Cantando,
o Grazie, degli eterei pregi
Di che il cielo v'adorna, e della gioia
Che vereconde voi date alla terra,
Belle vergini! a voi chieggio l'arcana
Armonïosa melodia pittrice
Della vostra beltà; sì che all'Italia
Afflitta di regali ire straniere
Voli improvviso a rallegrarla il carme.
Nella convalle fra gli aerei poggi
Di Bellosguardo, ov'io cinta d'un fonte
Limpido fra le quete ombre di mille
Giovinetti cipressi alle tre Dive
L'ara innalzo, e un fatidico laureto
In cui men verde serpeggia la vite
La protegge di tempio, al vago rito
Vieni, o Canova, e agl'inni. Al cor men fece
Dono la bella Dea che in riva d'Arno
Sacrasti alle tranquille arti custode;
Ed ella d'immortal lume e d'ambrosia
La santa immago sua tutta precinse.
Forse (o ch'io spero!) artefice di Numi,
Nuovo meco darai spirto alle Grazie
Ch'or di tua man sorgon dal marmo. Anch'io
Pingo e spiro a' fantasmi anima eterna:
Sdegno il verso che suona e che non crea;
Perché Febo mi disse: Io Fidia primo
Ed Apelle guidai con la mia lira.
Eran l'Olimpo e il Fulminante e il Fato,
E del tridente enosigeo tremava
La genitrice Terra; Amor dagli astri
Pluto feria: né ancor v'eran le Grazie.
Una Diva scorrea lungo il creato
A fecondarlo, e di Natura avea
L'austero nome: fra' Celesti or gode
Di cento troni, e con più nomi ed are
Le dan rito i mortali; e più le giova
L'inno che bella Citerea la invoca.
Perché clemente a noi che mirò afflitti
Travagliarci e adirati, un dì la santa
Diva, all'uscir de' flutti ove s'immerse
A ravvivar la gregge di Nereo,
Apparì con le Grazie; e le raccolse
L'onda Ionia primiera, onda che amica
Del lito ameno e dell'ospite musco
Da Citera ogni dì vien desïosa
A' materni miei colli: ivi fanciullo
La Deità di Venere adorai.
Salve, Zacinto! all'antenoree prode,
De' santi Lari Idei ultimo albergo
E de' miei padri, darò i carmi e l'ossa,
E a te il pensier; ché pïamente a queste
Dee non favella chi la patria obblia.
Sacra città è Zacinto. Eran suoi templi,
Era ne' colli suoi l'ombra de' boschi
Sacri al tripudio di Dïana e al coro;
Pria che Nettuno al reo Laomedonte
Munisse Ilio di torri inclite in guerra.
Bella è Zacinto. A lei versan tesori
L'angliche navi; a lei dall'alto manda
I più vitali rai l'eterno sole;
Candide nubi a lei Giove concede,
E selve ampie d'ulivi, e liberali
I colli di Lïeo: rosea salute
Prometton l'aure, da' spontanei fiori
Alimentate, e da' perpetui cedri.
Splendea tutto quel mar quando sostenne
Su la conchiglia assise e vezzeggiate
Dalla Diva le Grazie: e a sommo il flutto,
Quante alla prima prima aura di Zefiro
Le frotte delle vaghe api prorompono,
E più e più succedenti invide ronzano
A far lunghi di sé aerei grappoli,
Van alïando su' nettarei calici
E del mele futuro in cor s'allegrano,
Tante a fior dell'immensa onda raggiante
Ardian mostrarsi a mezzo il petto ignude
Le amorose Nereidi oceanine;
E a drappelli agilissime seguendo
La Gioia alata, degli Dei foriera,
Gittavan perle, dell'ingenue Grazie
Il bacio le Nereidi sospirando.
Poi come l'orme della Diva e il riso
Delle vergini sue fer di Citera
Sacro il lito, un'ignota vïoletta
Spuntò a' pie de' cipressi; e d'improvviso
Molte purpuree rose amabilmente
Si conversero in candide. Fu quindi
Religïone di libar col latte
Cinto di bianche rose e cantar gl'inni
Sotto a' cipressi ed offerire all'ara
Le perle e il primo fior nunzio d'aprile.
L'una tosto alla Dea col radïante
Pettine asterge mollemente e intreccia
Le chiome dell'azzurra onda stillanti;
L'altra ancella alle pure aure concede,
A rifiorire i prati a primavera,
L'ambrosio umore ond'è irrorato il petto
Della figlia di Giove; vereconda
La lor sorella ricompone il peplo
Sulle membra divine, e le contende
Di que' mortali attoniti al desio.
Non prieghi d'inni o danze d'imenei,
Ma di veltri perpetuo l'ululato
Tutta l'isola udia, e un suon di dardi,
E gli uomini sul vinto orso rissosi,
E de' piagati cacciatori il grido.
Cerere invan donato avea l'aratro
A que' feroci; invan d'oltre l'Eufrate
Chiamò un dì Bassareo, giovane Dio,
A ingentilir di pampini le rupi:
Il pio strumento irrugginia su' brevi
Solchi, sdegnato; e divorata, innanzi
Che i grappoli recenti imporporasse
A' rai d'autunno, era la vite: e solo
Quando apparian le Grazie, i cacciatori
E le vergini squallide, e i fanciulli
L'arco e 'l terror deponean, ammirando.
Con mezze in mar le rote iva frattanto
Lambendo il lito la conchiglia, e al lito
Pur con le braccia la spingean le molli
Nettunine. Spontanee s'aggiogarono
Alla biga gentil due delle cerve
Che ne' boschi dittei schive di nozze
Cintia a' freni educava; e poi che dome
Aveale a' cocchi suoi, pasceano immuni
Di mortale saetta. Ivi per sorte
Vagolando fuggiasche eran venute
Le avventurose, e corsero ministre
Al vïaggio di Venere. Improvvisa
Iri che segue i Zefiri col volo
S'assise auriga, e drizzò il corso all'istmo
Del Laconio paese. Ancor Citera
Del golfo intorno non sedea regina;
Dove or miri le vele alte sull'onda
Pendea negra una selva, ed esiliato
N'era ogni Dio da' figli della terra
Duellanti a predarsi: e i vincitori
D'umane carni s'imbandian convito.
Videro il cocchio e misero un ruggito,
Palleggiando la clava. Al petto strinse
Sotto il suo manto accolte, le tremanti
Sue giovinette, e: Ti sommergi, o selva!
Venere disse, e fu sommersa. Ahi tali
Forse eran tutti i primi avi dell'uomo!
Quindi in noi serpe, ahi miseri, un natio
Delirar di battaglia, e se pietose
Nel placano le Dee, spesso rïarde
Ostentando trofeo l'ossa fraterne.
Ch'io non le veggia almeno or che in Italia
Fra le messi biancheggiano insepolte!
Il bel cocchio vegnente, e il doloroso
Premio de' lor vicini arti più miti
Persuase a' Laconi. Eran da prima
Per l'intentata selva e l'oceano
Dalla Grecia divisi; e quando eretta
Agli ospitali Numi ebbero un'ara,
Vider tosto le pompe e le amorose
Gare e i regi conviti; e d'ogni parte
Correan d'Asia i guerrieri e i prenci argivi
Alla reggia di Leda. Ah non ti fossi
Irato Amor! e ben di te sovente
Io mi dorrò dacché le Grazie affliggi.
Per te all'arti eleganti ed a' felici
Ozi per te lascivi affetti, e molli
Ozi, e spergiuri a' Greci, e poi la dura
Vita, e nude a sudar nella palestra
Le fanciulle . . . onde salvarsi
Amor da te. Ma quando eri per anche
Delle Grazie non invido fratello
Sparta fioriva. Qui di Fare il golfo
Cinto d'armonïosi antri a' delfini
Qui Sparta e le fluenti dell'Eurota
Grate a' cigni; e Messene offria secura
Ne' suoi boschetti alle tortore i nidi;
Qui d'Augia ' pelaghetto, invïolato
Al pescator, da che di mirti ombrato
Era lavacro al bel corpo di Leda
E della sua figlia divina. E Amicle
Terra di fiori non bastava ai serti
Delle vergini spose; dal paese
Venian cantando i giovani alle nozze.
Non de' destrieri nitidi l'amore
Li rattenne, non Laa che fra tre monti
Ama le caccie e i riti di Dïana,
Né la maremma Elea ricca di pesce.
E non lunge è Brisea, donde il propinquo
Taigeto intese strepitar l'arcano
Tripudio, e i riti, onde il femmineo coro
Placò Lieo, e intercedean le Grazie.
[Dopo la descrizione del
viaggio delle Dee in "Arcadia" e gli episodi di "Pane" e di
"Calliroe e Ifianea", il poeta chiede alle Grazie che gli dicano ove ebbero il
primo altare]
Ma dove, o caste Dee, ditemi dove
La prima ara vi piacque, onde se invano
Or la chieggio alla terra, almen l'antica
Religione del bel loco io senta.
Tutte velate, procedendo all'alta
Dorio che di lontan gli Arcadi vede,
Le Dive mie vennero a Trio: l'Alfeo
Arretrò l'onda, e diè a lor passi il guado
Che anc'oggi il pellegrin varca ed adora.
Fe' manifesta quel portento a' Greci
La Deità; sentirono da lunge
Odorosa spirar l'aura celeste.
De' Beoti al confin siede Aspledone:
Città che l'aureo sol veste di luce
Quando riede all'occaso; ivi non lunge
Sta sull'immensa minïea pianura
La beata Orcomeno, ove il primiero
Dalle ninfe alternato e da' garzoni,
Amabil inno udirono le Grazie.
[Qui dovrebbe seguire
"l'Inno", che manca]
Così cantaro; e Citerea svelossi,
E quanti allor garzoni e giovinette
Vider la Deità furon beati,
E di Driadi col nome e di Silvani
Fur compagni di Febo. Oggi le umane
Orme evitando, e de' poeti il volgo,
Che con lira inesperta a sé li chiama,
Invisibili e muti per le selve
Tacquero. Come quando esce un'Erinne
A gioir delle terre arse dal verno,
Maligna, e lava le sue membra a' fonti
Dell'Islanda esecrati, ove più tristi
Fuman sulfuree l'acque; o a groelandi
Laghi lambiti di cerulee vampe,
Le tede alluma, e al ciel sereno aspira;
Finge perfida pria roseo splendore,
E lei deluse appellano col vago
Nome di boreale alba le genti;
Quella scorre, le nuvole in Chimere
Orrende, e in imminenti armi converte
Fiammeggianti; e calar senti per l'aura
Dal muto nembo l'aquile agitate,
Che veggion nel lor regno angui, e sedenti
Leoni, e ulular l'ombre de' lupi.
Innondati di sangue errano al guardo
Della città i pianeti, e van raggiando
Timidamente per l'aereo caos;
Tutta d'incendio la celeste volta
S'infiamma, e sotto a quell'infausta luce
Rosseggia immensa l'iperborea terra.
Quinci l'invida Dea gl'inseminati
Campi mira, e dal gelido oceano 240
A' nocchieri conteso; ed oggi forse
Per la Scizia calpesta armi e vessilli,
E d'itali guerrier corpi incompianti.
[Parrebbe che qui dovesse
seguire il pezzo di "Socrate che viene con Aspasia e i suoi discepoli all'ara"
delle Grazie. - Intanto le Dee seguitano il loro viaggio a piedi guidate da Venere, e
mentre Iride riconduce a Diana in Creta il cocchio e le cerve, esse salgono il monte Ida]
E solette radean lievi le falde
Dell'Ida irriguo di sorgenti; e quando
Fur più al Cielo propinque, ove una luce
Rosea le vette al sacro monte asperge,
E donde sembran tutte auree le stelle,
Alle vergini sue, che la seguieno,
Mandò in core la Dea queste parole:
Assai beato, o giovinette, è il regno
De' Celesti ov'io riedo; alla infelice
Terra ed a' figli suoi voi rimanete
Confortatrici: sol per voi sovr'essa
Ogni lor dono pioveranno i Numi:
E se vindici sien più che clementi,
Allor fra' nembi e i fulmini del Padre,
Vi guiderò a placarli. Al partir mio
Tale udirete un'armonia dall'alto,
Che diffusa da voi farà più liete
Le nate a delirar vite mortali,
Più deste all'Arti e men tremanti al grido
Che le promette a morte. Ospizio amico
Talor sienvi gli Elisi: e sorridete
A' vati, se cogliean puri l'alloro,
Ed a' prenci indulgenti ed alle pie
Giovani madri che a straniero latte
Non concedean gl'infanti, e alle donzelle
Che occulto amor trasse innocenti al rogo,
E a' giovinetti per la patria estinti.
Siate immortali, eternamente belle!
Più non parlava, ma spargea co' raggi
Delle pupille sue sopra le figlie
Eterno il lume della fresca aurora,
E si partiva: e la seguian cogli occhi
Di lagrime suffusi, e lei dall'alto
Vedean conversa, e questa voce udiro:
Daranno a voi dolor novelli i fati
E gioia eterna. E sparve; e trasvolando
Due primi cieli, s'avvolgea nel puro
Lume dell'astro suo. L'udì Armonia,
E giubilando l'etere commosse.
[Seguitano gli
"Effetti dell' armonia"; poi l' "Epodo", che è il seguente]
E non che ornar di canto, e chi
può tutte
Ridir l'opre de' Numi? Impazïente
Il vagante inno mio fugge ove incontri
Graziose le menti ad ascoltarlo;
Pur non so dirvi, o belle suore, addio,
E mi detta più alteri inni il pensiero.
Ma e dove or io vi seguirò, se il Fato
Ah da gran giorni omai profughe in terra
Alla Grecia vi tolse, e se l'Italia
Che v'è patria seconda i doni vostri
Misera ostenta e il vostro nume obblia?
Pur molti ingenui de' suoi figli ancora
A voi tendon le palme. Io finché viva
Ombra daranno a Bellosguardo i lauri,
Ne farò tetto all'ara vostra, e offerta
Di quanti pomi educa l'anno, e quante
Fragranze ama destar l'alba d'aprile.
E il fonte e queste pure aure e i cipressi
E secreto il mio pianto e la sdegnosa
Lira, e i silenzi vi fien sacri e l'arti.
Fra l'arti io coronato e fra le Muse,
Alla patria dirò come indulgenti
Tornate ospiti a lei, sì che più grata
In più splendida reggia e con solenni
Pompe v'onori: udrà come redenta
Fu due volte per voi, quando la fiamma
Pose Vesta sul Tebro, e poi Minerva
Diede a Flora per voi l'attico Ulivo.
Venite, o Dee, spirate, Dee, spandete
La Deità materna, e novamente
Deriveranno l'armonia gl'ingegni
Dall'Olimpo in Italia: e da voi solo,
Né dar premio potete altro più bello,
Sol da voi chiederem, Grazie, un sorriso. |
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