I
Tre vaghissime donne a cui le
trecce
Infiora di felici itale rose
Giovinezza, e per cui splende più bello
Sul lor sembiante il giorno, all'ara vostra
Sacerdotesse, o care Grazie, io guido.
Qui e voi che Marte non rapì alle madri
Correte, e voi che muti impallidite
Nel penetrale della Dea pensosa,
Giovinetti d'Esperia. Era più lieta
Urania un dì, quando le Grazie a lei
Il gran peplo fregiavano. Con esse
Qui Galileo sedeva a spïar l'astro
Della loro regina; e il disviava
Col notturno rumor l'acqua remota,
Che sotto a' pioppi delle rive d'Arno
Furtiva e argentea gli volava al guardo.
Qui a lui l'alba, la luna e il sol mostrava,
Gareggiando di tinte, or le severe
Nubi su la cerulea alpe sedenti,
Or il piano che fugge alle tirrene
Nereidi, immensa di città e di selve
Scena e di templi e d'arator beati,
Or cento colli, onde Appennin corona
D'ulivi e d'antri e di marmoree ville
L'elegante città, dove con Flora
Le Grazie han serti e amabile idïoma.
Date principio, o giovinetti, al rito,
E da' festoni della sacra soglia
Dilungate i profani. Ite, insolenti
Genii d'Amore, e voi livido coro
Di Momo, e voi che a prezzo Ascra attingete.
Qui né oscena malia, né plauso infido
Può, né dardo attoscato: oltre quest'ara,
Cari al volgo e a' tiranni, ite, profani.
Dolce alle Grazie è la virginea voce
E la timida offerta: uscite or voi
Dalle stanze materne ove solinghe
Amor v'insidia, o donzellette, uscite:
Gioia promette e manda pianto Amore.
Qui su l'ara le rose e le colombe
Deponete, e tre calici spumanti
Di latte inghirlandato; e fin che il rito
V'appelli al canto, tacite sedete:
Sacro è il silenzio a' vati, e vi fa belle
Più del sorriso. E tu che ardisci in terra
Vestir d'eterna giovinezza il marmo,
Or l'armonia della bellezza, il vivo
Spirar de' vezzi nelle tre ministre,
Che all'arpa io guido agl'inni e alle carole,
Vedrai qui al certo; e tu potrai lasciarle
Immortali fra noi, pria che all'Eliso
Su l'ali occulte fuggano degli anni.
Leggiadramente d'un ornato ostello,
Che a lei d'Arno futura abitatrice
I pennelli posando edificava
Il bel fabbro d'Urbino, esce la prima
Vaga mortale, e siede all'ara; e il bisso
Liberale acconsente ogni contorno
Di sue forme eleganti; e fra il candore
Delle dita s'avvivano le rose,
Mentre accanto al suo petto agita l'arpa.
Scoppian dall'inquïete aeree fila,
Quasi raggi di sol rotti dal nembo,
Gioia insieme e pietà; poi che sonanti
Rimembran come il ciel l'uomo concesse
Alle gioie e agli affanni, onde gli sia
Librato e vario di sua vita il volo,
E come alla virtù guidi il dolore,
E il sorriso e il sospiro errin sul labbro
Delle Grazie, e a chi son fauste e presenti,
Dolce in core ei s'allegri e dolce gema.
[Melodia]
Già del piè delle dita e
dell'errante
Estro, e degli occhi vigili alle corde
Ispirata sollecita le note
Che pingon come l'armonia diè moto
Agli astri, all'onda eterea e alla natante
Terra per l'oceano, e come franse
L'uniforme creato in mille volti
Co' raggi e l'ombre e il ricongiunse in uno,
E i suoni all'aere, e diè i colori al sole,
E l'alterno continuo tenore
Alla fortuna agitatrice e al tempo;
Sì che le cose dissonanti insieme
Rendan concento d'armonia divina
E innalzino le menti oltre la terra.
Come quando più gaio Euro provoca
Sull'alba il queto Lario, e a quel sussurro
Canta il nocchiero e allegransi i propinqui
Liuti, e molle il flauto si duole
D'innamorati giovani e di ninfe
Su le gondole erranti; e dalle sponde
Risponde il pastorel con la sua piva:
Per entro i colli rintronano i corni
Terror del cavrïol, mentre in cadenza
Di Lecco il malleo domator del bronzo
Tuona dagli antri ardenti; stupefatto
Perde le reti il pescatore, ed ode.
Tal dell'arpa diffuso erra il concento
Per la nostra convalle; e mentre posa
La sonatrice, ancora odono i colli. 100
Or le recate, o vergini, i canestri
E le rose e gli allori a cui materni
Nell'ombrifero Pitti irrigatori
Fur gli etruschi Silvani, a far più vago
Il giovin seno alle mortali etrusche, 105
Emule d'avvenenza e di ghirlande;
Soave affanno al pellegrin se innoltra
Improvviso ne' lucidi teatri,
E quell'intenta voluttà del canto
Ed errare un desio dolce d'amore
Mira ne' volti femminili, e l'aura
Pregna di fiori gli confonde il core.
Recate insieme, o vergini, le conche
Dell'alabastro, provvido di fresca
Linfa e di vita, ahi breve! a' montanini
Gelsomini, e alla mammola dogliosa
Di non morir sul seno alla fuggiasca
Ninfa di Pratolino, o sospirata
Dal solitario venticel notturno.
Date il rustico giglio, e se men alte
Ha le forme fraterne, il manto veste
Degli amaranti invïolato: unite
Aurei giacinti e azzurri alle giunchiglie
Di Bellosguardo che all'amante suo
Coglie Pomona, e a' garofani alteri
Della prole diversa e delle pompe,
E a' fiori che dagli orti dell'Aurora
Novella preda a' nostri liti addussero
Vittoriosi i Zefiri su l'ale,
E or fra' cedri al suo talamo imminenti
D'ospite amore e di tepori industri
Questa gentil sacerdotessa educa.
II
Ora Polinnia alata Dea
che molte
Lire a un tempo percote, e più d'ogni altra
Musa possiede orti celesti, intenda
Anche le lodi de' suoi fiori; or quando
La bella donna, delle Dee seconda
Sacerdotessa, vien recando un favo.
Nostro e disdetto alle altre genti è il rito
Per memoria de' favi onde in Italia
Con perenne ronzio fanno tesoro
Divine api alle Grazie: e chi ne assaggia
Parla caro alla patria. Ah voi narrate
Come aveste quel dono! E chi la fama
A noi fra l'ombre della terra erranti
Può abbellir se non voi, Grazie, che siete
Presenti a tutto, e Dee tutto sapete?
Quattro volte l'Aurora era salita
Su l'oriente a riveder le Grazie,
Dacché nacquero al mondo; e Giano antico,
Padre d'Italia, e l'adriaca Anfitrite
Inviavan lor doni, e un drappelletto
Di Naiadi e fanciulle eridanine,
E quante i pomi d'Anïene e i fonti
Godean d'Arno e di Tebro, o quante avea
Ninfe il mar d'Aretusa; e le guidavi
Tu più che giglio nivea Galatea.
[Passaggio delle Grazie per l'Ibla; le seguono le Api. -
"Siedono con Amore, il quale non era ancora irato con esse, in Posilipo, ed Apollo
con esse e loro canti. Amore udendo i vaticinii, e il regno delle Grazie in Italia,
meditò appunto allora di perdere l'Italia, e di allontanare in altri tempi gli imenei
casti da cui nascono i bambini, di cui le Grazie sono amanti. - Egli frattanto per perdere
allora l'Italia, armandosi di tutte le umane passioni ch'egli eccita tutte, non Fetonte,
condusse il sole che ancora non era governato da' Numi. Descrizione della caduta del sole
in Italia. - Venere viene in Italia e conduce in Cielo le Grazie: loro silenzio".
Dopo ciò séguita il canto d'Apollo]
Vaticinò, com'ei lo spirto e varia
Daranno ai vati l'armonia del plettro
Le sue liete sorelle, e Amore il pianto
Che lusinghi a pietà l'alme gentili,
E il giovine Lïeo scevra d'acerbe
Cure la vita, e Pallade i consigli,
Giove la gloria, e tutti i Numi eterno
Poscia l'alloro; ma le Grazie il mele
Persuadente grazïosi affetti,
Onde pia con gli Dei torni la terra.
E cantando vedea lieto agitarsi
Esalando profumi, il verdeggiante
Bosco d'Olimpo, e rifiorir le rose,
E scorrere di nettare i torrenti,
E risplendere il cielo, e delle Dive
Raggiar più bella l'immortal bellezza;
Però che il Padre sorrideva, e inerme
A piè del trono l'aquila s'assise.
["Giove distribuisce i pianeti agli Dei, e caccia l'Erinni
ne' ghiacci del mare australe. - Vesta dà il foco gentile alle Grazie, e le api che erano
intorno al trono di Giove le seguirono. - Le Grazie danno le api alle Muse in Imetto e in
Ibla: Teocrito, poesia pastorale. - Portano il foco di Vesta a Roma. Egeria, Numa
ec.". Giungono le api in Italia seguendo le Muse cacciate dai Tartari]
Indarno Imetto
Le richiama dal dì che a fior dell'onda
Egea, beate volatrici, il coro
Eliconio seguieno, obbedïenti
All'elegia del fuggitivo Apollo.
Però che quando su la Grecia inerte
Marte sfrenò le tartare cavalle
Depredatrici, e coronò la schiatta
Barbara d'Ottomano, allor l'Italia
Fu giardino alle Muse, e qui lo stuolo
Fabro dell'aureo mel pose a sua prole
Il felice alvear. Né le Febee
Api (sebben le altre api abbia crudeli)
Fuggono i lai della invisibil Ninfa,
Che ognor delusa d'amorosa speme,
Pur geme per le quete aure diffusa,
E il suo altero nemico ama e richiama;
Tanta dolcezza infusero le Grazie,
Per pietà della Ninfa, alle sue voci,
Che le lor api immemori dell'opra,
Oziose in Italia odono l'eco
Che al par de' carmi fe' dolce la rima.
["Nel lor viaggio si dividono le api in due schiere - Una
per l'Adria viene al Po"]
Quell'angelette scesero da prima
Ove assai preda di torrenti al mare
Porta Eridano. Ivi la fata Alcina
Di lor sorti presaga avea disperso
Molti agresti amaranti; e lungo il fiume
Gran ciel prendea con negre ombre un'incolta
Selva di lauri: su' lor tronchi Atlante
Di Ruggiero scrivea gli avi e le imprese,
E di spettri guerrier muta una schiera
E donne innamorate ivan col mago,
Aspettando il cantor; e questi i favi
Vide quivi deposti, e si mietea
Tutti gli allori; ma de' fior d'Alcina
Più grazïoso distillava il mele,
E il libò solo un lepido poeta,
Che insiem narrò d'Angelica gli affanni.
Ma non men cara l'api amano l'ombra
Del sublime cipresso, ove appendea
La sua cetra Torquato, allor che ardendo
Forsennato egli errò per le foreste,
"Sì che insieme movea pietate e riso
Nelle gentili Ninfe e ne' pastori:
Né già cose scrivea degne di riso
Se ben cose facea degne di riso".
[Tal ventura toccò alle api che arrivarono sulla riva del Po.
Altra ventura ebbe l'altro gruppo che viaggiava per il Tirreno]
Ma le angelette che disgiunte
all'Arno
Tendean per la tirrena onda col mele,
Videro deiforme una donzella
Su la riva del fiume; e l'attendea
Portando in man purpurei gigli e frondi
Liete d'ulivo. Avea riposo al fianco
Un'etrusca colonna, a sé dinanzi
Di favi desïosa un alveare.
Molte intorno a' suoi piè verdi le spighe
Spuntavano, e perian molte immature
Fra i sorgenti papaveri; mal nota,
Benché fosse divina, era la Ninfa
Alle pecchie immortali. Essa agli Dei
Non tornò mai, da che scendea ne' primi
Dì noiosi all'uomo; e il riconforta
Ma le presenti ore gl'invola; ha nome
Speranza e men infida ama i coloni.
["Architettura sino a Palladio. - Non vogliono i fiori
antichi le api in Toscana, e pigliano i moderni"]
Un mirto
Che suo dall'alto Beatrice ammira,
Venerando splendeva; e dalla cima
Battea le penne un Genio disdegnoso
Che il passato esplorando e l'avvenire
Cieli e abissi cercava, e popolato
D'anime in mezzo a tutte l'acque un monte;
Poi, tornando, spargea folgori e lieti
Raggi, e speme e terrore e pentimento
Ne' mortali; e verissime sciagure
All'ltalia cantava. Appresso al mirto
Fiorian le rose che le Grazie ogni anno
Ne' colli euganei van cogliendo, e un serto
Molle di pianto il dì sesto d'aprile
Ne recano alla Madre. A queste intorno
Dolcemente ronzarono, e sentiro
Come forse d'Eliso era venuto
Ad innestare il cespo ei che più ch'altri
Libò il mel sacro su l'Imetto, e primo
Fe' del celeste amor celebre il rito.
[Poi passa ad adombrare l'arte del "Boccaccio"]
Io dal mio poggio
Quando tacciono i venti fra le torri
Della vaga Firenze, odo un Silvano
Ospite ignoto a' taciti eremiti
Del vicino Oliveto: ei sul meriggio
Fa sua casa un frascato, e a suon d'avena
Le pecorelle sue chiama alla fonte.
Chiama due brune giovani la sera,
Né piegar l'erbe mi parean ballando.
Esso mena la danza. N'eran molte
Sotto l'alpe di Fiesole a una valle
Che da sei montagnette ond'è ricinta
Scende a sembianza di teatro acheo.
Affrico allegro ruscelletto accorse
A' lor prieghi dal monte, e fe' la valle
Limpida d'un freschissimo laghetto.
Nulla per anco delle Ninfe inteso
Avea Fiammetta allor ch'ivi a diporto
Novellando d'amori e cortesie
Con le amiche sedeva, o s'immergea,
Te, amor, fuggendo e tu ve la spiavi,
Dentro le cristalline onde più bella.
Fur poi svelati in que' diporti i vaghi
Misteri, e Dïoneo re del drappello
Le Grazie afflisse. Perseguì i colombi
Che stavan su le dense ali sospesi
A guardia d'una grotta: invan gementi
Sotto il flagel del mirto onde gl'incalza
Gli fan ombra dattorno, e gli fan prieghi
Che non s'accosti; sanguinanti e inermi
Sgombran con penne trepidanti al cielo.
Della grotta i recessi empie la luna,
E fra un mucchio di gigli addormentata
Svela a un Fauno confusa una Napea.
Gioì il protervo dell'esempio, e spera
Allettarne Fiammetta; e pregò tutti
Allor d'aita i Satiri canuti,
E quante emule ninfe eran da' giochi
E da' misteri escluse: e quegli arguti
Oziando ogni notte a Dïoneo
Di scherzi e d'antri e talami di fiori
Ridissero novelle. Or vive un libro
Dettato dagli Dei; ma sfortunata
La damigella che mai tocchi il libro!
Tosto smarrita del natio pudore
Avrà la rosa; né il rossore ad arte
Può innamorar chi sol le Grazie ha in core.
O giovinette Dee, gioia dell'inno,
Per voi la bella donna i riti vostri
Imita e le terrene api lusinga
Nel felsineo pendio d'onde il pastore
Mira Astrea che or del ciel gode e de' tardi
Alberghi di Nereo; d'indiche piante
E di catalpe onde i suoi Lari ombreggia
Sedi appresta e sollazzi alle vaganti
Schiere, o le accoglie ne' fecondi orezzi
D'armonioso speco invïolate
Dal gelo e dall'estiva ira e da' nembi.
La bella donna di sua mano i lattei
Calici del limone, e la pudica
Delle viole, e il timo amor dell'api
Innaffia, e il fior delle rugiade invoca
Dalle stelle tranquille, e impetra i favi
Che vi consacra e in cor tacita prega.
Con lei pregate, o donzellette, e meco
Voi, garzoni, miratela. Il segreto
Sospiro, il riso del suo labbro, il dolce
Foco esultante nelle sue pupille
Faccianvi accorti di che preghi, e come
L'ascoltino le Dee. E certo impetra
Che delle Dee l'amabile consiglio
Da lei s'adempia. I pregi che dal Cielo
Per pietà de' mortali han le divine
Vergini caste, non a voi li danno,
Giovani vati e artefici eleganti,
Bensì a qual più gentil donna le imita.
A lei correte, e di soavi affetti
Ispiratrici e immagini leggiadre
Sentirete le Grazie. Ah vi rimembri
Che inverecondo le spaventa Amore!
III
Torna deh! torna al suon, donna
dell'arpa;
Guarda la tua bella compagna; e viene
Ultima al rito a tesser danze all'ara.
Pur la città cui Pale empie di paschi
Con l'urne industri tanta valle, e pingui
Di mille pioppe aeree al sussurro,
Ombrano i buoi le chiuse, or la richiama
Alle feste notturne e fra quegli orti
Freschi di frondi e intorno aurei di cocchi,
Lungo i rivi d'Olona. E già tornava
Questa gentile al suo molle paese,
Così imminente omai freme Bellona
Che al Tebro, all'Arno, ov'è più sacra Italia,
Non un'ara trovò, dove alle Grazie
Rendere il voto d'una regia sposa.
Ma udì 'l canto, udì l' arpa; e a noi si volse
Agile come in cielo Ebe succinta.
Sostien del braccio un giovinetto cigno,
E togliesi di fronte una catena
Vaga di perle a cingerne l' augello.
Quei lento al collo suo del flessuoso
Collo s'attorce, e di lei sente a ciocche 360
Neri su le sue lattee piume i crini
Scorrer disciolti, e più lieto la mira
Mentr'ella scioglie a questi detti il labbro:
GRATA AGLI DEI DEL REDUCE MARITO
DA' FIUMI ALGENTI OV'HANNO PATRIA I CIGNI,
ALLE VIRGINEE DEITA' CONSACRA
L' ALTA REGINA MIA CANDIDO UN CIGNO
Accogliete, o garzoni e su le chiare
Acque vaganti intorno all' ara e al bosco
Deponete l' augello, e sia del nostro
Conte e signore; e i suoi atti venusti
Gli rendan l' onde e il suo candore, e goda
Di sé, quasi dicendo a chi lo mira,
Simbol son io della beltà. Sfrondate
Ilari carolando, o verginette,
Il mirteto e i rosai lungo i meandri
Del ruscello, versate sul ruscello,
Versateli , e al fuggente nuotatore
Che veleggia con pure ali di neve,
Fate inciampi di fiori , e qual più ameno
Fiore a voi sceglia col puniceo rostro,
Vel ponete nel seno. A quanti alati
Godon l'erbe del par l'aere ed i laghi
Amabil sire è il cigno, e con l'impero
Modesto delle grazie i suoi vassalli
Regge, ed agli altri volator sorride,
E lieto le sdegnose aquile ammira.
Sovra l'omero suo guizzan securi
Gli argentei pesci, ed ospite leale
Il vagheggiano s'ei visita all'alba
Le lor ime correnti, desioso
Di più freschi lavacri, onde rifulga
Sovra le piume sue nitido il sole.
Fioritelo di gigli. Al vago rito
Donna l'invia, che nella villa amena
De' tigli (amabil pianta, e a' molli orezzi
Propizia, e al santo coniugale amore)
Nudrialo afflitta; e a lei dal pelaghetto
Lieto accorrea, agitandole l'acque
Sotto i lauri tranquille. O di clementi
Virtù ornamento nella reggia insubre!
Finché piacque agli Dei, o agl'infelici
Cara tutela, e di tre regie Grazie
Genitrice gentil, bella fra tutte
Figlie di regi, e agl'Immortali amica!
Tutto il Cielo t'udia quando al marito
Guerreggiante a impedir l'Elba ai nemici
Pregavi lenta l'invisibil Parca
Che accompagna gli Eroi, vaticinando
L'inno funereo e l'alto avello e l'armi
Più terse e giunti alla quadriga i bianchi
Destrieri eterni a correre l'Eliso.
Sdegnan chi a' fasti di fortuna applaude
Le Dive mie, e sol fan bello il lauro
Quando Sventura ne corona i prenci.
Ma più alle Dive mie piace quel carme
Che d'egregia beltà l'alma e le forme
Con la pittrice melodia ravviva.
Spesso per l'altre età, se l'idïoma
D'Italia correrà puro a' nepoti,
(È vostro, e voi, deh! lo serbate, o Grazie!)
Tento ritrar ne' versi miei la sacra
Danzatrice, men bella allor che siede,
Men di te bella, o gentil sonatrice,
Men amabil di te quando favelli,
O nutrice dell'api. Ma se danza,
Vedila! tutta l'armonia del suono
Scorre dal suo bel corpo, e dal sorriso
Della sua bocca; e un moto, un atto, un vezzo
Manda agli sguardi venustà improvvisa.
E chi pinger la può ? Mentre a ritrarla
Pongo industre lo sguardo, ecco m'elude,
E le carole che lente disegna
Affretta rapidissima, e s'invola
Sorvolando su' fiori; appena veggio
Il vel fuggente biancheggiar fra' mirti.
[A questo pezzo doveano seguire il "Ballo delle
Baccanti", "Orfeo morto che scende e dà la lira a Virgilio", e, in fine,
le "Grazie che siedono a piangere Orfeo"]. |
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