle tranquille ombre di mille
Giovinetti cipressi alle tre Dive
L'ara inalzo, e un fatidico laureto
In cui men verde serpeggia la vite
La protegge di tempio, e coronato
Canto, venite a me d'intorno, o sacri
Nel penetrale della Dea pensosa
Giovinetti d'Esperia. Era più lieta
Uranìa un dì quando le Grazie a lei
L'azzurro peplo ornavano. Con elle
Qui Galileo sedeva a spiar l'astro
Della loro regina; e il disviava
Col notturno rumor l'acqua remota
Che sotto i pioppi, amiche ombre dell'Arno,
Furtiva e argentea gli volava al guardo.
Qui a lui l'alba la luna e il sol mostrava
Gareggiando dal cielo, or le severe
Nubi su la cerulea alpe sedenti,
Or il piano che fugge alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di vigne
Scena e di templi e d'arator beati,
Or cento colli onde Apennin corona
D'ulivi e d'antri e di marmoree ville
L'elegante città, dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idioma
Tre vaghissime donne a cui le trecce
Infiora di perenni itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
Leggiadramente d'un ornato ostello,
Che a lei d'Arno futura abitatrice
I pennelli posando edificava
Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all'ara, e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue membra eleganti e fra il candore
Delle dita s'avvivano le rose,
Mentre accanto al suo petto agita l'arpa.
Scoppian dall'inquiete aeree fila,
Come raggio di sol rotti dal nembo,
Gioja insieme e pietà, poi che sonanti
Rimembran come il ciel l'uomo concesse
Al diletto e agli affanni, onde gli sia
Temprato e vario di sua vita il volo,
E come alla virtù guidi il dolore,
E il sorriso o il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie, e a chi son fauste e presenti
Dolce in core ei s'allegri, e dolce gema.
Pari un concento, se pur vera è fama,
Un dì Aspasia tessea lungo l'Ilisso:
Era allor delle Dee sacerdotessa,
E intento al suono Socrate libava
Sorridente a quell'ara, e col pensiero
Quasi al sereno dell'Olimpo alzossi.
Quinci il veglio mirò correre obbliquo
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Daranno a voi dolor novello i fitti
E gioja eterna. E sparve, e trasvolava
Due primi cieli, e si cingea del puro
Lume dell'astro suo. L'udì Armonia
E giubilando l'etere commosse.
Chè quando Citerea torna a' beati
Cori, Armonia su per le vie stellate
Move plauso alla Dea pel cui favore
Temprò un dì l'universo . . . . .
Non rende suono che tant'alto arrivi;
Ben tu, donna dell'arpa, oggi potrai
. . . . l'inno. Udite or coli divoto
Silenzio, o alunni di quest'ara, udite.
Già del piè delle dita e dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note
Che pingon come l'Armonia diè moto
Agli astri all'onda eterea e alla natante
Terra per l'oceàno e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Coi raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
E i suoni all'aere, e diè i colori al Sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla Fortuna agitatrice e al Tempo,
Sì che le cose dissonando insieme
Rendean concento all'armonia del mondo.
Come quando più gaio Euro provoca
Su l'alba il queto Lario, e a quel susurro
Canta il nocchiero, e allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Su le gondole erranti; e dalle sponde,
Lietissimo specchiandosi nell'onde,
Risponde il pastorel con la sua piva;
Per entro i colli rintronano i corni
Terror del cavriol, mentre in cadenza
Di Lecco il malleo domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
Perde le reti il pescatore, ed ode:
Tal diffuso dell'arpa erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli.
Or le recate, o vergini, i canestri
E le rose e gli allori, a cui paterni
Nell'ombrifero Pitti irrigatori
Son gli etruschi Silvani, a far più vago
Il giovin seno alle mortali etrusche,
Emule d'avvenenza e di ghirlande
Soave danno al pellegrin se innoltra
Improvviso ne' lucidi teatri,
E quell'intenta voluttà del canto
Ed errare un desio dolce d'amore
Mira ne' volti femminili, e l'aura
Piena di fiori gli confonde il core.
Recate insieme, o vergini, le conche
De l'alabastro provvide di fresca
Linfa e di vita ahi breve! ai montanini
Gelsomini, e alla mammola dogliosa
Di non morir sul crine alle fuggiasche
Oreadi di Fiesole, e compianta
Dal solitario venticel notturno.
Dato il rustico giglio, e se men alte
Ha le forme fraterne, il manto veste
Degli amaranti inviolato; unite
Aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie
Di Bellosguardo, che all'amante suo
Coglie Pomona, e a' garofani arditi
Delle pompe diverse e del legnaggio
E i mille fior che a' . . . . dell'Aurora
Novella preda a’ nostri liti addussero
Vittorïosi i Zefiri su l'ale,
E or fra' cedri al suo talamo imminenti
D'ospite amore e di tepori industri
Questa gentil sacerdotessa allegra.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Come se a' raggi d'Espero amorosi
Fuor d'una mirtea macchia escon secrete
Due tortorelle mormorando a' baci,
Guata dall'ombra l'upupa e sen duole,
Fuggono quelle paurose al bosco;
Così le Grazie si fuggian tremando.
Fu lor ventura che Minerva allora
Salia que' gioghi, e ritorceva i passi
Dagli stolti Lapiti, che di stragi
Profanavan le . . . . e i venerandi
Genii ospitali, e gl'imenei. S'accorse
Del terror delle Dive, e dietro a un'alta
Rupe il cocchio depose, e le sue quattro
Leonine polledre: a queste in guardia
Diè l'elmo orrendo e l'egida e lo scudo,
E inerme agli occhi delle Grazie apparve.
Narraron esse il lutto, ed a riparo
Delle vendette del fratello, e in merto
De' grazïosi cinti e de' monili
E de' be' nodi onde sovente il crine
Avean trecciato delle olimpie spose,
Chiesero a Palla che impetrasse in cielo
Di Citerea l'ajuto. Sorridendo
La Dea rispose: Al mar scendete e liete
Adorate la madre, e un dono mio
Poscia attendete. Così detto, al corso
Diè la quadriga, e la rattenne a un'alta
Reggia che al par d'Atene ebbe già cara:
Or questa sola alberga ora che i Fati
Non lasciano ad Atene altro che il nome.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Attenuando gli apollinei rai
Volgeano i fusi lucidi le nude
Ore e del volo distendean l'ordito.
Venner le Parche di violacei pepli
Velate e il crin di quercia, e d'una trama
Raggiante adamantina al par dell'etere
Fluidissima docile al lavoro
. . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Belle vergini, addio. Se da' materni
Giardini achei vi manda esuli il fato,
Sievi dolce a membrar che un d'i per voi
Fu salva Italia, e vi fu ingrata e cara.
Sievi patria seconda. Io, finchè intatti
Verdeggieran di Bellosguardo i lauri,
Ne farò volta al mio tempietto, e offerta
Di quanti pomi educa l'anno, e quante
Fragranze ama destar l'alba d'aprile.
Qui il fonte e la secreta ara e i cipressi
E l'aure e l'ombre vi fien sacre e l'arti
Eternatrici l'armonia divina
Di che passando, o amabili n'empiete
Melodïosi i Zefiri; e di rosei
Lumi e al guardo soavi, e di contorni
Eleganti le forme, e di gentile
Foco gli atti, gli accenti e le pupille
Vi piaccia ornar dell'itale fanciulle.
lo fra’ lor coronato e fra' garzoni
All'Ausonia dirò come voi foste
Sue benefiche Dee, sì che più grata
In più splendida reggia e coli solenni
Pompe alfine v'adori; e s'oggi apriste,
In chi l'udiva, grazïoso il core
Al vagante inno mio, non verrà solo.
Mira Canova, e la bellezza e il vivo
Spirar de' vezzi nelle tre ministre,
Che all'arpa io guido a' serti e alle carole,
Vedrai qui al certo; e tu potrai lasciarle
Immortali fra noi, pria che all'Eliso
Su l'ali occulte fuggano degli anni.  
 
 
 
 
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Ultimo aggiornamento: 11 dicembre 1998