Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis
Genova, 11 Febbraro |
Ecco il Sole più bello! Tutte le mie fibre sono in un tremito soave perché risentono la giocondità di questo Cielo raggiante e salubre. Sono pure contento di essere partito! proseguirò fra poche ore; non so ancora dirti dove mi fermerò, né quando terminerà il mio viaggio: ma per li 16 sarò in Tolone.
Dalla Pietra, 15 Febbraro |
Strade alpestri, montagne orride dirupate, tutto il rigore del tempo, tutta la stanchezza e i fastidj del viaggio, e poi?
Nuovi tormenti e nuovi tormentati |
Scrivo da un paesetto appié delle
Alpi Marittime. E mi fu forza di sostare perché la posta è senza cavalcatura; né so
quando potrò partire. Eccomi dunque sempre con te, e sempre con nuove afflizioni: sono
destinato a non movere passo senza incontrare lungo la mia via dolore. - In questi due
giorni io usciva verso mezzodì un miglio forse lungi dall'abitato, passeggiando fra certi
oliveti che stanno verso la spiaggia del mare: io vado a consolarmi a' raggi del Sole, e a
bere di quel aere vivace; quantunque anche in questo tepido clima il verno di questo anno
è clemente meno assai dell'usato. E là mi pensava di essere tutto solo, o almeno
sconosciuto a que' viventi che passavano; ma appena mi ridussi a casa, Michele il quale
salì a ravviarmi il fuoco, mi venia raccontando, come certo uomo quasi mendico capitato
poc'anzi in questa balorda osteria gli chiese, s'io era un giovine che avea già tempo
studiato in Padova; non gli sapea dire il nome, ma porgeva assai contrassegni e di me e di
que' tempi, e nominava te pure - Davvero, seguì a dire Michele, io mi trovava
imbrogliato; gli risposi nonostante ch'ei s'apponeva: parlava veneziano; ed è pure la
dolce cosa il trovare in queste solitudini un compatriota - e poi - è così stracciato!
insomma io gli promisi - forse può dispiacere al signore - ma mi ha fatto tanta
compassione, ch'io gli promisi di farlo venire; anzi sta qui fuori. - E venga, io dissi a
Michele - e aspettandolo mi sentiva tutta la persona inondata d'una subitanea tristezza.
Il ragazzo rientrò con un uomo alto, macilento; parea giovine e bello; ma il suo volto
era contraffatto dalle rughe del dolore. Fratello! io era impellicciato e al fuoco; stava
gittato oziosamente nella seggiola vicina il mio larghissimo tabarro; l'oste andava su e
giù allestendomi da desinare - e quel misero; era appena in farsetto di tela ed io
intirizziva solo a guardarlo. Forse la mia mesta accoglienza e il meschino suo stato
l'hanno disanimato alla prima; ma poi da poche mie parole s'accorse che il tuo Jacopo non
è nato per disanimare gl'infelici; e s'assise con me a riscaldarsi, narrandomi
quest'ultimo lagrimevole anno della sua vita. Mi disse: Io conobbi famigliarmente uno
scolare che era dì e notte a Padova con voi - e ti nominò - quanto tempo è ormai ch'io
non ne odo novella! ma spero che la fortuna non gli sarà così iniqua. Io studiava allora
- non ti dirò, mio Lorenzo, chi egli è. Dovrò io contristarti con le sciagure di un
uomo che hai conosciuto felice, e che tu forse ami ancora? è troppo anche se la sorte ti
ha condannato ad affliggerti sempre per me.
Ei proseguiva: Oggi venendo da Albenga, prima di
arrivare nel paese v'ho scontrato lungo la marina. Voi non vi siete avveduto com'io mi
voltava spesso a considerarvi, e mi parea di avervi raffigurato; ma non conoscendovi che
di vista, ed essendo scorsi quattro anni, sospettava di sbagliare. Il vostro servo poi mi
accertò.
Lo ringraziai perch'ei fosse venuto a vedermi; gli
parlai di te; e voi mi siete anche più grato, gli dissi, perché m'avete recato il nome
di Lorenzo. - Non ti ripeterò il suo doloroso racconto. Emigrò per la pace di Campo
Formio, e s'arruolò Tenente nell'artiglieria Cisalpina. Querelandosi un giorno delle
fatiche e delle angarie che gli parea di sopportare, gli fu da un amico suo proferito un
impiego. Abbandonò la milizia. Ma l'amico, l'impiego, e il tetto gli mancarono. Tapinò
per l'Italia, e s'imbarcò a Livorno. - Ma mentr'esso parlava, io udiva nella camera
contigua un rammarichio di bambino e un sommesso lamento; e m'avvidi ch'egli andavasi
soffermando, e ascoltava con certa ansietà: e quando quel rammarichio taceva, ei
ripigliava. - Forse, gli diss'io, saranno passaggeri giunti pur ora. - No, mi rispose; è
la mia figlioletta di tredici mesi che piange.
E seguì a narrarmi, ch'ei mentre era Tenente
s'ammogliò a una fanciulla di povero stato, e che le perpetue marcie a cui la giovinetta
non potea reggere, e lo scarso stipendio lo stimolarono anche più a confidare in colui
che poi lo tradì. Da Livorno navigò a Marsiglia, così alla ventura: e si trascinò per
tutta Provenza; e poi nel Delfinato, cercando d'insegnare l'Italiano, senza mai potersi
trovare né lavoro né pane; ed ora tornavasi d'Avignone a Milano. Io mi rivolgo addietro,
continuò, e guardo il tempo passato, e non so come sia passato per me. Senza danaro;
seguitato sempre da una moglie estenuata, co' piedi laceri, con le braccia spossate dal
continuo peso di una creatura innocente che domanda alimento all'esausto petto di sua
madre, e che strazia con le sue strida le viscere degli sfortunati suoi genitori, mentre
non possiamo acquetarla con la ragione delle nostre disgrazie. Quante giornate arsi,
quante notti assiderati abbiamo dormito nelle stalle fra' giumenti, o come le bestie nelle
caverne! cacciato di città in città da tutti i governi, perché la mia indigenza mi
serrava la porta de' magistrati, o non mi concedeva di dar conto di me: e chi mi
conosceva, o non volle più conoscermi, o mi voltò le spalle. - E sì, gli diss'io, so
che in Milano e altrove molti de' nostri concittadini emigrati sono tenuti liberali. -
Dunque, soggiunse, la mia fiera fortuna li ha fatti crudeli unicamente per me. Anche le
persone di ottimo cuore si stancano di fare del bene; sono tanti i tapini! Io non lo so -
ma il tale - il tale (e i nomi di questi uomini ch'io scopriva così ipocriti mi erano,
Lorenzo, tante coltellate nel cuore) chi mi ha fatto aspettare assai volte vanamente alla
sua porta; chi dopo sviscerate promesse, mi fe' camminare molte miglia sino al suo casino
di diporto, per farmi la limosina di poche lire: il più umano mi gittò un tozzo di pane
senza volermi vedere; e il più magnifico mi fece così sdruscito passare fra un corteggio
di famigli e di convitati, e dopo d'avermi rammemorata la scaduta prosperità della mia
famiglia, e inculcatomi lo studio e la probità, mi disse amichevolmente che non mi
rincrescesse di ritornare domattina per tempo. Tornatomi, ritrovai nell'anticamera tre
servidori, uno de' quali mi disse che il padrone dormiva; e mi pose nelle mani due scudi e
una camicia. Ah signore! non so se voi siete ricco; ma il vostro aspetto, e que' sospiri
mi dicono che voi siete sventurato e pietoso. Credetemi; io vidi per prova che il danaro
fa parere benefico anche l'usurajo, e che l'uomo splendido di rado si degna di locare il
suo beneficio fra' cenci. - Io taceva; ed ei rizzandosi per accommiatarsi riprese a dire:
I libri m'insegnavano ad amare gli uomini e la virtù; ma i libri, gli uomini e la virtù
mi hanno tradito. Ho dotta la testa; sdegnato il cuore; e le braccia inette ad ogni utile
mestiere. Se mio padre udisse dalla terra ove sta seppellito con che gemito grave io lo
accuso di non avere fatti i suoi cinque figliuoli legnajuoli o sartori! Per la misera
vanità di serbare la nobiltà senza la fortuna, ha sprecato per noi tutto quel poco che
ei possedeva, nelle università e nel bel mondo. E noi frattanto? - Non ho mai saputo che
si abbia fatto la fortuna degli altri fratelli miei. Scrissi molte lettere; non però vidi
risposta: o sono miseri, o sono snaturati. Ma per me, ecco il frutto delle ambiziose
speranze del padre mio. Quante volte io sono condotto o dalla notte, o dalla fame a
ricoverarmi in una osteria; ma entrandovi, non so come pagherò la mattina imminente.
Senza scarpe, senza vesti - Ah copriti! gli diss'io, rizzandomi; e lo coprii del mio
tabarro. E Michele, che essendo venuto già in camera per qualche faccenda vi s'era
fermato poco discosto ascoltando, si avvicinò asciugandosi gli occhi col rovescio della
mano, e gli aggiustava in dosso quel tabarro: ma con certo rispetto, come s'ei temesse
d'insultare alla scaduta fortuna di quella persona così ben nata.
O Michele! io mi ricordo che tu potevi vivere libero
sino al dì che tuo fratello maggiore avviando una botteghetta, ti chiamò seco; eppure
scegliesti di rimanerti con me, benché servo: io noto l'amoroso rispetto per cui tu
dissimuli gl'impeti miei fantastici; e taci anche le tue ragioni ne' momenti dell'ingiusta
mia collera: e vedo con quanta ilarità te la passi fra le noje della mia solitudine; e
vedo la fede con che sostieni i travaglj di questo mio pellegrinaggio. Spesso col tuo
giovale sembiante mi rassereni; ma quando io taccio le intere giornate, vinto dal mio
nerissimo umore, tu reprimi la gioja del tuo cuore contento per non farmi accorgere del
mio stato. Pure! questo atto gentile verso quel disgraziato ha santificata la mia
riconoscenza verso di te. Tu se' il figliuolo della mia nutrice, tu se' allevato nella mia
casa; né io t'abbandonerò mai. Ma io t'amo ancor più poiché mi avvedo che il tuo stato
servile avrebbe forse indurita la bella tua indole, se non ti fosse stata coltivata dalla
mia tenera madre, da quella donna che con l'animo suo delicato, e co' soavi suoi modi fa
cortese e amoroso tutto quello che vive in lei.
Quando fui solo, diedi a Michele quel più che ho
potuto; ed esso, mentre io desinava, lo recò a quel derelitto. Appena mi sono risparmiato
tanto da arrivare a Nizza dove negozierò le cambiali ch'io né banchi di Genova mi feci
spedire per Tolone e Marsiglia. - Stamattina quando ei, prima di andarsene, è venuto con
la sua moglie e con la sua creatura per ringraziarmi, ed io vedeva con quanto giubilo mi
replicava: Senza di voi io sarei oggi andato cercando il primo spedale - io non ho avuto
animo di rispondergli; ma il mio cuore dicevagli: Ora tu hai come vivere per quattro mesi
- per sei - e poi? La bugiarda speranza ti guida intanto per mano, e l'ameno viale dove
t'innoltri mette forse a un sentiero più disastroso. Tu cercavi il primo spedale - e
t'era forse poco discosto l'asilo della fossa. Ma questo mio poco soccorso, né la sorte
mi concede di ajutarti davvero, ti ridarà più vigore da sostenere di nuovo e per più
tempo que' mali che già t'avevano quasi consunto e liberato per sempre. Goditi intanto
del presente - ma quanti disagi hai pur dovuto durare perché questo tuo stato, che a
molti pure sarebbe affannoso, a te paja sì lieto! Ah se tu non fossi padre e marito, io
ti darei forse un consiglio! - e senza dirgli parola, l'ho abbracciato; e mentre
partivano, io li guardava, stretto d'un crepacuore mortale.
Jer sera spogliandomi io pensava: Perché mai
quell'uomo emigrò dalla sua patria? perché s'ammogliò? perché mai lasciò un pane
sicuro? e tutta la storia di lui pareva il romanzo di un pazzo; ed io sillogizzava
cercando ciò ch'egli per non strascinarmi dietro tutte quelle sciagure, avrebbe potuto
fare, o non fare. Ma siccome ho più volte udito infruttuosamente ripetere sì fatti perché,
ed ho veduto che tutti fanno da medici nelle altrui malattie - io sono andato a dormire
borbottando: O mortali che giudicate inconsiderato tutto quello che non è prospero,
mettetevi una mano sul petto e poi confessate - siete più savj, o più fortunati? Or
credi tu vero tutto ciò ch'ei narrava? - Io? Credo ch'egli era mezzo nudo, ed io vestito;
ho veduto una moglie languente; ho udito le strida di una bambina. Mio Lorenzo, si vanno
pure cercando con la lanterna nuove ragioni contro del povero perché si sente nella
coscienza il diritto che la Natura gli ha dato su le sostanze del ricco. - Eh! le sciagure
non derivano per lo più che da' vizj; e in costui forse derivarono da un delitto. -
Forse? per me non lo so, né lo indago. Io giudice, condannerei tutti i delinquenti; ma io
uomo, ah! penso al ribrezzo col quale nasce la prima idea del delitto; alla fame e alle
passioni che strascinano a consumarlo; agli spasimi perpetui; al rimorso con che l'uomo si
sfama del frutto insanguinato dalla colpa, alle carceri che il reo si mira sempre
spalancate per seppellirlo - e se poi scampando dalla giustizia, ne paga il fio col
disonore e con l'indigenza, dovrò io abbandonarlo alla disperazione ed a nuovi delitti?
è egli solo colpevole? la calunnia, il tradimento del secreto, la seduzione, la
malignità, la nera ingratitudine sono delitti più atroci, ma sono essi neppur
minacciati? e chi dal delitto ha ricavato campi ed onore! - O legislatori, o giudici,
punite: ma talvolta aggiratevi ne' tuguri della plebe e ne' sobborghi di tutte le città
capitali, e vedrete ogni giorno un quarto della popolazione che svegliandosi su la paglia
non sa come placare le supreme necessità della vita. Conosco che non si può rimutare la
società; e che l'inedia, le colpe, e i supplizj sono anch'essi elementi dell'ordine e
della prosperità universale; però si crede che il mondo non possa reggersi senza giudici
né senza patiboli; ed io lo credo poiché tutti lo credono. Ma io? non sarò giudice mai.
In questa gran valle dove l'umana specie nasce, vive, muore, si riproduce, s'affanna, e
poi torna a morire, senza saper come né perché, io non distinguo che fortunati e
sfortunati. E se incontro un infelice, compiango la nostra sorte; e verso quanto balsamo
posso su le piaghe dell'uomo: ma lascio i suoi meriti e le sue colpe su la bilancia di
Dio.
Ventimiglia, 19 e 20 Febbraro |
Tu sei disperatamente infelice; tu
vivi fra le agonie della morte, e non hai la sua tranquillità: ma tu dèi tollerarle per
gli altri. - Così la Filosofia domanda agli uomini un eroismo da cui la Natura rifugge.
Chi odia la propria vita può egli amare il minimo bene che è incerto di recare alla
Società e sacrificare a questa lusinga molti anni di pianto? e come potrà sperare per
gli altri colui che non ha desiderj, né speranze per sé; e che abbandonato da tutto,
abbandona se stesso? - Non sei misero tu solo. - Pur troppo! ma questa consolazione non è
anzi argomento dell'invidia secreta che ogni uomo cova dell'altrui prosperità? La miseria
degli altri non iscema la mia. Chi è tanto generoso da addossarsi le mie infermità? e
chi anco volendo, il potrebbe? avrebbe forse più coraggio da comportarle; ma cos'è il
coraggio voto di forza? Non è vile quell'uomo che è travolto dal corso irresistibile di
una fiumana; bensì chi ha forze da salvarsi e non le adopra. Ora dov'è il sapiente che
possa costituirsi giudice delle nostre intime forze? chi può dare norma agli effetti
delle passioni nelle varie tempre degli uomini e delle incalcolabili circostanze onde
decidere: Questi è un vile, perché soggiace; quegli che sopporta, è un eroe? mentre
l'amore della vita è così imperioso che più battaglia avrà fatto il primo per non
cedere, che il secondo per sopportare.
Ma i debiti i quali tu hai verso la Società? -
Debiti? forse perché mi ha tratto dal libero grembo della Natura, quand'io non aveva né
la ragione, né l'arbitrio di acconsentirvi, né la forza di oppormivi, e mi educò fra'
suoi bisogni e fra' suoi pregiudizj? - Lorenzo, perdona s'io calco troppo su questo
discorso tanto da noi disputato. Non voglio smoverti dalla tua opinione sì avversa alla
mia; vo' bensì dileguare ogni dubbio da me. Saresti convinto al pari di me, se ti
sentissi le piaghe mie; il Cielo te le risparmi! - Ho io contratto questi debiti
spontaneamente? e la mia vita dovrà pagare, come uno schiavo, i mali che la Società mi
procaccia, solo perché gli intitola beneficj? e sieno beneficj: ne godo e li ricompenso
fino che vivo; e se nel sepolcro non le sono io di vantaggio, qual bene ritraggo io da lei
nel sepolcro? O amico mio! ciascun individuo è nemico nato della Società, perché la
Società è necessaria nemica degli individui. Poni che tutti i mortali avessero interesse
di abbandonare la vita, credi tu che la sosterrebbero per me solo? e s'io commetto
un'azione dannosa a' più, io sono punito; mentre non mi verrà fatto mai di vendicarmi
delle loro azioni, quantunque ridondino in sommo mio danno. Possono ben essi pretendere
ch'io sia figliuolo della grande famiglia; ma io rinunziando e a' beni e a' doveri comuni
posso dire: Io sono un mondo in me stesso: e intendo d'emanciparmi perché mi manca la
felicità che mi avete promesso. Che s'io dividendomi non trovo la mia porzione di
libertà; se gli uomini me l'hanno invasa perché sono più forti; se mi puniscono perché
la ridomando - non gli sciolgo io dalle loro bugiarde promesse e dalle mie impotenti
querele cercando scampo sotterra? Ah! que' filosofi che hanno evangelizzato le umane
virtù, la probità naturale, la reciproca benevolenza - sono inavvedutamente apostoli
degli astuti, ed adescano quelle poche anime ingenue e bollenti le quali amando
schiettamente gli uomini per l'ardore di essere riamate, saranno sempre vittime tardi
pentite della loro leale credulità. -
Eppur quante volte tutti questi argomenti della
ragione hanno trovato chiusa la porta del mio cuore, perch'io tuttavia mi sperava di
consecrare i miei tormenti all'altrui felicità! Ma! - per il nome d'Iddio, ascolta e
rispondimi. A che vivo? di che pro ti son io, io fuggitivo fra queste cavernose montagne?
di che onore a me stesso, alla mia patria, a' miei cari? V'ha egli diversità da queste
solitudini alla tomba? La mia morte sarebbe per me la meta de' guai, e per voi tutti la
fine delle vostre ansietà sul mio stato. Invece di tante ambasce continue, io vi darei un
solo dolore - tremendo, ma ultimo: e sareste certi della eterna mia pace. I mali non
ricomprano la vita.
E penso ogni giorno al dispendio di cui da più mesi
sono causa a mia madre; né so come ella possa far tanto. S'io mi tornassi, troverei casa
nostra vedova del suo splendore. E incominciava già ad oscurarsi, molto innanzi ch'io mi
partissi, per le pubbliche e private estorsioni le quali non restano di percuoterci. Né
però quella madre benefattrice cessa dalle sue cure: trovai dell'altro denaro a Milano;
ma queste affettuose liberalità le scemeranno certamente quegli agi fra' quali nacque.
Pur troppo fu moglie mal avventurata! le sue sostanze sostengono la mia casa che rovinava
per le prodigalità di mio padre; e l'età di lei mi fa ancora più amari questi pensieri.
- Se sapesse! tutto è vano per lo sfortunato suo figliuolo. E s'ella vedesse qui dentro -
se vedesse le tenebre e la consunzione dell'anima mia! deh! non gliene parlare, o Lorenzo:
ma vita è questa? - Ah sì! io vivo ancora; e l'unico spirito de' miei giorni è una
sorda speranza che li rianima sempre, e che pure tento di non ascoltare: non posso - e
s'io voglio disingannarla, la si converte in disperazione infernale. - Il tuo giuramento,
o Teresa, proferirà ad un tempo la mia sentenza - ma finché tu se' libera; - e il nostro
amore è tuttavia nell'arbitrio delle circostanze - dell'incerto avvenire - e della morte,
tu sarai sempre mia. Io ti parlo, e ti guardo, e ti abbraccio: e mi pare che così da
lontano tu senta l'impressioni de' miei baci e delle mie lagrime. Ma quando tu sarai
offerita dal padre tuo come olocausto di riconciliazione su l'altare di Dio - quando il
tuo pianto avrà ridata la pace alla tua famiglia - allora - non io - ma la disperazione
sola, e da sé, annienterà l'uomo e le sue passioni. E come può spegnersi, mentre vivo,
il mio amore? e come non ti sedurranno sempre nel tuo secreto le sue dolci lusinghe? ma
allora più non saranno sante e innocenti. Io non amerò, quando sarà d'altri, la donna
che fu mia - amo immensamente Teresa; ma non la moglie d'Odoardo - ohimè! tu forse mentre
scrivo sei nel suo letto! - Lorenzo! - Ahi Lorenzo! eccolo quel demonio mio persecutore;
torna a incalzarmi, a premermi, a investirmi, e m'accieca l'intelletto, e mi ferma perfino
le palpitazioni del cuore, e mi fa tutto ferocia, e vorrebbe il mondo finito con me. -
Piangete tutti - e perché mi caccia fra le mani un pugnale, e mi precede, e si volge
guardando se io lo sieguo, e mi addita dov'io devo ferire? Vieni tu dall'altissima
vendetta del Cielo? - E così nel mio furore e nelle mie superstizioni io mi prostendo su
la polvere a scongiurare orrendamente un Dio che non conosco, che altre volte ho
candidamente adorato, ch'io non offesi, di cui dubito sempre - e poi tremo, e l'adoro.
Dov'io cerco ajuto? non in me, non negli uomini: la Terra io la ho insanguinata, e il Sole
è negro.
Alfine eccomi in pace! - Che pace?
stanchezza, sopore di sepoltura. Ho vagato per queste montagne. Non v'è albero, non
tugurio, non erba. Tutto è bronchi; aspri e lividi macigni; e qua e là molte croci che
segnano il sito de' viandanti assassinati. - Là giù è il Roja, un torrente che quando
si disfanno i ghiacci precipita dalle viscere delle Alpi, e per gran tratto ha spaccato in
due questa immensa montagna. V'è un ponte presso alla marina che ricongiunge il sentiero.
Mi sono fermato su quel ponte, e ho spinto gli occhi sin dove può giungere la vista; e
percorrendo due argini di altissime rupi e di burroni cavernosi, appena si vedono imposte
su le cervici dell'Alpi altre Alpi di neve che s'immergono nel Cielo e tutto biancheggia e
si confonde - da quelle spalancate Alpi cala e passeggia ondeggiando la tramontana, e per
quelle fauci invade il Mediterraneo. La Natura siede qui solitaria e minacciosa, e caccia
da questo suo regno tutti i viventi.
I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto
dì sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi
figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente
la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? -
Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la
libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la
nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici
calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze, e
l'intelletto, e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o
trafficati come i miseri Negri, e vedremo i nostri padroni schiudere le tombe e
disseppellire, e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude
memorie: poiché oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento
dell'antico letargo.
Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il
nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, né trovo più la mia patria. - Ma poi
dico: Pare che gli uomini sieno fabbri delle proprie sciagure; ma le sciagure derivano
dall'ordine universale, e il genere umano serve orgogliosamente e ciecamente a' destini.
Noi argomentiamo su gli eventi di pochi secoli: che sono eglino nell'immenso spazio del
tempo? Pari alle stagioni della nostra vita normale, pajono talvolta gravi di
straordinarie vicende, le quali pur sono comuni e necessarj effetti del tutto. L'universo
si controbilancia. Le nazioni si divorano perché una non potrebbe sussistere senza i
cadaveri dell'altra. Io guardando da queste Alpi l'Italia piango e fremo, e invoco contro
agl'invasori vendetta; ma la mia voce si perde tra il fremito ancora vivo di tanti popoli
trapassati, quando i Romani rapivano il mondo, cercavano oltre a' mari e a' deserti nuovi
imperi da devastare, manomettevano gl'Iddii de' vinti, incatenevano principi e popoli
liberissimi, finché non trovando più dove insanguinare i lor ferri, li ritorceano contro
le proprie viscere. Così gli Israeliti trucidavano i pacifici abitatori di Canaan, e i
Babilonesi poi strascinarono nella schiavitù i sacerdoti, le madri, e i figliuoli del
popolo di Giuda. Così Alessandro rovesciò l'impero di Babilonia, e dopo avere passando
arsa gran parte della terra, si corrucciava che non vi fosse un altro universo. Così gli
Spartani tre volte smantellarono Messene e tre volte cacciarono dalla Grecia i Messeni che
pur Greci erano della stessa religione e nipoti de' medesimi antenati. Così sbranavansi
gli antichi Italiani finché furono ingojati dalla fortuna di Roma. Ma in pochissimi
secoli la regina del mondo divenne preda de' Cesari, de' Neroni, de' Costantini, de'
Vandali, e de' Papi. Oh quanto fumo di umani roghi ingombrò il Cielo della America, oh
quanto sangue d'innumerabili popoli che né timore né invidia recavano agli Europei, fu
dall'Oceano portato a contaminare d'infamia le nostre spiagge! ma quel sangue sarà un dì
vendicato e si rovescierà su i figli degli Europei! Tutte le nazioni hanno le loro età.
Oggi sono tiranne per maturare la propria schiavitù di domani: e quei che pagavano dianzi
vilmente il tributo, lo imporranno un giorno col ferro e col fuoco. La Terra è una
foresta di belve. La fame, i diluvj, e la peste sono ne' provvedimenti della Natura come
la sterilità di un campo che prepara l'abbondanza per l'anno vegnente: e chi sa?
fors'anche le sciagure di questo globo apparecchiano la prosperità di un altro.
Frattanto noi chiamiamo pomposamente virtù tutte
quelle azioni che giovano alla sicurezza di chi comanda e alla paura di chi serve. I
governi impongono giustizia: ma potrebbero eglino imporla se per regnare non l'avessero
prima violata? Chi ha derubato per ambizione le intere province, manda solennemente alle
forche chi per fame invola del pane. Onde quando la forza ha rotti tutti gli altrui
diritti, per serbarli poscia a se stessa inganna i mortali con le apparenze del giusto,
finché un'altra forza non la distrugga. Eccoti il mondo, e gli uomini. Sorgono frattanto
d'ora in ora alcuni più arditi mortali; prima derisi come frenetici, e sovente come
malfattori, decapitati: che se poi vengono patrocinati dalla fortuna ch'essi credono lor
propria, ma che in somma non è che il moto prepotente delle cose, allora sono obbediti e
temuti, e dopo morte deificati. Questa è la razza degli eroi, de' capisette, e de'
fondatori delle nazioni i quali dal loro orgoglio e dalla stupidità de' volghi si stimano
saliti tant'alto per proprio valore; e sono cieche ruote dell'oriuolo. Quando una
rivoluzione nel globo è matura, necessariamente vi sono gli uomini che la incominciano, e
che fanno de' loro teschj sgabello al trono di chi la compie. E perché l'umana schiatta
non trova né felicità né giustizia sopra la terra, crea gli Dei protettori della
debolezza e cerca premj futuri del pianto presente. Ma gli Dei si vestirono in tutti i
secoli delle armi de' conquistatori: e opprimono le genti con le passioni, i furori, e le
astuzie di chi vuole regnare.
Lorenzo, sai tu dove vive ancora la vera virtù? in
noi pochi deboli e sventurati; in noi, che dopo avere sperimentati tutti gli errori, e
sentiti tutti i guai della vita, sappiamo compiangerli e soccorrerli. Tu o Compassione,
sei la sola virtù! tutte le altre sono virtù usuraje.
Ma mentre io guardo dall'alto le follie e le fatali
sciagure della umanità, non mi sento forse tutte le passioni e la debolezza ed il pianto,
soli elementi dell'uomo? Non sospiro ogni dì la mia patria? Non dico a me lagrimando: Tu
hai una madre e un amico - tu ami - te aspetta una turba di miseri, a cui se' caro, e che
forse sperano in te - dove fuggi? anche nelle terre straniere ti perseguiranno la perfidia
degli uomini e i dolori e la morte: qui cadrai forse, e niuno avrà compassione di te; e
tu senti pure nel tuo misero petto il piacere di essere compianto. Abbandonato da tutti,
non chiedi tu ajuto dal Cielo? non t'ascolta; eppure nelle tue afflizioni il tuo cuore
torna involontario a lui - va, prostrati; ma all'are domestiche.
O natura! hai tu forse bisogno di noi sciagurati, e ci
consideri come i vermi e gl'insetti che vediamo brulicare e moltiplicarsi senza sapere a
che vivano? Ma se tu ci hai dotati del funesto istinto della vita sì che il mortale non
cada sotto la soma delle tue infermità ed ubbidisca irrepugnabilmente a tutte le tue
leggi, perché poi darci questo dono ancor più funesto della ragione? Noi tocchiamo con
mano tutte le nostre calamità ignorando sempre il modo di ristorarle.
Perché dunque io fuggo? e in quali lontane contrade
io vado a perdermi? dove mai troverò gli uomini diversi dagli uomini? O non presento io
forse i disastri, le infermità, e la indigenza che fuori della mia patria mi aspettano? -
Ah no! Io tornerò a voi, o sacre terre, che prime udiste i miei vagiti, dove tante volte
ho riposato queste mie membra affaticate, dove ho trovato nella oscurità e nella pace i
miei pochi diletti, dove nel dolore ho confidato i miei pianti. Poiché tutto è vestito
di tristezza per me, se null'altro posso ancora sperare che il sonno eterno della morte -
voi sole, o mie selve, udirete il mio ultimo lamento, e voi sole coprirete con le vostre
ombre pacifiche il mio freddo cadavere. Mi piangeranno quegli infelici che sono compagni
delle mie disgrazie - e se le passioni vivono dopo il sepolcro, il mio spirito doloroso
sarà confortato da' sospiri di quella celeste fanciulla ch'io credeva nata per me, ma che
gl'interessi degli uomini e il mio destino feroce mi hanno strappata dal petto.
Alessandria, 29 Febbraro |
Da Nizza invece d'innoltrarmi in Francia, ho preso la volta del Monferrato. Stasera dormirò a Piacenza. Giovedì scriverò da Rimino. Ti dirò allora - Or addio.
Rimino, 5 Marzo |
Tutto mi si dilegua. Io veniva a rivedere ansiosamente il Bertola; da gran tempo io non aveva sue lettere - È morto.
Ore 11 della sera |
Lo seppi: Teresa è maritata. Tu taci per non darmi la vera ferita - ma l'inferno geme quando la morte il combatte, non quando lo ha vinto. Meglio così, da che tutto è deciso: ed ora anch'io sono tranquillo, incredibilmente tranquillo. - Addio. Roma mi sta sempre sul cuore.
Dal frammento seguente che ha la data della sera stessa, apparisce che Jacopo decretò in quel dì di morire. Parecchi altri frammenti, raccolti come questo dalle sue carte, paiono gli ultimi pensieri che lo raffermarono nel suo proponimento; e però li andrò frammentendo secondo le loro date.
«Veggo la meta: ho già tutto
fermo da gran tempo nel cuore - il modo, il luogo - né il giorno è lontano.
Cos'è la vita per me? il tempo mi divorò i momenti
felici: io non la conosco se non nel sentimento del dolore: ed or anche l'illusione mi
abbandona - medito sul passato; m'affiso su i dì che verranno; e non veggo che nulla.
Questi anni che appena giungono a segnare la mia giovinezza, come passarono lenti fra i
timori, le speranze, i desideri, gl'inganni, la noja! e s'io cerco la eredità che mi
hanno lasciato, non mi trovo che la rimembranza di pochi piaceri che non sono più, e un
mare di sciagure che atterrano il mio coraggio, perché me ne fanno paventar di peggiori.
Che se nella vita è il dolore, in che più sperare? nel nulla; o in un'altra vita diversa
sempre da questa. - Ho dunque deliberato; non odio disperatamente me stesso; non odio i
viventi. Cerco da molto tempo la pace; e la ragione mi addita sempre la tomba. Quante
volte sommerso nella meditazione delle mie sventure io cominciava a disperare di me!
L'idea della morte dileguava la mia tristezza, ed io sorrideva per la speranza di non
vivere più. - Sono tranquillo, tranquillo imperturbabilmente. Le illusioni sono svanite;
i desiderj son morti: le speranze e i timori mi hanno lasciato libero l'intelletto. Non
più mille fantasmi ora giocondi ora tristi confondono e traviano la mia immaginazione:
non più vani argomenti adulano la mia ragione; tutto è calma. - Pentimenti sul passato,
noja del presente, e timor del futuro; ecco la vita. La sola morte, a cui è commesso il
sacro cangiamento delle cose, promette pace.»
Da Ravenna non mi scrisse; ma da quest'altro squarcio si vede ch'ei vi andò in quella settimana.
«Non temerariamente, ma con animo
consigliato e sicuro. Quante tempeste pria che la Morte potesse parlare così pacatamente
con me - ed io così pacato con lei!
Sull'urna tua, Padre Dante! Abbracciandola, mi sono
prefisso ancor più nel mio consiglio. M'hai tu veduto? m'hai tu forse, Padre, ispirato
tanta fortezza di senno e di cuore, mentr'io genuflusso, con la fronte appoggiata a' tuoi
marmi, meditava e l'alto animo tuo, e il tuo amore, e l'ingrata tua patria, e l'esilio, e
la povertà, e la tua mente divina? e mi sono scompagnato dall'ombra tua più deliberato e
più lieto.»
Su l'albeggiar de' 13 Marzo
smontò a' colli Euganei, e spedì a Venezia Michele, gittandosi, stivalato com'era,
subitamente a dormire. Io mi stava appunto con la madre di Jacopo, quando essa, che prima
di me si vide innanzi il ragazzo, chiese spaventata: E mio figlio? - La lettera di
Alessandria non era per anco arrivata, e Jacopo prevenne anche quella di Rimino: noi ci
pensavamo ch'ei si fosse già in Francia; perciò l'inaspettato ritorno del servo ci fu
presentimento di fiere novelle. Ei narrava: Il padrone è in campagna; non può
scrivere, perché abbiamo viaggiato tutta notte, dormiva quand'io montava a cavallo. Vengo
per avvertire che noi ripartiremo; e credo, da quel che gli ho udito dire, per Roma; se
ben mi ricordo, per Roma, e poi per Ancona, dove ci imbarcheremo: per altro il padrone sta
bene; ed è quasi una settimana ch'io lo vedo più sollevato. Mi disse che prima di
partire verrà a salutar la signora; e però ha mandato qui me ad avvisare; anzi verrà
qui domani l'altro, e forse domani. Il servo pareva lieto, ma il suo dire confuso
accrebbe le nostre sollecitudini; né si acquetaron se non il dì appresso, quando Jacopo
scrisse, come ripartirebbe per l'Isole già Venete, e che temendo di non ritornare forse
più, verrebbe a rivederci e a ricevere la benedizione di sua madre. - Questo biglietto
andò smarrito.
Frattanto nel dì del suo arrivo a' colli Euganei,
svegliatosi quattr'ore prima di sera, scese a passeggiare sino presso alla chiesa, tornò,
si rivestì, e s'avviò a casa T***. Seppe da un famigliare come da sei giorni erano tutti
venuti da Padova, e che a momenti sarebbero tornati dal passeggio. Era quasi sera, e
tornavasi a casa. Dopo non molti passi s'accorse di Teresa che veniva con l'Isabellina per
mano; e dietro alle figliuole, il signore T*** con Odoardo. Jacopo fu preso da un tremito,
e s'accostava perplesso. Teresa appena il conobbe, gridò: Eterno Iddio! e dando
indietro mezzo tramortita si sostenne sul braccio del padre suo. Com'ei fu presso, e che
venne ravvisato da tutti, ella non gli disse parola: appena il signore T*** gli stese la
mano; e Odoardo lo salutò asciuttamente. Solo l'Isabellina gli corse addosso, e mentre ei
se la prendea su le braccia, essa baciavalo, e lo chiamava il suo Jacopa, e si voltava a
Teresa additandolo; ed esso accompagnandosi a loro, parlava sottovoce con la ragazzina.
Niuno aprì bocca: Odoardo soltanto gli chiese se andasse a Venezia. - Fra pochi
giorni, rispose. Giunti alla porta, si accomiatò.
Michele che a nessun patto accettò di riposarsi in
Venezia per non lasciare solo il padrone, si tornò a' colli un'ora incirca dopo
mezzanotte, e lo trovò seduto allo scrittojo rivedendo le sue carte. Moltissime ne
bruciò; parecchie di minor conto le lasciava cadere stracciate sotto al tavolino. Il
ragazzo si coricò, lasciando l'ortolano perché ci badasse; tanto più che Jacopo non
aveva in tutto quel dì desinato. Infatti poco di poi gli fu recata parte del suo
desinare, ed ei ne mangiò attendendo sempre alle carte. Non le esaminò tutte; ma
passeggiò per la stanza, poi prese a leggere. L'ortolano che lo vedeva mi disse, che sul
finir della notte aprì le finestre, e vi si fermò un pezzo: pare che subito dopo abbia
scritto i due frammenti che sieguono: sono in diverse facciate, ma in un medesimo foglio.
«Or via: costanza. - Eccoti una
bragera, scintillante d'infiammati carboni. Ponvi dentro la mano; brucia le vive tue
carni: bada; non t'avvilire d'un gemito. - A che pro? - E a che pro deggio affettare un
eroismo che non mi giova?»
«È notte; alta, perfetta notte. A che veglio immoto
su questo libro? - Io non imparai se non la scienza di ostentare saviezza quando le
passioni non tiranneggiano l'anima. I precetti sono come le medicine, inutili quando la
infermità vince tutte le resistenze della Natura.
Alcuni sapienti si vantano d'avere domate le passioni
che non hanno mai combattuto: l'origine è questa della loro baldanza. - Amabile stella
dell'alba! tu fiammeggi dall'oriente, e mandi a questi occhi il tuo raggio - ultimo! Chi
l'avria detto sei mesi addietro quando tu comparivi prima degli altri pianeti a rallegrare
la notte, e ad accogliere i nostri saluti?
Spuntasse almeno l'aurora! - Forse Teresa si ricorda
in questo momento di me - pensiero consolatore! Oh come la beatitudine d'essere amato
raddolcisce qualunque dolore!
Ah notturno delirio! va - tu ricominci a sedurmi:
passò stagione: ho disingannato me stesso; un partito solo mi resta.»
La mattina mandò per una Bibbia ad Odoardo il quale non l'aveva: mandò al parroco, e quando gli fu recata, si chiuse. A mezzodì suonato uscì a spedire la seguente lettera, e tornò a chiudersi.
14 Marzo |
Lorenzo, ho un secreto che da più
mesi mi sta confitto nel cuore: ma l'ora della partenza sta per suonare; ed è tempo ch'io
lo deponga dentro il tuo petto.
Questo amico tuo ha sempre davanti un cadavere. - Ho
fatto quanto io doveva; quella famiglia è da quel giorno men povera - ma il padre loro
rivive più?
In uno di que' giorni del mio forsennato dolore, son
oggimai dieci mesi, io cavalcando mi dilungai molte miglia. Era la sera; io vedeva sorgere
un tempo nero, e tornando affrettavami: il cavallo divorava la via, e nondimeno i miei
sproni lo insanguinavano; e gli abbandonai tutte le briglie sul collo, invocando quasi
ch'ei rovinasse e si seppellisse con me. Entrando in un viale tutto alberi, stretto,
lunghissimo, vidi una persona - ripresi le briglie; ma il cavallo più s'irritava e più
impetuosamente lanciavasi. - Tienti a sinistra, gridai, a sinistra! Quello sfortunato
m'intese; corse a sinistra; ma sentendo più imminente lo scalpito, e in quello stretto
sentiero credendosi addosso il cavallo, ritornava sgomentato a diritta, e fu investito,
rovesciato, e le zampe gli frantumarono le cervella. In quel violento urto il cavallo
stramazzò, balzandomi di sella più passi. Perché rimasi vivo ed illeso? - Corsi ove
intendeva un lamento di moribondo: l'uomo agonizzava boccone in una palude di sangue: lo
scossi: non aveva né voce né sentimento; dopo minuti spirò. Tornai a casa. Quella notte
fu anche burrascosa per tutta la Natura; la grandine desolò le campagne; le folgori
arsero molti alberi, e il turbine fracassò la cappella di un crocefisso: ed io uscii a
perdermi tutta la notte per le montagne con le vesti e l'anima insanguinata, cercando in
quello sterminio la pena della mia colpa. Che notte! Credi tu che quel terribile spettro
mi abbia perdonato mai? - La mattina dopo, assai se ne parlò: si trovò il morto in quel
viale, mezzo miglio più lontano, sotto un mucchio di sassi fra due castagni schiantati
che attraversavano il cammino; la pioggia che sino all'alba cascò dalle alture a torrenti
ve lo strascinò con que' sassi; aveva le membra e la faccia a brani: e fu conosciuto per
le strida della moglie che lo cercava. Nessuno fu imputato. Ben mi accusavano nel mio
secreto le benedizioni di quella vedova perché ho subitamente collocata la sua figlia al
nipote del castaldo; e assegnato un patrimonio al figliuolo che si volle far prete. E jer
sera vennero a ringraziarmi di nuovo dicendomi, ch'io gli ho liberati dalla miseria in cui
da tanti anni languiva la famiglia di quel povero lavoratore. - Ah! vi sono pure tanti
altri miseri come voi; ma hanno un marito ed un padre che li consola con l'amor suo, e che
essi non cangierebbero per tutte le ricchezze della terra - e voi!
Così gli uomini nascono a struggersi scambievolmente!
Fuggono da quel viale tutti i villani, e tornandosi
da' lavori, per iscansarlo, passano per le praterie. Si dice che le notti vi si sentano
spiriti; che l'uccello del mal-augurio siede fra quelle arbori e dopo la mezzanotte urla
tre volte; che qualche sera si è veduto passare una persona morta - né io ardisco
disingannarli, né ridere di tali prestigj. Ma svelerai tutto dopo la mia morte. Il
viaggio è rischioso, la mia salute è incerta; non posso allontanarmi con questo rimorso
sepolto. Que' due figliuoli in ogni loro disgrazia e quella vedova sieno sacri nella mia
casa. Addio.
Per entro la Bibbia si trovarono, assai giorni
dopo, le traduzioni zeppe di cassature e quasi non leggibili di alcuni versi del libro
di Job, del secondo capo dell'Ecclesiaste, e di tutto il cantico di Ezechia.
-
Alle quattro dopo mezzodì si trovò a casa T***. Teresa era discesa tutta sola in giardino. Il padre di lei lo accolse affabilmente. Odoardo si fe' a leggere presso un balcone; e dopo non molto posò il libro: ne aprì un altro, e leggendo s'incamminò alle sue stanze. Allora Jacopo prese il primo libro così come fu lasciato aperto da Odoardo; era il volume IV delle tragedie dell'Alfieri: ne scorse una o due pagine; poi lesse forte:
Chi siete voi?... Chi d'aura aperta e pura Qui favellò?... Questa? è caligin densa; Tenebre sono; ombra di morte... Oh mira; Più mi t'accosta; il vedi? Il Sol d'intorno Cinto ha di sangue ghirlanda funesta... Odi tu canto di sinistri augelli? Lugubre un pianto sull'aere si spande Che me percote, e a lagrimar mi sforza... Ma che? Voi pur, voi pur piangete?... |
Il padre di Teresa guardandolo gli diceva: O mio figlio! - Jacopo seguitò a leggere sommessamente: aprì a caso quello stesso volume, e tosto posandolo, esclamò:
...Non diedi a
voi per anco Del mio coraggio prova: ei pur fia pari Al dolor mio. |
A questi versi Odoardo tornava, e gli udì proferire così efficacemente che si ristette su la porta pensoso. Mi narrava poi il signore T*** che a lui parve in quel momento di leggere la morte sul volto del nostro misero amico; e che in que' giorni tutte le parole di lui ispiravano riverenza e pietà. Favellarono poi del suo viaggio; e quando Odoardo gli chiese se starebbe di molto a tornare: Si, rispose, potrei quasi giurare che non ci rivedremo più. Non ci rivedremo noi più? dissegli il signore T*** con voce afflittissima. Allora Jacopo, come per rassicurarlo, lo guardò in viso con aria lieta insieme e tranquilla; e dopo breve silenzio, gli citò sorridendo quel passo del Petrarca:
Non
so; ma forse Tu starai in terra senza me gran tempo. |
Ridottosi a casa su l'imbrunire, si chiuse; né comparì fuori di stanza che la mattina seguente assai tardi. Porrò qui alcuni frammenti ch'io credo di quella notte, quantunque io non sappia assegnare veramente l'ora in cui furono scritti.
«Viltà? - Or tu che gridi viltà
non se' uno di quegl'infiniti mortali che infingardi guardano le loro catene, e non osano
piangere, e baciano la mano che li flagella? Che è mai l'uomo? il coraggio fu sempre
dominatore dell'universo perché tutto è debolezza e paura.
Tu m'imputi di viltà, e ti vendi intanto l'anima e
l'onore.
Vieni; mirami agonizzare boccheggiando nel mio sangue:
non tremi tu? or chi è il vile? ma trammi questo coltello dal petto - impugnalo; e di' a
te stesso: Dovrò vivere eterno? Dolore sommo forte, ma breve e generoso. Chi sa!
la fortuna ti prepara una morte più dolorosa e più infame. Confessa. Or che tu tieni
quell'arma appuntata deliberatamente sovra il tuo cuore, non ti senti forse capace di ogni
alta impresa, e non ti vedi libero padrone de' tuoi tiranni?»
Mezzanotte |
«Contemplo la campagna: guarda che notte serena e pacifica! Ecco la Luna che sorge dietro la montagna. - O Luna! amica Luna. Mandi ora tu forse su la faccia di Teresa un patetico raggio simile a questo che tu diffondi nell'anima mia? Ti ho sempre salutata mentre apparivi a consolare la muta solitudine della Terra: più volte uscendo dalla casa di Teresa ho parlato con te, e tu eri testimonio de' miei delirj: questi occhi molli di lagrime più volte accompagnata in grembo alle nubi che ti ascondevano: ti hanno cercata nelle notti cieche della tua luce. Tu risorgerai, tu risorgerai sempre più bella; ma l'amico tuo cadrà deforme e abbandonato cadavere senza risorgere più. Or ti prego di un ultimo beneficio: quando Teresa mi cercherà fra i cipressi e i pini del monte, illumina co' tuoi raggi la mia sepoltura.»
«Bell'alba! ed è pure gran tempo
ch'io non m'alzo da un sonno così riposato, e ch'io non ti vedo, o mattino, così
rilucente! - ma gli occhi miei erano sempre nel pianto; e tutti i miei pensieri nella
oscurità; e l'anima mia nuotava nel dolore.
Splendi, su splendi, o Natura, e riconforta le cure
de' mortali. Tu non risplenderai più per me. Ho già sentito tutta la tua bellezza, e
t'ho adorata, e mi sono alimentato della tua gioja; e finché io ti vedeva bella e
benefica tu mi dicevi con una voce divina: Vivi. - Ma nella mia disperazione ti ho poi
veduta con le mani grondanti di sangue; la fragranza de' tuoi fiori mi fu pregna di
veleno, amari i tuoi frutti; e mi apparivi divoratrice de' tuoi figliuoli adescandoli con
la tua bellezza e co' tuoi doni al dolore.
Sarò io dunque ingrato con te? protrarrò la vita per
vederti sì terribile, e bestemmiarti? No, no. - Trasformandoti, e acciecandomi alla tua
luce non mi abbandoni forse tu stessa, e non mi comandi ad un tempo di abbandonarti? - Ah!
ora ti guardo e sospiro; ma io ti vagheggio ancora per la reminiscenza delle passate
dolcezze, per la certezza ch'io non dovrò più temerti, e perché sto per perderti. - Né
io credo di ribellarmi da te fuggendo la vita. La vita e la morte sono del pari tue leggi:
anzi una strada concedi al nascere, mille al morire. Se non ci imputi la infermità che ne
uccide, vorrai forse imputarne le passioni che hanno gli stessi effetti e la stessa
sorgente perché derivano da te, né potrebbero opprimerci se da te non avessero ricevuto
la forza? Né tu hai prefisso una età certa per tutti. Gli uomini denno nascere, vivere,
morire: ecco le tue leggi: che rileva il tempo e il modo?
Nulla io ti sottraggo di ciò che mi hai dato. Il mio
corpo, questa infinitesima parte, ti starà sempre congiunta sotto altre forme. Il mio
spirito - se morrà con me, si modificherà con me nella massa immensa delle cose - e
s'egli è immortale! - la sua essenza rimarrà illesa.
Oh! a che più lusingo la mia ragione? Non odo la
solenne voce della Natura? Io ti feci nascere perché tu anelando alla tua felicità
cospirassi alla felicità universale; e quindi per istinto ti diedi l'amor della vita, e
l'orror della morte. Ma se la piena del dolore vince l'istinto, che altro puoi tu fare se
non correre verso le vie che io ti spiano per fuggir da' tuoi mali? Quale riconoscenza
più t'obbliga meco, se la vita ch'io ti diedi per beneficio, ti si è convertita in
dolore?»
«Che arroganza! credermi necessario! - gli anni miei
sono nello incircoscritto spazio del tempo un attimo impercettibile. Ecco fiumi di sangue
che portano tra i fumanti lor flutti recenti mucchj d'umani cadaveri: e sono questi
milioni d'uomini sacrificati a mille pertiche di terreno, e a mezzo secolo di fama che due
conquistatori si contendono con la vita de' popoli. E temerò io di immolare a me stesso
que' dì pochi e dolenti che mi saranno forse rapiti dalle persecuzioni degli uomini, o
contaminati dalle colpe?»
Cercai quasi con religione tutti i vestigi
dell'amico mio nelle sue ore supreme, e con pari religione io scrivo quelle cose che ho
potuto sapere: però non ti dico, o Lettore, se non ciò ch'io vidi, o ciò che mi fu, da
chi il vide, narrato. - Per quanto io m'abbia indagato, non seppi che abbia egli fatto ne'
dì 16, 17, 18 Marzo. Fu più volte a casa T***; ma non vi si fernò mai. Usciva tutti
que' dì quasi innanzi giorno, e si ritirava assai tardi: cenava senza dire parola: e
Michele mi accerta, che avea notti assai riposate.
La lettera che siegue non ha data, ma fu scritta addì
19.
Parmi? o Teresa mi sfugge? - essa essa mi sfugge!
Tutti - e le sta sempre al fianco Odoardo. Vorrei vederla solo una volta; e sappi ch'io mi
sarei già partito - tu pure m'affretti ognor più! - ma sarei partito, se avessi potuto
bagnarle una volta la mano di lagrime. Gran silenzio in tutta quella famiglia! Salendo le
scale temo d'incontrare Odoardo - parlandomi, non mi nomina mai Teresa. Ed è pur poco
discreto! sempre, anche dianzi, m'interroga quando e come partirò. Mi sono arretrato
improvvisamente da lui - perché davvero mi parea ch'ei sogghignasse; e l'ho fuggito
fremendo.
Torna a spaventarmi quella terribile verità ch'io
già svelava con raccapriccio - e che mi sono poscia assuefatto a meditare con
rassegnazione: Tutti siamo nemici. Se tu potessi fare il processo de' pensieri di
chiunque ti si para davanti, vedresti ch'ei ruota a cerchio una spada per allontanare
tutti dal proprio bene, e per rapire l'altrui. - Lorenzo; comincio a vacillar nuovamente.
Ma conviene disporsi - e lasciarli in pace.
P.S. Torno da quella donna decrepita di cui parmi d'averti narrato una volta. La sconsolata vive ancora! sola, abbandonata spesso gl'interi giorni da tutti che si stancano di ajutarla, vive ancora; ma tutti i suoi sensi sono da più mesi nell'orrore e nella battaglia della morte.
Seguono due frammenti scritti forse in quella notte; e pajono gli ultimi.
«Strappiamo la maschera a questa
larva che vuole atterrirci. - Ho veduto fanciulli raccapricciare e nascondersi all'aspetto
travisato della loro nutrice. O Morte! io ti guardo e t'interrogo - non le cose ma le loro
apparenze ci turbano: infiniti uomini che non s'arrischiano di chiamarti, ti affrontano
nondimeno intrepidamente! Tu pure sei necessario elemento della Natura - per me oggimai
tutto l'orror tuo si dilegua, e mi rassembri simile al sonno della sera, quiete dell'opre.
Ecco le spalle di quella sterile rupe che frodano le
sottoposte valli del raggio fecondatore dell'anno. - A che mi sto? Se devo cooperare
all'altrui felicità, io invece la turbo: s'io devo consumare la parte di calamità
assegnata ad ogni uomo, io già in ventiquattro anni ho vuotato il calice che avria potuto
bastarmi per una lunghissima vita. E la speranza? - Che monta? conosco io forse l'avvenire
per fidargli i miei giorni? Ahi che appunto questa fatale ignoranza accarezza le nostre
passioni, ed alimenta l'umana infelicità.
Il tempo vola; e col tempo ho perduto nel dolore
quella parte di vita che due mesi addietro lusingavasi di conforto. Questa piaga
invecchiata è ormai divenuta natura: io la sento nel mio cuore, nel mio cervello, in
tutto me stesso; gronda sangue, e sospira come se fosse aperta di fresco. - Or basta,
Teresa, basta: non ti par di vedere in me un infermo strascinato a lenti passi alla tomba
fra la disperazione e i tormenti, e non sa prevenire con un sol colpo gli strazj del suo
destino inevitabile?»
«Tento la punta di questo pugnale: io lo stringo, e
sorrido: qui; in mezzo a questo cuor palpitante - e sarà tutto compiuto. Ma questo ferro
mi sta sempre davanti! - chi chi osa amarti, o Teresa? Chi osò rapirti? - Fuggimi dunque;
non mi ti accostare, Odoardo! -
O! mi vado strofinando le mani per lavare la macchia
del tuo sangue - le fiuto come se fumassero di delitto. Frattanto eccole immacolate, e in
tempo di togliermi in un tratto dal pericolo di vivere un giorno di più - un giorno solo;
un momento - sciagurato! sarei vissuto troppo.»
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 luglio 2000