Ugo Foscolo
Ultime lettere di Jacopo Ortis
PARTE SECONDA
Bologna, 24 Luglio, ore 10 |
Vuoi tu versare sul cuore dell'amico tuo
qualche stilla di balsamo? Fa che Teresa ti dia il suo ritratto, e consegnalo a Michele
ch'io ti rimando imponendogli di non ritornare senza tue tisposte. Va a' colli Euganei tu
stesso: forse quella disgraziata avrà bisogno di chi la compianga. Leggi alcuni frammenti
di lettere che ne' miei affannosi delirj io tentava di scriverti. Addio. - Vedrai la
Isabellina, baciala mille volte per me. Quando nessuno si ricorderà più di me, fors'ella
nominerà qualche volta il suo Jacopo. O mio caro! avvolto in tante miserie, fatto
diffidente dagli uomini, con un'anima ardente e che pur vuole amare ed essere riamata, in
chi poss'io confidarmi se non in una fanciullina non corrotta ancora dall'esperienza né
dall'interesse, e che per una secreta simpatia mi ha tante volte bagnato del suo pianto
innocente? S'io un giorno sapessi che non mi nomina più, credo, morrei di dolore.
E tu, dimmi, Lorenzo mio, m'abbandonerai tu? L'amicizia cara
passione della gioventù ed unico conforto dell'infortunio s'agghiaccia nella prosperità.
O gli amici, gli amici! Tu non mi perderai se non quando io scenderò sotterra. Ed io
cesso dal querelarmi talvolta delle mie disgrazie perché senza di esse non sarei degno
forse di te; né avrei un cuore capace di amarti. Ma quando io non vivrò più; e tu avrai
ereditato da me il calice delle lagrime - oh! non cercare altro amico fuor di te stesso.
Bologna, la notte de' 28 Luglio |
E' mi parrebbe pure di star meno male se potessi dormire lungamente un gravissimo sonno. L'oppio non giova; mi desta dopo brevi letarghi pieni di visioni e di spasimi - e sono più notti! - Ora mi sono alzato per provarmi di scriverti; ma non mi regge più il polso. - Tornerò a coricarmi. Pare che l'anima mia siegua lo stato negro e burrascoso della Natura. Sento diluviare: e giaccio con gli occhi spalancati. Dio mio! Dio mio!
Bologna, 12 Agosto |
Oramai sono passati diciotto giorni da che Michele è ripartito per le poste, né torna ancora: e non veggo tue lettere. Tu pure mi lasci? Per Dio, scrivimi almeno: aspetterò sino a lunedì, e poi prenderò la volta di Firenze. Qui tutto il giorno sto in casa perché non posso vedermi impacciato fra tanta gente; e la notte vo baloccone per città come larva, e mi sento sbranare le viscere da tanti indigenti che giacciono per le strade, e gridano pane; non so se per loro colpa, o d'altri - so che domandano pane. Oggi tornandomi dalla posta mi sono abbattuto in due sciagurati menati al patibolo: ne ho chiesto a quei che mi si affollavano addosso; e mi è stato risposto, che uno avea rubato una mula, e l'altro cinquantasei lire per fame. Ahi Società! E se non vi fossero leggi protettrici di coloro che per arricchire col sudore e col pianto de' proprj concittadini li sospingo al bisogno e al delitto, sarebbero poi sì necessarie le prigioni e i carnefici? Io non sono sì matto da presumere di riordinare i mortali; ma perché mi si contenderà di fremere su le loro miserie e più di tutto su la lor cecità? - E mi vien detto che non v'ha settimana senza carneficina; e il popolo vi accorre come a solennità. I delitti intanto crescono co' supplizj. No, no; non voglio più respirare quest'aria fumante sempre del sangue de' miseri. - E dove?
Firenze, 27 Agosto |
Dianzi io adorava le sepolture di Galileo,
del Machiavelli, e di Michelangelo; e nell'appressarmivi io tremava preso da brivido.
Coloro che hanno eretti que' mausolei sperano forse di scolparsi della povertà e delle
carceri con le quali i loro avi punivano la grandezza di que' divini intelletti? Oh quanti
perseguitati nel nostro secolo saranno venerati da' posteri! Ma e le persecuzioni a' vivi,
e gli onori a' morti sono documenti della maligna ambizione che rode l'umano gregge.
Presso a que' marmi mi parea di rivivere in quegli anni miei
fervidi, quand'io vegliando su gli scritti de' grandi mortali mi gittava con la
immaginazione fra i plausi delle generazioni future. Ma ora troppo alte cose per me! - e
pazze forse. La mia mente è cieca, le membra vacillanti, e il cuore guasto qui - nel
profondo.
Ritienti le commendatizie di cui mi scrivi: quelle che mi
mandasti io le ho bruciate. Non voglio più oltraggi, né favori da veruno degli uomini
potenti. L'unico mortale ch'io desiderava conoscere era Vittorio Alfieri; ma odo dire
ch'ei non accoglie persone nuove: né io presumo di fargli rompere questo suo proponimento
che deriva forse da' tempi, da' suoi studj, e più ancora dalle sue passioni e
dall'esperienza del momdo. E fosse anche una debolezza, le debolezze di sì fatti mortali
vanno rispettate; e chi n'è senza, scagli la prima pietra.
Firenze, 7 Settembre |
Spalanca le finestre, o Lorenzo, e saluta
dalla mia stanza i miei colli. In un bel mattino di Settembre saluta in mio nome il cielo,
i laghi, le pianure, che si ricordano tutti della mia fanciullezza, e dove io per alcun
tempo ho riposato dopo le ansietà della vita. Se passeggiando nelle notti serene i piedi
ti conducessero verso i viali della parrocchia, io ti prego di salire sul monte de' pini
che serba tante dolci e funeste mie rimembranze. Appiè del pendio, passata la macchia de'
tigli che fanno l'aere sempre fresco e odorato, là dove que' rigagnoli adunano un
pelaghetto, troverai il salice solitario sotto i cui rami piangenti io stava più ore
prostrato parlando con le mie speranze. E come tu sarai giunto presso alla vetta, udrai
forse un cuculo il quale parea che ogni sera mi chiamasse col lugubre suo metro, e
soltanto lo interrompea quando accorgevasi del mio borbottare o del calpestio de' miei
piedi. Il pino dove allora e' si stava nascosto, fa ombra a' rottami di una cappelletta
ove anticamente si ardeva una lampada a un crocifisso: il turbine la sfracellò quella
notte che lasciò fino ad oggi e mi lascierà finché avrò vita lo spirito atterrito di
tenebre e di rimorso; e quelle ruine mezzo sotterrate mi pareano nell'oscurità pietre
sepolcrali, e più volte io mi pensava di erigere in quel luogo e fra quelle secrete ombre
il mio avello. Ed ora? chi sa ov'io lascierò le mie ossa! - Consola tutti i contadini che
ti chiederanno novelle di me. Già tempo mi si affollavano attorno, ed io li chiamava miei
amici, e mi chiamavano benefattore. Io era il medico più accetto a' loro figliuoletti
malati; io ascoltava amorevolmente le querele di que' meschini lavoratori, e componeva i
loro dissidj; io filosofava con que' rozzi vecchj cadenti ingegnandomi di dileguare dalla
lor fantasia i terrori della religione, e dipingendo i premj che il Cielo riserba all'uomo
stanco della povertà e del sudore. Ma ora s'attristeranno nel nominarmi, poiché in
questi ultimi mesi passava muto e fantastico senza talvolta rispondere a' loro saluti; e
scorgendoli da lontano mentre cantando tornavano da' lavori, o riconduceano gli armenti,
io gli scansava imboscandomi dove la selva è più negra. E mi vedeano su l'alba saltare i
fossi e sbadatamente urtar gli arboscelli, i quali crollando mi pioveano la brina su le
chiome; e così affrettarmi per le praterie, e poi arrampicarmi sul monte più alto donde
io fermandomi ritto e ansante, con le braccia stese all'oriente, aspettava il Sole per
querelarmi con lui che più non sorgeva allegro per me. Ti additeranno il ciglione della
rupe sul quale, mentre il mondo era addormentato, io sedeva intento al lontano fragore
delle acque, e al rombare dell'aria quando i venti ammassavano quasi su la mia testa le
nuvole, e le spingevano a funestare la Luna che tramontando, ad ora ad ora illuminava
nella pianura co' suoi pallidi raggi le croci conficcate su i tumuli del cimitero; e
allora il villano de' vicini tugurj, per le mie grida destandosi sbigottito, s'affacciava
alla porta, e m'udiva in quel silenzio solenne mandare le mie preci, e piangere, e
ululare, e guatare dall'alto le sepolture, e invocare la morte. O antica mia solitudine!
Ove sei tu? Non v'è gleba, non antro, non albero che non mi riviva nel cuore
alimentandomi quel soave e patetico desiderio che sempre accompagna fuori dalle sue case
l'uomo esule, e sventurato. Parmi che i miei piaceri e i miei dolori, i quali in que'
luoghi m'erano cari - tutto insomma quello ch'è mio, sia rimasto tutto con te; e che qui
non si trascini pellegrinando se non lo spettro del povero Jacopo.
Ma tu, amico unico mio, perché appena mi scrivi due nude
parole avvisandomi che tu se' con Teresa? E non mi dici né come vive; né se s'attenta di
nominarmi; né se Odoardo me l'ha rapita? Corro, e ricorro alla posta, ma senza pro; e
torno lento, smarrito, e mi si legge nel volto il presentimento di grave sciagura. E mi
par d'ora in ora udirmi pronunziare la mia sentenza mortale - Teresa ha giurato. -
Ohimè! e quando mai cesserò da' miei funebri delirj, e dalle mie crudeli lusinghe?
Addio.
Firenze, 17 Settembre |
Tu mi hai inchiodata la disperazione nel
cuore. Vedo oramai che Teresa tenta di punirmi d'averla amata. Il suo ritratto l'aveva
mandato a sua madre prima ch'io lo chiedessi? - tu me ne accerti, ed io credo; ma guardati
che per tentare di risanarmi tu non congiurassi a contendermi l'unico balsamo alle mie
viscere lacerate.
O mie speranze! si dileguano tutte; ed io siedo qui derelitto
nella solitudine del mio dolore.
In che devo più confidare? non mi tradire, Lorenzo: io non ti
perderò mai dal mio petto, perché la tua memoria è necessaria all'amico tuo: in
qualunque tua avversità tu non mi avresti perduto. Sono io dunque destinato a vedermi
svanire tutto davanti? - anche l'unico avanzo di tante speranze? ma sia così! io non mi
querelo né di lei, né di te - non di me stesso, non della mia fortuna - ben m'avvilisco
con tante lagrime, e perdo la consolazione di poter dire: Soffro i miei travagli e non
mi lamento.
Voi tutti mi lascierete - tutti: e il mio gemito vi seguirà
da per tutto; perché senza di voi non sono uomo: e da ogni luogo vi richiamerò
disperato. - Ecco le poche parole scrittemi da Teresa: «Abbiate rispetto alla vostra
vita; ve ne scongiuro per le nostre disgrazie. Non siamo noi due soli infelici. Avrete il
mio ritratto quando potrò. Mio padre piange con me; e non gli rincresce ch'io risponda al
biglietto che mi ha ricapitato da parte vostra; pur con le sue lagrime a me pare che
tacitamente mi proibisca di scrivervi d'ora innanzi - ed io piangendo lo prometto; e vi
scrivo, forse per l'ultima volta, piangendo - perché io non potrò più confessare
d'amarvi fuorché davanti a Dio solo».
Tu sei dunque più forte di me? Sì, ripeterò queste poche
righe come fossero le tue ultime volontà - parlerò teco un'altra volta, o Teresa; ma
solamente quel giorno che mi sarò agguerrito di tanta ragione e di tale coraggio da
separarmi davvero da te.
Che se ora l'amarti di questo amore insoffribile, immenso, e
tacere e seppellirmi agli occhi di tutti, potesse ridarti pace - se la mia morte potesse
espiare al tribunale de' nostri persecutori la tua passione e sopirla per sempre dentro il
tuo petto, io supplico con tutto l'ardore e la verità dell'anima mia la Natura ed il
Cielo perché mi tolgano finalmente dal mondo. Or ch'io resista al mio fatale e insieme
dolcissimo desiderio di morte, te lo prometto; ma ch'io lo vinca, ah! tu sola con le tue
preghiere potrai forse impetrarmelo dal mio Creatore - e sento che ad ogni modo ei mi
chiama. Ma tu deh! vivi per quanto puoi felice - per quanto puoi ancora. Iddio forse
convertirà a tua consolazione, sfortunata giovine, queste lagrime penitenti ch'io mando a
lui domandandogli misericordia per te. Pur troppo tu, pur troppo, tu ora partecipi del
doloroso mio stato, e per me tu se' fatta infelice - e come ho io rimeritato tuo padre
delle affettuose sue cure, della fiducia, de' suoi consigli, delle sue carezze? e tu a che
precipizio non ti se' trovata e non ti trovi per me? - Ma e di che dunque mi ha egli
beneficato tuo padre, e ch'io oggi nol ricompensi con gratitudine inaudita? non gli
presento in sacrificio il mio cuore che insanguina? Nessun mortale mi è creditore di
generosità; - né io, che pur sono, e tu 'l sai, ferocissimo giudice mio posso incolparmi
d'averti amata - bensì l'esserti causa d'affanni, è il più crudele delitto ch'io mai
potessi commettere.
Ohimè! con chi parlo? e a che pro?
Se questa lettera ti trova ancora a' miei colli, o Lorenzo,
non la mostrare a Teresa. Non le parlare di me - se te ne chiede, dille ch'io vivo, ch'io
vivo ancora - non le parlare insomma di me. Ma io te lo confesso: mi compiaccio delle mie
infermità: io stesso palpo le mie ferite dove sono più mortali, e cerco d'esulcerarle, e
le contemplo insanguinate - e mi pare che i miei martirj rechino qualche espiazione alle
mie colpe, e un breve refrigerio a' dolori di quella innocente.
Firenze, 25 Settembre |
In queste terre beate si ridestarono dalla
barbarie le sacre Muse e le lettere. Dovunque io mi volga, trovo le case ove nacquero, e
le pie zolle dove riposano que' primi grandi Toscani: ad ogni passo ho timore di
calpestare le loro reliquie. La Toscana è tuttaquanta una città continuata, e un
giardino; il popolo naturalmente gentile; il cielo sereno; e l'aria piena di vita e di
salute. Ma l'amico tuo non trova requie: spero sempre - domani, nel paese vicino - e il
domani viene, ed eccomi di città in città, e mi pesa sempre più questo stato di esilio
e di solitudine. - Neppure mi è conceduto di proseguire il mio viaggio: avea decretato di
andare a Roma a prostrarmi su le reliquie della nostra grandezza. Mi negano il passaporto;
quello già mandatomi da mia madre è per Milano: e qui, come s'io fossi venuto a
congiurare, mi hanno circuito con mille interrogazioni: non avran torto; ma io risponderò
domani, partendo. - Così noi tutti Italiani siamo fuorusciti e stranieri in Italia: e
lontani appena dal nostro territoriuccio, né ingegno, né fama, né illibati costumi ci
sono di scudo: e guai se t'attenti di mostrare una dramma di sublime coraggio! Sbanditi
appena dalle nostre porte, non troviamo chi ne raccolga. Spogliati dagli uni, scherniti
dagli altri, traditi sempre da tutti, abbandonati da' nostri medesimi concittadini, i
quali anziché compiangersi e soccorrersi nella comune calamità, guardano come barbari
tutti quegl'Italiani che non sono della loro provincia, e dalle cui membra non suonano le
stesse catene - dimmi, Lorenzo, quale asilo ci resta? Le nostre messi hanno arricchiti
nostri dominatori; ma le nostre terre non somministrano né tugurj né pane a tanti
Italiani che la rivoluzione ha balestrati fuori dal cielo natio, e che languenti di fame e
di stanchezza hanno sempre all'orecchio il solo, il supremo consigliere dell'uomo
destituto da tutta la natura, il delitto! Per noi dunque quale asilo più resta, fuorché
il deserto, e la tomba? - e la viltà! e chi più si avvilisce più vive forse; ma
vituperoso a se stesso, e deriso da quei tiranni medesimi a cui si vende, e da' quali
sarà un dì trafficato.
Ho corsa tutta Toscana. Tutti i monti e tutti i campi sono
insigni per le fraterne battaglie di quattro secoli addietro; i cadaveri intanto
d'infiniti Italiani ammazzatisi hanno fatte le fondamenta a' troni degl'Imperadori e de'
Papi. Sono salito a Monteaperto dove è infame ancor la memoria della sconfitta de'
Guelfi. - Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto silenzio, e in quella
oscurità fredda, con l'anima investita da tutte le antiche e fiere sventure che sbranano
la nostra patria - o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividire, e rizzare i capelli; io
gridava dall'alto con voce minacciosa e spaventata. E mi parea che salissero e scendessero
dalle vie dirupate della montagna le ombre di tutti que' Toscani che si erano uccisi; con
le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e fremere tempestosamente, e azzuffarsi
e lacerarsi le antiche ferite. - O! per chi quel sangue? il figliuolo tronca il capo al
padre e lo squassa per le chiome - e per chi tanta scellerata carnificina? I re per cui vi
trucidate si stringono nel bollor della zuffa le destre e pacificamente si dividono le
vostre vesti e il vostro terreno. - Urlando io fuggiva precipitosamente guatandomi dietro.
E quelle orride fantasie mi seguitavano sempre - e ancora quando io mi trovo solo di notte
mi sento attorno quegli spettri, e con essi uno spettro più tremendo di tutti, e ch'io
solo conosco. - E perché io debbo dunque, o mia patria, accusarti sempre e compiangerti,
senza niuna speranza di poterti emendare o di soccorrerti mai?
Milano, 27 Ottobre |
Ti scrissi da Parma; e poi da Milano il dì
ch'io ci giunsi: la settimana addietro ti scrissi una lettera lunghissima. Come dunque la
tua mi capita sì tarda, e per la via di Toscana d'onde partii sino dai 28 Settembre? mi
morde un sospetto: le nostre lettere sono intercette. I governi millantano la sicurezza
delle sostanze; ma invadono intanto il secreto, la preziosissima di tutte le proprietà:
vietano le tacite querele; e profanano l'asilo sacro che le sventure cercano nel petto
dell'amicizia. Sia pure! io mel dovea prevedere: ma que' loro manigoldi non andranno più
a caccia delle nostre parole e de' nostri pensieri. Troverò compenso perché le nostre
lettere d'ora in poi viaggino inviolate.
Tu mi chiedi novelle di Giuseppe Parini: serba la sua generosa
fierezza, ma parmi sgomentato dai tempi e dalla vecchiaja. Andandolo a visitare, lo
incontrai su la porta delle sue stanze mentre egli strascinavasi per uscire. Mi ravvisò;
e fermatosi sul suo bastone, mi posò la mano su la spalla, dicendomi: Tu vieni a rivedere
quest'animoso cavallo che si sente nel cuore la superbia della sua bella gioventù; ma che
ora stramazza fra via e si rialza soltanto per le battiture della fortuna. - E' paventa di
essere cacciato dalla sua cattedra, e di trovarsi costretto dopo settanta anni di studj e
di gloria ad agonizzare elemosinando.
Milano, 11 Novembre |
Chiesi la vita di Benvenuto Cellini a un librajo - Non l'abbiamo. Lo richiesi di un altro scrittore; e allora quasi dispettoso mi disse, ch'ei non vendeva libri italiani. La gente civile parla elegantemente francese, e appena intende lo schietto toscano. I pubblici atti e le leggi sono scritte in una cotal lingua bastarda che le ignude frasi suggellano la ignoranza e la servitù di chi le detta. I Demosteni Cisalpini disputarono caldamente nel loro senato per esiliare con sentenza capitale dalla repubblica la lingua greca e la latina. S'è creata una legge che avea l'unico fine di sbandire da ogni impiego il matematico Gregorio Fontana, e Vincenzo Monti, poeta; non so cos'abbiano scritto contro alla Libertà, prima che fosse discesa a prostituirsi in Italia; so che sono presti a scrivere anche per essa. E quale pur fosse la loro colpa, la ingiustizia della punizione li assolve, e la solennità d'una legge creata per due soli individui accresce la loro celebrità. - Chiesi ov'erano le sale de' Consiglj Legislativi: pochi m'intesero; pochissimi mi risposero; e niuno seppe insegnarmi.
Milano, 4 Dicembre |
Siati questa l'unica risposta a' tuoi
consiglj. In tutti i paesi ho veduto gli uomini sempre di tre sorta: i pochi che
comandano; l'universalità che serve; e i molti che brigano. Noi non possiam comandare,
né forse siam tanto scaltri; noi non siam ciechi, né vogliamo ubbidire; noi non ci
degniamo di brigare. E il meglio è vivere come que' cani senza padrone a' quali non
toccano né tozzi né percosse. - Che vuoi tu ch'io accatti protezioni ed impieghi in uno
Stato ov'io sono reputato straniero, e donde il capriccio di ogni spia può farmi
sfrattare? Tu mi esalti sempre il mio ingegno; sai tu quanto io vaglio? né più né meno
di ciò che vale la mia entrata: se per altro io non facessi il letterato di corte,
rintuzzando quel nobile ardire che irrita i potenti, e dissimulando la virtù e la
scienza, per non rimproverarli della loro ignoranza, e delle loro scelleraggini.
Letterati! - O! tu dirai, così da per tutto. - E sia così: lascio il mondo com'è; ma
s'io dovessi impacciarmente vorrei o che gli uomini mutassero modo, o che mi facessero
mozzare il capo sul palco; e questo mi pare più facile. Non che i tirannetti non si
avveggano delle brighe; ma gli uomini balzati da' trivj al trono hanno d'uopo di faziosi
che poi non possono contenere. Gonfj del presente, spensierati dell'avvenire, poveri di
fama, di coraggio e d'ingegno, si armano di adulatori e di satelliti, da' quali,
quantunque spesso traditi e derisi, non sanno più svilupparsi: perpetua ruota di
servitù, di licenza e di tirannia. Per essere padroni e ladri del popolo conviene prima
lasciarsi opprimere, depredare, e conviene leccare la spada grondante del tuo sangue.
Così potrei forse procacciarmi una carica, qualche migliajo di scudi ogni anno di più,
rimorsi, ed infamia. Odilo un'altra volta: Non reciterò mai la parte del piccolo
briccone.
Tanto e tanto so di essere calpestato; ma almen fra la turba
immensa de' miei conservi, simile a quegli insetti che sono sbadatamente schiacciati da
chi passeggia. Non mi glorio come tanti altri della servitù; né i miei tiranni si
pasceranno del mio avvilimento. Serbino ad altri le loro ingiurie e i lor beneficj; e' vi
son tanti che pur vi agognano! Io fuggirò il vituperio morendo ignoto. E quando io fossi
costretto ad uscire dalla mia oscurità - anziché mostrarmi fortunato stromento della
licenza o della tirannide, torrei d'essere vittima deplorata.
Che se mi mancasse il pane e il fuoco, e questa che tu mi
additi fosse l'unica sorgente di vita - cessi il cielo ch'io insulti alla necessità di
tanti altri che non potrebbero imitarmi - davvero, Lorenzo, io me n'andrei alla patria di
tutti, dove non vi sono né delatori, né conquistatori, né letterati di corte, né
principi; dove le ricchezze non coronano il delitto; dove il misero non è giustiziato non
per altro se non perché è misero; dove un dì o l'altro verranno tutti ad abitare con me
e a rimescolarsi nella materia, sotterra.
Aggrappandomi sul dirupo della vita, sieguo alle volte un lume
ch'io scorgo da lontano e che non posso raggiungere mai. Anzi mi pare che s'io fossi con
tutto il corpo dentro la fossa, e che rimanessi sopra terra solamente col capo, mi vedrei
sempre quel lume sfolgorare sugli occhi. O Gloria! tu mi corri sempre dinanzi, e così mi
lusinghi a un viaggio a cui le mie piante non reggono più. Ma dal giorno che tu più non
sei la mia sola e prima passione, il tuo risplendente fantasma comincia a spegnersi e a
barcollare - cade e si risolve in un mucchio d'ossa e di ceneri fra le quali io veggio
sfavillar tratto tratto alcuni languidi raggi; ma ben presto io passerò camminando sopra
il tuo scheletro, sorridendo della mia delusa ambizione. - Quante volte vergognando di
morire ignoto al mio secolo ho accarezzato io medesimo le mie angosce mentre mi sentiva
tutto il bisogno e il coraggio di terminarle! Né avrei forse sopravvissuto alla mia
patria, se non mi avesse rattenuto il folle timore, che la pietra posta sopra il mio
cadavere non seppellisse ad un tempo il mio nome. Lo confesso; sovente ho guardato con una
specie di compiacenza le miserie d'Italia, poiché mi parea che la fortuna e il mio ardire
riserbassero forse anche a me il merito di liberarla. Io lo diceva jer sera al Parini -
addio: ecco il messo del banchiere che viene a pigliar questa lettera; e il foglio tutto
pieno mi dice di finire. - Pur ho a dirti ancora assai cose: protrarrò di spedirtela sino
a sabbato; e continuerò a scriverti. Dopo tanti anni di sì affettuosa e leale amicizia,
eccoci, e forse eternamente, disgiunti. A me non resta altro conforto che di gemere teco
scrivendoti; e così mi libero alquanto da' miei pensieri; e la mia solitudine diventa
assai meno spaventosa. Sai quante notti io mi risveglio, e m'alzo, e aggirandomi
lentamente per le stanze t'invoco! siedo e ti scrivo; e quelle carte sono tutte macchiate
di pianto e piene de' miei pietosi delirj e de' miei feroci proponimenti. Ma non mi dà il
cuore d'inviartele. Ne serbo taluna, e molte ne brucio. Quando poi il Cielo mi manda
questi momenti di calma, io ti scrivo con quanto più di fermezza mi è possibile per non
contristarti del mio immenso dolore. Né mi stancherò di scriverti; tutt'altro conforto
è perduto; né tu, mio Lorenzo, ti stancherai di leggere queste carte ch'io senza
vanità, senza studio e senza rossore ti ho sempre scritto ne' sommi piaceri e ne' sommi
dolori dell'anima mia. Serbale. Presento che un dì ti saranno necessarie per vivere,
almeno come potrai, col tuo Jacopo.
Jer sera dunque io passeggiava con quel vecchio venerando nel
sobborgo orientale della città sotto un boschetto di tigli. Egli si sosteneva da una
parte sul mio braccio, dall'altra sul suo bastone: e talora guardava gli storpj suoi
piedi, e poi senza dire parola volgevasi a me, quasi si dolesse di quella sua infermità,
e mi ringraziasse della pazienza con la quale io lo accompagnava. S'assise sopra uno di
que' sedili ed io con lui: il suo servo ci stava poco discosto. Il Parini è il
personaggio più dignitoso e più eloquente ch'io m'abbia mai conosciuto; e d'altronde un
profondo, generoso, meditato dolore a chi non dà somma eloquenza? Mi parlò a lungo della
sua patria, e fremeva e per le antiche tirannidi e per la nuova licenza. Le lettere
prostituite; tutte le passioni languenti e degenerate in una indolente vilissima
corruzione: non più la sacra ospitalità, non la benevolenza, non più l'amore figliale -
e poi mi tesseva gli annali recenti, e i delitti di tanti uomiciattoli ch'io degnerei di
nominare, se le loro scelleraggini mostrassero il vigore d'animo, non dirò di Silla e di
Catilina, ma di quegli animosi masnadieri che affrontano il misfatto quantunque e' si
vedano presso il patibolo - ma ladroncelli, tremanti, saccenti - più onesto insomma è
tacerne. - A quelle parole io m'infiammava di un sovrumano furore, e sorgeva gridando:
Ché non si tenta? morremo? ma frutterà dal nostro sangue il vendicatore. - Egli mi
guardò attonito: gli occhi miei in quel dubbio chiarore scintillavano spaventosi, e il
mio dimesso e pallido aspetto si rialzò con aria minaccevole - io taceva, ma si sentiva
ancora un fremito rumoreggiare cupamente dentro il mio petto. E ripresi: Non avremo salute
mai? ah se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte, non servirebbero sì
vilmente. - Il Parini non apria bocca; ma stringendomi il braccio, mi guardava ogni ora
più fisso. Poi mi trasse, come accennandomi perch'io tornassi a sedermi: E pensi, tu,
proruppe, che s'io discernessi un barlume di libertà, mi perderei ad onta della mia
inferma vecchiaja in questi vani lamenti? o giovine degno di patria più grata! se non
puoi spegnere quel tuo ardore fatale, ché non lo volgi ad altre passioni?
Allora io guardai nel passato - allora io mi voltava
avidamente al futuro, ma io errava sempre nel vano e le mie braccia tornavano deluse senza
pur mai stringere nulla; e conobbi tutta tutta la disperazione del mio stato. Narrai a
quel generoso Italiano la storia delle mie passioni, e gli dipinsi Teresa come uno di que'
genj celesti i quali par che discendano a illuminare la stanza tenebrosa di questa vita. E
alle mie parole e al mio pianto, il vecchio pietoso più volte sospirò dal cuore
profondo. - No, io gli dissi, non veggo più che il sepolcro: sono figlio di madre
affettuosa e benefica; spesse volte mi sembrò di vederla calcare tremando le mie pedate e
seguirmi fino a sommo il monte, donde io stava per diruparmi, e mentre era quasi con tutto
il corpo abbandonato nell'aria - essa afferravami per la falda delle vesti, e mi ritraeva,
ed io volgendomi non udiva più che il suo pianto. Pure s'ella - spiasse tutti gli occulti
miei guai, implorerebbe ella stessa dal Cielo il termine degli ansiosi miei giorni. Ma
l'unica fiamma vitale che anima ancora questo travagliato mio corpo, è la speranza di
tentare la libertà della patria. - Egli sorrise mestamente; e poiché s'accorse che la
mia voce infiochiva, e i miei sguardi si abbassavano immoti sul suolo, ricominciò: -
Forse questo tuo furore di gloria potrebbe trarti a difficili imprese; ma - credimi; la
fama degli eroi spetta un quarto alla loro audacia; due quarti alla sorte; e l'altro
quarto a' loro delitti. Pur se ti reputi bastevolmente fortunato e crudele per aspirare a
questa gloria, pensi tu che i tempi te ne porgano i mezzi? I gemiti di tutte le età, e
questo giogo della nostra patria non ti hanno per anco insegnato che non si dee aspettare
libertà dallo straniero? Chiunque s'intrica nelle faccende di un paese conquistato non
ritrae che il pubblico danno, e la propria infamia. Quando e doveri e diritti stanno su la
punta della spada, il forte scrive le leggi col sangue e pretende il sacrificio della
virtù. E allora? avrai tu la fama e il valore di Annibale che profugo cercava per
l'universo un nemico al popolo Romano? - Né ti sarà dato di essere giusto impunemente.
Un giovine dritto e bollente di cuore, ma povero di ricchezze, ed incauto d'ingegno quale
sei tu, sarà sempre o l'ordigno del fazioso, o la vittima del potente. E dove tu nelle
pubbliche cose possa preservarti incontaminato dalla comune bruttura, oh! tu sarai
altamente laudato; ma spento poscia dal pugnale notturno della calunnia; la tua prigione
sarà abbandonata da' tuoi amici, e il tuo sepolcro degnato appena di un secreto sospiro.
- Ma poniamo che tu superando e la prepotenza degli stranieri e la malignità de' tuoi
concittadini e la corruzione de' tempi, potessi aspirare al tuo intento; di'? spargerai
tutto il sangue col quale conviene nutrire una nascente repubblica? arderai le tue case
con le faci della guerra civile? unirai col terrore i partiti? spegnerai con la morte le
opinioni? adeguerai con le stragi le fortune? ma se tu cadi tra via, vediti esecrato dagli
uni come demagogo, dagli altri come tiranno. Gli amori della moltitudine sono brevi ed
infausti; giudica, più che dall'intento, dalla fortuna; chiama virtù il delitto utile, e
scelleraggine l'onestà che le pare dannosa; e per avere i suoi plausi, conviene o
atterrirla, o ingrassarla, e ingannarla sempre. E ciò sia. Potrai tu allora inorgoglito
dalla sterminata fortuna reprimere in te la libidine del supremo potere che ti sarà
fomentata e dal sentimento della tua superiorità, e della conoscenza del comune
avvilimento? I mortali sono naturalmente schiavi, naturalmente tiranni, naturalmente
ciechi. Intento tu allora a puntellare il tuo trono, di filosofo saresti fatto tiranno; e
per pochi anni di possanza e di tremore, avresti perduta la tua pace, e confuso il tuo
nome fra la immensa turba dei despoti. - Ti avanza ancora un seggio fra' capitani; il
quale si afferra per mezzo di un ardire feroce, di una avidità che rapisce per
profondere, e spesso di una viltà per cui si lambe la mano che t'aita a salire. Ma - o
figliuolo! l'umanità geme al nascere di un conquistatore; e non ha per conforto se non la
speranza di sorridere su la sua bara. -
Tacque - ed io dopo lunghissimo silenzio esclamai: O Cocceo
Nerva! tu almeno sapevi morire incontaminato4. - Il vecchio mi guardò - Se tu né speri,
né temi fuori di questo mondo - e mi stringeva la mano - ma io! - Alzò gli occhi al
Cielo, e quella severa sua fisionomia si raddolciva di soave conforto, come s'ei lassù
contemplasse tutte le tue speranze. - Intesi un calpestio che s'avanzava verso di noi; e
poi travidi gente fra' tiglj; ci rizzammo; e l'accompagnai sino alle sue stanze.
Ah s'io non mi sentissi oramai spento quel fuoco celeste che
nel tempo della fresca mia gioventù spargeva raggi su tutte le cose che mi stavano
intorno, mentre oggi vo brancolando in una vota oscurità! s'io potessi avere un tetto ove
dormire sicuro; se non mi fosse conteso di rinselvarmi fra le ombre del mio romitorio; se
un amore disperato che la mia ragione combatte sempre, e che non può vincere mai - questo
amore ch'io celo a me stesso, ma che riarde ogni giorno e che s'è fatto onnipotente,
immortale - ahi! la Natura ci ha dotati di questa passione che è indomabile in noi forse
più dell'istinto fatale della vita - se io potessi insomma impetrare un anno solo di
calma, il tuo povero amico vorrebbe sciogliere ancora un voto e poi morire. Io odo la mia
patria che grida: - SCRIVI CIÒ CHE VEDESTI. MANDERO LA MIA VOCE DALLE
ROVINE, E TI DETTERÒ LA MIA STORIA. PIANGERANNO I SECOLI SU LA MIA SOLITUDINE; E LE GENTI
SI AMMAESTRERANNO NELLE MIE DISAVVENTURE. IL TEMPO ABBATTE IL FORTE: E I DELITTI DI SANGUE
SONO LAVATI NEL SANGUE. - E tu lo sai, Lorenzo, avrei coraggio di scrivere; ma
l'ingegno va morendo con le mie forze, e vedo che fra pochi mesi avrò fornito questo mio
angoscioso pellegrinaggio.
Ma voi pochi sublimi animi che solitarj o perseguitati, su le
antiche sciagure della nostra patria fremete, se i cieli vi contendono di lottare contro
la forza, perché almeno non raccontate alla posterità i nostri mali? Alzate la voce in
nome di tutti, e dite al mondo: Che siamo sfortunati, ma né ciechi né vili; che non ci
manca il coraggio, ma la possanza. - Se avete braccia in catene, perché inceppate da voi
stessi anche il vostro intelletto di cui né i tiranni né la fortuna, arbitri d'ogni
cosa, possono essere arbitri mai? Scrivete. Abbiate bensì compassione a' vostri
concittadini, e non istigate vanamente le lor passioni politiche; ma sprezzate
l'universalità de' vostri contemporanei: il genere umano d'oggi ha le frenesie e la
debolezza della decrepitezza; ma l'umano genere, appunto quand'è prossimo a morte,
rinasce vigorosissimo. Scrivete a quei che verranno, e che soli saranno degni d'udirvi, e
forti da vendicarvi. Perseguitate con la verità i vostri persecutori. E poi che non
potete opprimerli, mentre vivono, co' pugnali, opprimeteli almeno con l'obbrobrio per
tutti i secoli futuri. Se ad alcuni di voi è rapita la patria, la tranquillità, e le
sostanze; se niuno osa divenire marito; se tutti paventano il dolce nome di padre, per non
procreare nell'esilio e nel dolore nuovi schiavi e nuovi infelici, perché mai accarezzate
così vilmente la vita ignuda di tutti i piaceri? Perché non la consecrate all'unico
fantasma ch'è duce degli uomini generosi, la gloria? Giudicherete l'Europa vivente, e la
vostra sentenza illuminerà le genti avvenire. L'umana viltà vi mostra terrori e
pericoli; ma voi siete forse immortali? fra l'avvilimento delle carceri e de' supplicj
v'innalzerete sovra il potente, e il suo futuro contro di voi accrescerà il suo vituperio
e la vostra fama.
Milano, 6 Febbraio 1799 |
Diriggi le tue lettere a Nizza di Provenza
perch'io domani parto verso Francia: e chi sa? forse assai più lontano: certo che in
Francia non mi starò lungamente. Non rammaricarti, o Lorenzo, di ciò; e consola quanto
tu puoi la povera madre mia. Tu dirai forse ch'io dovrei fuggire prima me stesso, e che se
non v'ha luogo dov'io trovi stanza, sarebbe omai tempo ch'io m'acquetassi. È vero, non
trovo stanza; ma qui peggio che altrove. La stagione, la nebbia perpetua, quest'aria
morta, certe fisonomie - e poi - forse m'inganno - ma parmi di trovar poco cuore; né
posso incolparli; tutto si acquista; ma la compassione e la generosità, e molto più
certa delicatezza di animo nascono sempre con noi, e non le cerca se non chi le sente. -
Insomma domani. E mi si è fitta in fantasia tale necessità di partire, che queste ore
d'indugio mi pajono anni di carcere.
Malaugurato! perché mai tutti i suoi sensi si risentono
soltanto al dolore, simili a quelle membra scorticate che all'alito più blando dell'aria
si ritirano? goditi il mondo com'è, e tu vivrai più riposato e men pazzo. - Ma se a chi
mi declama sì fatti sermoni, io dicessi: Quando ti salta addosso la febbre, fa che il
polso ti batta più lento, e sarai sano - non avrebbe egli ragione da credermi
farneticante di peggior febbre? come dunque potrò io dar leggi al mio sangue che fluttua
rapidissimo? e quando urta nel cuore io sento che vi si ammassa bollendo, e poi sgorga
impetuosamente; e spesso all'improvviso e talora fra il sonno par che voglia spaccarmisi
il petto. - O Ulissi! eccomi ad obbedire alla vostra saviezza, a patti ch'io, quando vi
veggo dissimulatori, agghiacciati, incapaci di soccorrere alla povertà senza insultarla,
e di difendere il debole dalla ingiustizia; quando vi veggo, per isfamare le vostre plebee
passioncelle, prostrati appié del potente che odiate e che vi disprezza, allora io possa
trasfondere in voi una stilla di questa mia fervida bile che pure armò spesso la mia voce
e il mio braccio contro la prepotenza; che non mi lascia mai gli occhi asciutti né chiusa
la mano alla vista della miseria; e che mi salverà sempre dalla bassezza. Voi vi credete
savi, e il mondo vi predica onesti: ma toglietevi la paura! - Non vi affannate dunque; le
parti sono pari: Dio vi preservi dalle mie pazzie; ed io lo prego con tutta
l'espansione dell'anima perché mi preservi dalla vostra saviezza. - E s'io scorgo
costoro, anche quando passano senza vedermi, io corro subitamente a cercare rifugio nel
tuo petto, o Lorenzo. Tu rispetti amorosamente le mie passioni, quantunque tu abbia
sovente veduto il leone ammansarsi alla sola tua voce. Ma ora! Tu il vedi: ogni consiglio
e ogni ragione è funesta per me. Guai s'io non obbedissi al mio cuore! - la Ragione? - è
come il vento; ammorza le faci, ed anima gl'incendj. Addio frattanto.
Ore 10, della mattina |
Ripenso - e sarà meglio che tu non mi scriva finché tu non abbia mie lettere. Prendo il cammino delle Alpi Liguri per iscansare i ghiacci del Moncenis: sai quanto micidiale m'è il freddo.
Ore 1 |
Nuovo inciampo: hanno a passare ancora due giorni prima ch'io riabbia il passaporto. Consegnerò questa lettera nel punto ch'io sarò per salire in calesse.
8 Febbraro, ore 1 1/2 |
Eccomi con le lagrime su le tue lettere. Riordinando le mie carte mi sono venuti sott'occhio questi pochi versi che tu mi scrivevi sotto una lettera di mia madre due giorni innanzi ch'io abbandonassi i miei colli. - «T'accompagnano tutti i miei pensieri, o mio Jacopo: t'accompagnano i miei voti, e la mia amicizia, che vivrà eterna per te. Io sarò sempre l'amico tuo e il tuo fratello d'amore; e dividerò teco anche l'anima mia.» Sai tu ch'io vo ripetendo queste parole, e mi sento sì fieramente percosso che sono in procinto di venire a gittarmiti al collo e a spirare fra le tue braccia? Addio addio. Tornerò.
Ore 3 |
Sono andato a dire addio al Parini. - Addio, mi disse, o giovine sfortunato. Tu porterai da per tutto e sempre con te le tue generose passioni alle quali non potrai soddisfare giammai. Tu sarai sempre infelice. Io non posso consolarti co' miei consiglj, perché neppure giovano alle sventure mie derivanti dal medesimo fonte. Il freddo dell'età ha intorpidito le mie membra; ma il cuore - veglia ancora. Il solo conforto ch'io possa darti è la mia pietà: e tu la porti tutta con te. Fra poco io non vivrò più, ma se le mie ceneri serberanno alcun sentimento - se troverai qualche sollievo querelandoti su la mia sepoltura, vieni. - Io proruppi in dirottissime lagrime, e lo lasciai: ed uscì seguendomi con gli occhi mentr'io fuggiva per quel lunghissimo corridojo, e intesi che ei tuttavia mi diceva con voce piangente - addio.
Ore 9 della sera |
Tutto è in punto: I cavalli sono ordinati per la mezzanotte - vado a coricarmi così vestito sino a che giungano: mi sento sì stracco! - addio frattanto; addio Lorenzo - Scrivo il tuo nome e ti saluto con tenerezza e con certa superstizione ch'io non ho provato mai mai. Ci rivedremo - se mai dovessi! no, io non morrei senza rivederti e senza ringraziarti per sempre - e te, mia Teresa: ma poiché il mio infelicissimo amore costerebbe la tua pace ed il pianto della tua famiglia, io fuggo senza sapere dove mi trascinerà il mio destino: l'Alpi e l'Oceano e un mondo intero, s'è possibile, ci divida.
1 - «Da prima questo racconto parevami
esagerato dalla fantasia costernata di Jacopo; ma poi vidi che nello stato Cisalpino non
vi era codice criminale. Si giudicava con le leggi de' caduti governi; e in Bologna co'j
decreti ferrei de' Cardinali, che minacciavano di morte ogni furto qualificato eccedente
le cinquantadue lire. Ma i Cardinali mitigavano quasi sempre la pena; il che non può
essere conceduto a' tribunali della Repubblica, esecutori necessariamente inflessibili
delle leggi: così spesso la Giustizia impassibile è più funesta della arbitraria
Equità.»
2 - «Vedi alla fine di questo volume la lettera 14 Marzo»
3 - «Dante accenna questa battaglia nel X dell'Inferno; e
que' versi forse suggerirono all'Ortis di visirare Montaperto Ma il lettore può trarne
ampie notizie dalle croniche di G. Villani, lib. IV, 83.»
4 - «Questa esclamazione dell'Ortis dee mirare a quel passo
di Tacito: "Cocceo Nerva, assiduo col Principe, in tutta umana e divina ragione
dottissimo, florido di fortuna e di vita, si pose in cuor di morire. Tiberio il riseppe, e
instò interrogandolo, pregandolo sino a confessare che gli sarebbe di rimorso e di
macchia se il suo famigliarissimo amico fuggisse senza ragioni la vita. Nerva sdegnò il
discorso; anzi s'astenne d'ogni alimento. Chi sapea la sua mente, diceva ch'ei più
dappresso veggendo i mali della repubblica, per ira e sospetto volle, finché era
illibato, e non cimentato, onestamente finire". Ann. VI.»
© 1996 - by prof. Giuseppe Bonghi
E-mail: Giuseppe Bonghi
@fausernet.novara.it
Ultimo aggiornamento: 18 luglio 2000